La “metamorfosi” della Giustizia nell’arte. Tra aequitas e imparzialità del giudice
In passato l’amministrazione della giustizia si è sempre giovata di un notevole apparato iconografico e scenico, finalizzato a “sacralizzare” sia i momenti principali in cui essa si articolava (il processo e l’esecuzione della sentenza su tutti) sia i protagonisti che vi partecipavano.
Oggi questa tendenza non solo si è arrestata, ma è in fase fortemente recessiva, come dimostrano ad esempio l’uso sempre meno frequente della toga (ormai di fatto sparita dal processo civile, e spesso “mal digerita” dagli operatori anche nel processo penale) e, da ultimo, le udienze celebrate on-line, pienamente giustificate a causa dell’emergenza sanitaria connessa al Covid, ma potenzialmente idonee a costituire un “pericoloso” precedente in grado di “spersonalizzare” definitivamente i tradizionali “riti” processuali quando l’epidemia sarà superata.
Inoltre, l’equiparazione (figlia della rivoluzione francese) di “giusto come conforme alla legge” ha quasi integralmente cancellato dal bagaglio culturale del giurista medio il concetto di “equità” (intesa come giustizia nel caso concreto) rafforzando invece la necessità (sancita anche dalla nostra Costituzione) di avere un giudice terzo ed imparziale.
Eppure, proprio la contrapposizione tra “equità” e “imparzialità” come strumenti per assicurare un diritto davvero “giusto” ha avuto profondi riflessi sul modo in cui la stessa immagine della Giustizia è stata rappresentata tra medioevo ed età moderna.
Se si pensa ad una rappresentazione della Giustizia, istintivamente affiorerà nella mente l’immagine di una donna bendata, con in mano una bilancia e, talvolta, una spada. Tuttavia, questo modello di rappresentazione non è stato il primo e tantomeno l’unico presente nella storia dell’arte occidentale.
Senza ulteriori preamboli e senza alcuna pretesa di completezza (fortunatamente impossibile vista la ricchezza del patrimonio artistico italiano ed europeo) porgerò alcuni esempi di questo cambiamento di stile e di dare una giustificazione ad essi riprendendo le riflessioni già compiute nei decenni passati sul tema da maestri quali Mario Sbriccoli e Adriano Prosperi.
1. La Giustizia equitativa
Cominciando il nostro “viaggio” dal medioevo dobbiamo riconoscere che le prime allegorie scultoree e pittoriche della Giustizia non presentavano certo l’immagine di una donna combattiva, bendata e armata, ma piuttosto di una figura femminile, velata o incoronata, con un’espressione triste (seppur serena) e saggia, con in mano una bilancia.
Rappresentazioni di questo tipo si rifacevano ad una concezione di diritto negoziato, che rifletteva un’idea di giustizia “privata” (nel senso che le autorità pubbliche non avevano necessariamente un ruolo e la questione si risolveva tra offeso ed offensore) e riparativa, caratterizzante l’esperienza giuridica occidentale tra il XI e il XIII secolo, il cui fine principale era la soddisfazione della vittima.
Una nota allegoria della Giustizia, che ben evidenzia questi caratteri, è quella presente nella serie delle Virtù affrescate da Giotto sulla parete destra della Cappella degli Scrovegni a Padova (fig. 1).

In questa famosa rappresentazione la Giustizia è assisa su un trono (unica tra tutte le altre virtù), presenta forme morbide e solenni ed è intenta non a sorreggere, ma a governare con consapevolezza i due piatti della bilancia che rappresentano la giustizia distributiva e la giustizia commutativa. Non solo la Giustizia non è bendata, ma ci vede anche bene! D’altronde per garantire la “giustizia nel caso concreto”, applicando quell’aequitas (elaborata e sviluppata dalla dottrina giuridica coeva) in grado anche di derogare alla dura lex pur di garantire la vittoria processuale del “giusto”, ella non può fare altro che guardare attentamente i due contendenti e scegliere ponderatamente, così da salvaguardare, sotto la sua egida, lo sviluppo di una comunità ben ordinata e prospera, come mostra il fregio sottostante alla sua figura. Chi invece non sembra curarsi minimamente di guardare i sudditi soggetti alla sua autorità è la contrapposta allegoria dell’Ingiustizia (fig. 2), dipinta come un vecchio tiranno che volge il suo sguardo dalla parte opposta rispetto alla società che governa, che appare come una selva oscura (di dantesca memoria) nella quale si stanno svolgendo omicidi e rapine del tutto impuniti.

