La forza dei principi della Costituzione chiede a legislatori e giudici di tenere in costante aggiornamento il Codice civile del 1942, entrato in vigore in epoca pre-costituzionale, di pari passo con l’evoluzione della società, dei costumi e della scienza. Il filone della “costituzionalizzazione del diritto privato” ha prodotto due casi recenti nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità in cui i giudici hanno tolto via un po’ di rughe dal codice neo-ottantenne.
L’entrata in vigore della Costituzione e la crescente legittimazione del ruolo dei giudici nell’interpretazione evolutiva delle norme e degli impianti categorici alla loro base ha coinvolto anche il Codice civile, entrato in vigore in epoca pre-costituzionale.
Il tema della conformità delle norme codicistiche con quelle costituzionali ha, di fatti, interessato fortemente il dibattito giurisprudenziale e dottrinario interessando già la Consulta con la sua prima sentenza emanata. Nella sentenza n. 1 del 1956 la Corte, ribadendo l’assoluta precettività delle norme costituzionali, ha da subito chiarito come la forza dei principi costituzionali non fosse contrastabile all’interno dell’ordinamento, con ovvia inclusione dello ius privatorum.
Ma l’ampia portata dei principi supremi della Carta costituzionale e l’interpretazione cd. “aperta” dell’art. 2 della Costituzione ha indirettamente “chiesto” al legislatore e ai giudici di tenere in costante aggiornamento le norme codicistiche pre-costituzionali, per far sì che i diritti inviolabili non fossero un catalogo chiuso, ma costantemente permeato nell’evoluzione della società, così come i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale dovessero trovare nuove forme di garanzia e di tutela.
In parte da questa traccia (che tocca anche l’integrazione costante con le Carte dei diritti sovranazionali, che sospinge quotidianamente le Corti nazionali verso nuovi orizzonti “creativi”) nasce il filone della cd. “costituzionalizzazione del diritto privato”, di ampio respiro in dottrina e in giurisprudenza. Quest’ultima, in particolare, recentemente ha dato alcune prove di come l’evoluzione della società, dei costumi e delle norme tecniche di natura scientifica determinino per il giurista l’obbligo di sussumere particolari norme da disposizioni costituzionali ampie come l’art. 2: queste norme dovranno poi aggiornare l’interpretazione di molte delle clausole generali del codice e, eventualmente, modificare l’assetto di quelle più particolareggiate.
Un caso abbastanza emblematico e recente che vorrei mettere in risalto è quello della sentenza n. 281/2016, dove la Corte costituzionale ha avuto modo di dichiarare l’illegittimità costituzionale degli articoli 237, 262, 299 del c.c. nella parte in cui non consentono ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno. La dichiarazione di incostituzionalità non fu, per così dire, totalizzante, in quanto fu limitata, come dichiarato dalla Corte stessa al punto 6 del Considerato in diritto, al fatto che “[…] in assenza dell’accordo dei genitori, residua la generale previsione dell’attribuzione del cognome paterno, in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità […]”. L’intervento del legislatore non è mai sopraggiunto lasciando grandi margini di resistenza al patronimico, che rimaneva, appunto, la regola in caso di disaccordo tra i genitori. Ma lo scorso anno la Corte è ritornata sull’argomento, con ampia probabilità spazientita dall’inerzia legislativa, sollevando dinnanzi a sé stessa la questione sulla norma dell’art. 262 c.c., indagando sull’obbligo generale di utilizzo del cognome paterno in mancanza di diverso accordo con i genitori: il presagio per la norma del 262 sembra essere funesto…
Con questa questione la Corte ha voluto fortemente rimarcare come l’interpretazione evolutiva dei principi supremi costituzionali imponga il costante aggiornamento delle norme codicistiche: in questo caso era l’identità del minore, della sua persona, del diritto al nome che si ancora fortemente in quella tutela della personalità sociale che è retta dall’art. 2. E, inoltre, la non parità dei coniugi e dei genitori, i quali vedono compromessa la pari uguaglianza morale e giuridica, non consentendo al ramo materno di poter affermare la propria identità e di condividerla con quella paterna.
Leggi anche gli altri articoli sul Codice civile
- Un codice sospeso nel tempo
- Il Codice Civile compie 80 anni: è in salute?
