La figura del magistrato Rosario Livatino è strettamente legata alla sua tragica fine, avvenuta per mano della mafia nel settembre 1990. Ciononostante è importante ricordarlo anche per il grande ruolo avuto nella definizione del ruolo e dell’etica del giudice, che si intreccia con il tema a lui caro del rapporto della magistratura con la società.
Nel confrontarsi con la vita di persone che nell’immaginario collettivo sono ormai assurte a icone, rappresentazioni concrete di un ideale superiore, il rischio è sempre lo stesso: appiattirsi nel solco della più consolidata retorica, accuratamente tracciato da anni di discorsi, commemorazioni, ricorrenze e studi “in memoria di”.
Nel caso di Rosario Livatino possiamo iniziare col dire che questo pericolo non si corre troppo: a differenza di tanti altri suoi colleghi caduti nella perenne lotta contro la mafia (su tutti – pleonastico ricordarlo – Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) la figura di questo giovane magistrato siciliano pare essere stata un po’ dimenticata e solo recentemente riscoperta anche e soprattutto grazie alle iniziative della Chiesa Cattolica, che si prepara a proclamarlo beato il prossimo 9 maggio nella Cattedrale di Agrigento.
Il motivo di questo silenzio è difficile da individuare, ma il fatto di essere stato ucciso (il 21 settembre 1990 a 37 anni) da una associazione criminale come la Stidda, poco conosciuta rispetto ad altre ben più note cosche, e il fatto di non essere stato, in vita, uno di quei magistrati “famosi” il cui nome si rincorre quotidianamente sui giornali hanno certamente contribuito a ridurre l’interesse dell’opinione pubblica verso questo personaggio.
Eppure parlare di Livatino, soprattutto in uno spazio come questo che si rivolge soprattutto a un pubblico di giuristi, pare oggi di una certa utilità. La ragione non è però quella che potrebbe apparire più scontata, ovvero la necessità di ricordare uno dei tanti servitori dello Stato caduti nella lotta contro la mafia, ma è piuttosto sul ruolo e sull’etica del giudice che Livatino ha ancora qualcosa da testimoniare e da raccontarci.
Nato a Canicattì, in provincia di Agrigento, il 3 ottobre 1952, entrò in magistratura come uditore presso il Tribunale della sua città natale a 26 anni. Era quindi uno di quei “giudici ragazzini”, come li apostroferà con malcelato disprezzo il presidente della Repubblica Cossiga (salvo poi smentire il riferimento al Nostro qualche anno più tardi) lamentando un eccessivo “protagonismo” dei giovani magistrati in complesse questioni sociali ed economiche. Dopo circa 10 anni in cui svolse le funzioni di sostituto procuratore ad Agrigento, occupandosi dell’istruzione dei principali processi per mafia locali, nel 1989 Livatino fu nominato giudice a latere della speciale sezione misure di prevenzione istituita presso il Tribunale di Agrigento, incarico che mantenne fino alla sua prematura morte.
Più che un teorico Livatino era quindi un giurista pratico, più dedito all’azione che alla speculazione, come denotano i pochi scritti che ha pubblicato. Il tema tuttavia su cui amava particolarmente soffermarsi nelle occasioni in cui era invitato a parlare (quantomeno nelle testimonianze che ci sono giunte) è certamente quello dell’etica della magistratura e del suo rapporto con la società.
In una conferenza ormai divenuta celebre, tenuta presso il Rotary di Canicattì il 7 aprile 1984, Livatino propose quella che riteneva essere la sua corretta interpretazione del ruolo del giudice di fronte a un mondo in costante mutamento. Si tratta di un discorso breve e, come si vedrà, ancora decisamente attuale, nel quale si toccano gli aspetti più delicati del “posizionamento” della magistratura nella società, a cominciare dal suo rapporto con il mondo economico e, in particolare, con quello del lavoro.