2. La giustizia si arma
Circa negli stessi anni in cui Giotto terminava il suo capolavoro patavino, in molte altre opere assistiamo all’introduzione di un nuovo attributo iconografico della Giustizia: la spada.
Ma perché la Giustizia viene armata? Certamente la spada (l’arma “nobile” per eccellenza dell’aristocrazia feudale) rappresenta la forza, ma non tanto quella in sé della Giustizia (che deve imporsi sulla violenza irrazionale dei rei) quanto quella della società che la amministra. Citando ancora Sbriccoli infatti tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo il diritto penale subisce un forte processo di pubblicizzazione, in cui soprattutto nell’ambito delle realtà comunali si assiste ad una progressiva monopolizzazione della giustizia non più come “strumento riparativo” ma come mezzo di governo e di ristabilimento dell’ordine sociale violato. La spada rappresenta quindi la forza del comune, pronta a scagliarsi contro l’autore del reato che, con la sua condotta, non ha solo offeso la vittima, ma anche l’intera respublica.
Questa “nuova” iconografia è presente ad esempio nella porta sud del battistero di San Giovanni a Firenze disegnata da Andrea Pisano e realizzata in bronzo tra il 1329 ed il 1336. La “formella” dedicata alla Giustizia (fig. 3) (collocata sulla porta in bassa a destra), mostra appunto una figura femminile, che nella mano destra brandisce una spada e con la sinistra regge una bilancia.

Altri esempi celebri sono la Giustizia dipinta da Piero del Pollaiolo nel 1470 (fig. 4), originariamente destinata al Tribunale di Mercanzia di Firenze ed oggi conservata (dopo la soppressione settecentesca della predetta magistratura) nella Galleria degli Uffizi, armata anch’essa di spada e tuttavia priva della “classica” bilancia, al posto della quale è presente un globo, simbolo del mondo terreno che essa dovrebbe governare

e ancora la Giustizia affrescata da Raffaello (databile 1508) che domina la Stanza della Segnatura nei Musei Vaticani (fig. 5).

Si diffonde quindi, con un intento didascalico evidente, la raffigurazione di una Giustizia armata ma priva di qualunque benda sugli occhi e quindi ancora idealmente in grado di soppesare attentamente le ragioni delle parti, fare distinzioni e arrivare ad una decisione equa.
3. Una Giustizia che non vede: cose da pazzi?
La prima rappresentazione di una giustizia bendata risale con ogni probabilità al 1494 e compare in una xilografia presente nella prima edizione dell’opera satirica tedesca La nave dei folli (Das Narrenschiff) del giurista e poeta alsaziano Sebastian Brant (fig. 6).

Si trattava di una raccolta di un centinaio di satire che volevano denunciare le più evidenti storture e i vizi della società di fine XV secolo. In particolare, la satira 71, dedicata a chi si rivolgeva alla giustizia al solo scopo di far valere ragioni pretestuose o temerarie, viene accompagnato con l’immagine di un folle (fig. 7) raffigurato con un cappello a sonagli e uno scardasso apposto sulle terga, che benda l’allegoria della Giustizia (armata di spada e munita di bilancia) proprio al fine di impedirgli di assolvere al suo compito.

La connotazione che accompagna il gesto del folle non poteva essere più negativa, come dimostra l’inizio della satira (tradotta in italiano da Saba Sardi):
«Si troverà lo scardasso a provare / chi ami come un bimbo litigare / e gli occhi voglia a Verità bendare».
L’immagine della Giustizia bendata, nell’accezione negativa inaugurata nel Narrenschiff, ebbe una buona diffusione nei decenni immediatamente successivi, ripresentandosi ad esempio in un’altra xilografia presente nell’edizione della Constitutio criminalis Bambergensis, compilazione di diritto penale predisposta da Giovanni di Schwarzenberg nel 1507. In essa viene infatti rappresentata l’immagine di un collegio di giudici bendati (fig. 8), vestiti a loro volta come dei folli, che, come spiega la didascalia presente sulla raffigurazione, sono “ciechi” poiché continuano a giudicare secondo le antiche consuetudini locali senza prestare la debita attenzione al diritto del principe.