- Il nuovo Codice Civile nei discorsi ufficiali
Un altro esempio arriva dall’evoluzione scientifica e dalla costante necessità per le norme codicistiche di tenersi al passo con le nuove forme di garanzia e tutela dei diritti che derivano dal progresso della scienza. La Corte di Cassazione nel 2019 ha accolto il ricorso di una madre che aveva dato alla luce la propria figlia grazie alla tecniche di procreazione medicalmente assistita (in Spagna ma la bambina era nata in Italia). La madre richiedeva a due anni dalla nascita che venisse rettificato il certificato di nascita della bambina con indicazione del cognome del marito, il quale era venuto a mancare prima che la bambina nascesse (ma la procreazione si è avuta comunque del seme crioconservato del marito, il quale aveva prestato consenso informato regolarmente sulla base dell’art. 6 della legge n. 40/2004) e, soprattutto, prima che la madre si sottoponesse alla tecniche di procreazione medicalmente assistita, così da non rendere operativa la presunzione del concepimento in costanza di matrimonio e la possibilità di attribuzione del cognome paterno ex art. 232 cc. Le conferme, nei due gradi di giudizio di merito, della scelta dell’Ufficiale di stato civile di non rettificare l’atto di nascita della bambina ha portato la madre a rivolgersi alla Suprema Corte, la quale ha avuto il delicato compito di constatare se la particolare regolazione della procreazione medicalmente assistita configurasse un’eccezione al modello del codice del 1942 e che, magari, potesse condurre a una lettura maggiormente orientata dal punto di vista costituzionale.
La Cassazione ha risposto affermativamente al quesito, dando maggior peso alle norme della legge n. 40/2004 (in particolare l’art. 6 che sancisce la valenza del consenso informato al ricorso alle tecniche e che era stato regolarmente prestato dal marito prima della sua scomparsa). La Corte, in particolare, afferma come “[…] (7.8.6.3) In uno scenario, nel quale, […] la genitorialità spesso va staccandosi dal nesso col matrimonio e dalla famiglia, declinandosi in una molteplicità di contesti prima ritenuti inediti, è, allora, necessario porsi in un’altra prospettiva, dove il rapporto familiare non si pone più in termini convenzionali, in cui nuove ipotesi di relazioni intersoggettive calzano la scena della famiglia, che non può più essere solo quella che il codice civile ha previsto nel 1942 […]”. Per far sì, quindi, che la bi-genitorialità, lo status filiationis, ottenuto tramite tecniche frutto del progresso scientifico a tutela della possibilità di creare un nucleo famigliare (artt. 29 e 30 Cost.) venissero tutelati occorreva dare rilievo a quelle norme speciali della legge 40 che superassero quelle codicistiche, ritenute al caso concreto un “[…] (punto 8) ostacolo all’attribuzione al nato a seguito di fecondazione omologa eseguita post mortem dello status di figlio del marito deceduto, anche se la nascita sia avvenuta dopo il decorso del termine di trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio conseguente alla sua morte […]”.
Ecco, quindi, alcuni casi in cui la costituzionalizzazione del diritto privato è entrata preponderantemente, imponendo ai giudici di dare nuove iniezioni di giovinezza al Codice neo-ottantenne.
Permane, comunque, prevalente il peso dei giudici nell’applicazione diretta dei principi costituzionali, ma soprattutto nel riscontro di un’evoluzione degli interessi di natura costituzionale in gioco e nella riscrittura delle norme (come nel caso della Consulta) sia di tutto appannaggio di chi non è in Parlamento. Come nel caso dell’attribuzione del cognome materno, la Corte costituzionale aveva atteso invano un intervento risolutore del legislatore… Sarà che il Legislatore abbia difficoltà a badare a un arzillo ottantenne, che però potrebbe presto chiedere a chi lo ha partorito nel 1942 un lifting più incisivo e forse decisivo per superare le rughe.
© Riproduzione riservata
La fruizione dei contenuti sul nostro sito e sulle nostre pagine social è totalmente gratuita, libera da immonde pubblicità ed è il frutto del lavoro di una nutrita squadra di persone. Puoi contribuire al mantenimento e allo sviluppo della nostra rivista acquistando i nostri libri targati Le Lucerne.