Il giudice, sostiene Livatino, si trova in questo ambito a essere “tirato per la giacchetta” da chi si aspetta che «possa far buon uso del suo potere interpretativo delle leggi, accogliendo di esse quell’accezione che privilegiasse gli interessi delle classi economiche dominanti» e contemporaneamente da chi considera all’opposto «l’aula giudiziaria come luogo di necessario, di dovuto riequilibrio fra parte sociale forte e parte sociale debole».
Se in questi ultimi tempi la questione si è un po’ eclissata dal dibattito pubblico, ancora pochi anni fa essa era stata riproposta (pressoché nei medesimi termini) in occasione dell’introduzione da parte del Governo Renzi del Jobs Act e dell’esclusione dell’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori ai contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati dopo il 7 marzo 2015. Anche in quel frangente c’era stato un serrato dibattito fra le stesse “correnti” interne della Magistratura tra chi riteneva costituisse un dovere etico cercare di offrire interpretazioni anche un po’ “forzate” del dettato normativo che potessero privilegiare i lavoratori e chi invece proponeva una lettura più neutra dello stesso.
Secondo Livatino, pur nella sua doverosa attività interpretativa, il giudice non doveva farsi apertamente garante delle istanze sociali se il costo era di andare oltre la volontà della legge, «in quanto imprimerebbe a se stesso ed ai propri compiti dei caratteri e delle finalità totalmente estranei a quello che ancora oggi è il prototipo dell’interprete giudiziario nel comune sentire sociale come figura super partes e tali da far seriamente pensare ad un vero e proprio tradimento nei riguardi di quei valori la cui tutela la nostra Carta costituzionale affida al giudice».
Certo, perché questo sia possibile, e il giudice eviti di trascendere il proprio ruolo costituzionale di interprete per assumere quello di “legislatore occulto”, è necessario che la normativa sia quanto più chiara e lineare. Certamente si trattava di una vexata quaestio già all’epoca, tanto che Livatino vi fa espresso riferimento nel suo discorso:
La magistratura, per restare ancora fedele al dovere costituzionale di fedeltà alla legge, altro non cerca, anche per evitare ondeggiamenti, incertezze ed ulteriori ingiusti rimproveri, che di poter disporre di dettati normativi coerenti, chiari, sicuramente intelligibili, nonché di testi negoziali nei quali la posizione di diritto e di obbligo delle parti non sia offuscata da una trama tormentata di sottili e complicate espressioni verbali, che nascondono premesse politiche tutt’altro che chiare anziché una precisa volontà che sostenga il precetto. Fin quando tutto questo non sarà assicurato dal nostro legislatore e dalle parti sociali in sede di contrattazione, sarà ineliminabile che il giudice di Pordenone ed il giudice di Ragusa, con gli abissi di cultura e dei substrati territoriali, sociali ed economici nei quali si trovano ad operare, cerchino di districarsi nella perigliosa giungla di queste regolamentazioni adoperando dei machete interpretativi tra loro dissimili o addirittura contraddittori.
Colpisce ancora la nitidezza del ragionamento e l’attualità del riferimento alla «trama tormentata di sottili e complicate espressioni verbali» troppo spesso presenti nelle leggi italiane per celare il vero problema di fondo, ovvero un’ambiguità del Legislatore dovuta a compromessi raggiunti al ribasso tra le forze politiche delle varie coalizioni di maggioranza.
Un altro tema affrontato è poi il rapporto fra magistratura e politica: quando Livatino pronuncia questo discorso Mani pulite è ormai alle porte, e dopo decenni di relativa “pace” lo scontro tra i due poteri dello Stato era ormai sul punto di deflagrare, lasciando strascichi ancora oggi in parte insoluti. La questione su cui il giudice siciliano si sofferma è quella della compatibilità tra la funzione del giudicare e l’adesione a partiti politici, gruppi e associazioni. In particolare come dovrebbe comportarsi un magistrato che sia stato eletto in un’assemblea legislativa tra le fila di un partito una volta terminato il suo mandato? L’ideale sarebbe che ciò non avvenisse, ma qualora i magistrati ritenessero «che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza l’ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall’ordine giudiziario».
