In questa inusitata primavera parliamo di fiori e soprattutto di api e facciamo amicizia con il più bello degli articoli del codice civile, quello che tutte le matricole vanno a curiosare, che nessuno sa perché esiste e che sempre lascia inevasa la domanda se mai sia stata applicata. Noi a questa domanda rispondiamo di sì e vi raccontiamo anche un singolare caso.
Non intendendomi un granché, diciamo pure per nulla, di apicultura, e men che meno di diritto civile, per scrivere questo articolo mi sono affidato principalmente a due letture, che ho scelto naturalmente avendo come principale criterio quello di diffidare da pubblicazioni troppo recenti (massimo 1921). Due letture che mai avrei pensato di fare in vita mia. Uno tutto può aspettarsi dalla vita, persino le cose più inusitate e impensabili: la pandemia, il Benevento in serie A, Forza Italia e i 5 Stelle al governo assieme, Conte all’Inter, il rock che vince a Sanremo osannato dalle classi 2005, ma la lettura di due testi come “L’Apicoltura e il diritto civile” (1895) e “Le api e i vicini” (1921), quello proprio no, nessuno se lo aspetterebbe mai.
E invece è proprio quello che è capitato a me. E dato che se è successo a me può succedere a chiunque, condivido subito questa assurda sorte con tutti voi. Il motivo? Be’, è presto detto. Forse nessuno se ne è ancora avveduto davvero, per la misera condizione in cui versiamo di questi tempi, ma siamo in primavera, e per celebrare questa stagione che piace ai più (a me no, a me piace l’autunno) si era pensato qui nella brulicante redazione di Massime dal Passato di omaggiare la primavera e il suo simbolo per eccellenza: i fiori. Ma poi, più che parlar di fiori, abbiam pensato di occuparci di api.
Anche perché nessuno fa mistero che una delle norme più curiose del nostro ordinamento, a tutti nota, è quella dell’art. 924 del vigente codice civile. L’articolo che tutte le matricole vanno a curiosare, che nessuno sa perché esiste e che sempre lascia inevasa la domanda se mai sia stata applicata: “Il proprietario di sciami di api ha diritto d’inseguirli sul fondo altrui, ma deve indennità per il danno cagionato al fondo; se non li ha inseguiti entro due giorni o ha cessato durante due giorni d’inseguirli, può prenderli e ritenerli il proprietario del fondo“. E noi non potevamo non occuparci una buona volta di questa norma.
L’ape col suo corpo velloso, visitando i fiori, si sopraccarica di polline, e così, come incipriata, passando di fiore in fiore, lo porta ai pistilli, e feconda l’ovario; compiendo, senza avvedersene, per così dire l’ufficio di mercurio galante negli amori delle piante.
Così scriveva l’Avv. Negri ne Le api e vicini, una delle nostre incredibili letture. Nell’altra, di Sampaolo, invece troviamo un vero e proprio trattato di apicultura e diritto, con un incipit davvero delizioso:
Le api, animaletti industri ed ingegnosi, vivono aggruppate in società con a capo una regina da esse creata, a cui prestano spontanee riverenza ed ossequio. Vanno in cerca dei più soavi umori che raccolgono dai prati, e di cui fabbricano con mirabile arte e simmetria le loro celle.
Le lodi alle api si sprecano, dalla loro utilità per i raccolti, alla produzione del miele, all’esempio come corpo unico le cui parti collaborano per lo scopo comune, etc. etc. Ma si aggiunge anche che “se hanno avuto le api onore di lodi, non è a loro mancato biasimo e malavoce”. Vi è infatti sempre stata una lotta tra gli apicoltori e i proprietari di giardini e vigneti, i primi che pretendevano tutela a oltranza per l’industria apistica, gli altri sostenendo che esse nuocessero e volendone “lo esterminio”. L’altro problema era quello delle distanze tra due apicoltori vicini, per evitare che gli sciami arrivassero a confondersi, problema sentito fin da epoca antica se addirittura il n. 28 delle leggi di Dracone (sì, proprio quello cattivo) fissava una distanza minima di circa cento metri tra gli alveari di due diversi proprietari. La questione delle distanze tra api e resto del mondo invece è da noi regolata dall’art. 896 bis c.c. (gli apiari devono essere collocati a non meno di dieci metri da strade e non meno di cinque da confini di altre proprietà, mentre devono rispettare una distanza minima di un chilometro da impianti industriali saccariferi).
Il rapporto dunque tra api è diritto è già di immediata evidenza.
Gli antichi si occuparono di api per determinarne la natura o meno di animali mansuefatti, risolvendosi nel sostenere che le api sono animali selvatici, anche se addomesticabili. Un po’ come i pavoni e i colombi. Anche nelle antiche leggi germaniche le api erano intese quali animali selvatici, anzi feroci. L’ape infatti, se monta in furia è terribile, e benché piccola di corpo, si avventa con feroce accanimento contro chi, uomo o animale creda la turbi.
Lo stesso codice civile unitario (1865) al pari di quello sardo (1837) considerava le api come animali selvatici, e già prevedeva il diritto per il proprietario di sciami d’api di inseguirle sul fondo altrui (era il vecchio art. 713, papà del nostro 926 c.c.), stesso diritto che spettava a tutti i proprietari di animali mansuefatti.
Non voglio poi annoiarvi con tutto il resto, dal fatto che i Re di Francia davano in feudo anche le api (immaginate quelli che invece dei castelli si trovavano un alveare…), che la Chiesa pretendeva la decima anche sulle api, il miele e la cera (ma tanto lo pretendeva su tutto), che le api da sempre hanno formato oggetto di usufrutto, donazione, compravendita (meglio farlo a marzo o aprile, anche se costa un po’ in più), permuta, locazione, soccida (in Italia praticata soprattutto in Sicilia), società (non società tra api, ovviamente).
Ovviamente poi gran profluvio di ragionamenti sono stati dedicati ai modi di acquisto della proprietà delle api, che sono res nullius se sono libere, e poi – ed eccoci finalmente al punto – alla questione dell’inseguimento. E sì, perché le api non se ne stanno ferme immobili, e non le si può tenere al guinzaglio, e nemmeno chiudere in una stalla, al massimo in una arnia, ma essendo piccoli e volanti e dovendo fare il proprio mestiere all’aperto, non di rado accade che se ne scappino via – sempre o quasi tutte assieme, è ovvio – o che non trovino la via di casa.
E dunque cosa può fare il povero proprietario? Inseguirle, lo sappiamo bene. E per questo c’è uno speciale diritto di accedere sul fondo altrui anche senza il consenso del proprietario (a condizione che la cattura avvenga entro due giorni e non si interrompa). Di applicazione di questa magica norma, quasi una formula magica quasi nemmeno l’ombra. Ma noi l’abbiamo trovata! In una sentenza degli anni Trenta, relativa a una vicenda accaduta in Abruzzo (a Sulmona), dove un tale aveva dovuto inseguire il proprio sciame d’api nel fondo altrui, non in aperta campagna, ma proprio in città. Da lì la domanda: ma questa stramba norma si applica solo al mondo rurale o no?
Qui la mitica massima, e giù cliccando il tasto fluorescente la sentenza – breve – per esteso. A voi tutti, intanto, felice primavera.
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