Una soluzione così draconiana era necessaria, in quanto il problema non era tanto l’indipendenza in concreto del singolo giudice (Livatino infatti ammetteva che vi potessero essere soggetti in grado di mantenere un atteggiamento imparziale e autonomo anche dopo aver ricoperto cariche politiche) ma si collegava piuttosto a quello ancor più delicato dell’immagine stessa del giudice presso l’opinione pubblica. Detto altrimenti, la questione non è (solo) essere indipendenti, ma apparire anche tali all’esterno. È per questo motivo che Livatino propende per una soluzione abbastanza “drastica” riguardo agli eventuali coinvolgimenti politici del giudice, che deve costantemente “dimostrare” alla società la propria autonomia non solo nelle proprie sentenze, ma anche «nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori dalle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza».
Non si tratta di raggiungere un’utopistica e austera perfezione morale (quasi fosse un “sacerdote” del diritto), ma di impostare la propria immagine sulla responsabilità, sull’equilibrio e sulla serietà: «Un giudice siffatto è quello voluto dalla umanità di sempre, configurato in ogni ordinamento dello Stato di diritto, esaltato nella Carta costituzionale».
- Curiosità giuridiche da ogni tempo e luogo
- Adele Pertici: la prima notaia
- La clausola degli spettri e altre storie di fantasmi in tribunale
- 9 agosto 1883: Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Torino ammette Lidia Poët
L’alta concezione che aveva Livatino della propria professione non può tuttavia essere apprezzata in pieno se non la si legge alla luce della profonda fede che egli ha attivamente manifestato nel corso della sua pur breve esistenza. Infatti l’atto di giudicare era vissuto in una profonda dimensione spirituale in quanto (come affermò lo stesso Livatino in un’altra conferenza tenuta il 30 aprile 1986 sempre a Canicattì) era proprio con esso «che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale impegno spirituale. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia».
Questa particolare concezione della giurisdizione, intesa come testimonianza di fede, è la ragione che spinse Giovanni Paolo II nel 1993 a definirlo come «martire della giustizia e indirettamente della fede» e il 21 dicembre scorso papa Francesco ad autorizzare la promulgazione del decreto che riconosceva che «l’avversione nei suoi confronti era inequivocabilmente riconducibile all’odium fidei» (Decreto della Congregazione delle cause dei Santi, 21 dicembre 2020) aprendo così la strada alla prossima beatificazione.
Proprio la sua profonda fede lo ha nel tempo portato a sostenere posizioni oggi certamente meno popolari di quanto probabilmente non fossero all’epoca rispetto a temi come l’eutanasia, la fecondazione assistita e l’obiezione di coscienza che, in fin dei conti, ancora oggi – a distanza di oltre trent’anni – non possono dirsi del tutto risolte a livello ordinamentale.
Considerare quindi la figura di Livatino solo in relazione alla sua fine, limitandosi a ricordarlo come un giudice ucciso dalla mafia è forse riduttivo. In effetti, come ha recentemente affermato colui che nel processo di beatificazione ha ricoperto il ruolo di “postulatore”, don Giuseppe Livatino (omonimo del magistrato), lo stesso Rosario non si ritroverebbe probabilmente nella definizione di “giudice antimafia”. Come si evince dai suoi discorsi egli ha piuttosto incarnato silenziosamente l’essenza di una magistratura operosa (fu riconosciuto dal CSM come il magistrato più produttivo della Procura di Agrigento tra il 1984 ed il 1989), discreta e, nel contempo, risoluta e per ciò pienamente consapevole della gravità della sua funzione.
Proprio in un periodo come l’attuale in cui la magistratura (non tanto nei singoli, ma come “corpo”) sembra avere un po’ smarrito questa consapevolezza (come evidenziano le recenti e tristi vicende che hanno coinvolto alcuni membri di spicco del CSM) riflettere su queste questioni pare ormai non più procrastinabile . D’altronde, parafrasando una nota frase di Livatino, oggi come non mai la Società pretende (ci si permetta: giustamente) che il mondo del diritto (in tutte le sue componenti) diventi una volta per tutte pienamente “credibile” e la smetta invece di continuare ad apparire farisaicamente “credente”.
© Riproduzione Riservata