La connotazione negativa quindi rimane, ma stavolta è riferita esplicitamente al cattivo giudice, reo di rimanere “ancorato” al vecchio diritto ignorando il sovvertimento delle fonti giuridiche che i primi principi e sovrani legislatori stanno realizzando, ponendo al primo posto le proprie raccolte normative.
Ma in quale momento l’immagine della Giustizia bendata acquisirà la connotazione positiva di imparzialità, che a noi oggi è decisamente più famigliare? Questo, come ha notato per primo Mario Sbriccoli, avverrà poco dopo e sempre in area tedesca, con l’emanazione di un altro importante testo legislativo, ovvero la Costituzione criminale Carolina di Carlo V del 1532.
Da questo momento in poi infatti si assiste ad un vero e proprio “capovolgimento comunicativo” con la realizzazione, nei territori dell’Impero, di diverse statue della Giustizia bendata, con la volontà di sottolineare che il “nuovo” diritto principesco non avrebbe più guardato in faccia nessuno, applicandosi indistintamente a tutti i sudditi, in un’ottica larvatamente legalitaria (principio comunque, in una società ancora pacificamente fondata su privilegi cetuali, ancora ben lontano dall’imporsi nell’accezione oggi diffusa) e coerente con la volontà di Carlo V di unificare ampie parti del diritto processuale e sostanziale penale nei territori tedeschi dell’Impero.
Ecco che finalmente la benda acquisisce quel significato di “imparzialità” che conosciamo e che sembra prestarsi meglio a rappresentare un sistema giuridico che, a maggior ragione dopo la svolta “legicentrica” prodotta in seno alla Rivoluzione francese e poi adottata in tutta l’Europa continentale tra otto e novecento, pare assai poco equitativo ma, almeno a livello teorico, più certo e, per certi versi, “rassicurante”.
Per altre erudizioni legali:
- “Fidiltà e segrettezza”: le regole di un’associazione a delinquere
- “L’insufficienza assoluta di preparazione elementare” – Il concorso di magistratura del 1908
- “La dreyfuseide si acuisce”: l’Affaire Dreyfus visto dagli scettici giuristi italiani
- “Mi piaceva veder soffrire”: la confessione del comandante nazista a Mauthausen
- 11 Settembre 1973 – Il golpe di Pinochet
- 12 gennaio 1848: La rivoluzione siciliana. Due costituzioni a confronto sul tema vaccini
4. E oggi?
In Italia, per gran parte dell’opinione pubblica, oggi la giustizia è in crisi. Ci si potrebbe chiedere cosa si intenda per “crisi”, ma è un dato che (anche esulando dalle ultime, tristissime, vicende che hanno coinvolto in pieno il CSM) l’idea di una giustizia e di un diritto che “fatica” a stare al passo di una società che invece sta subendo mutamenti decisamente rapidi è largamente diffusa e percepita.
Per collegarsi a quanto detto in apertura, la “desacralizzazione” che la giustizia ha subito sembra essersi riverberata anche nell’arte presente nei palazzi di Giustizia (per la Legge del 2%, su cui abbiamo scritto un articolo).
Con l’eccezione della parentesi piacentiniana di epoca fascista, ben rappresentata dall’imponente Palazzo di Giustizia di Milano (1932-1940) dove l’architettura (e le opere d’arte ivi collocate) dovevano servire per glorificare la grandezza delle radici giuridiche italiane e dunque essere una “vetrina” del regime, le sculture oggi presenti nei più recenti tribunali paiono aver ben poco di “didascalico” pur presentando talvolta anche un inestimabile valore artistico.
Guardando ad esempio all’installazione “Divisione-Moltiplicazione-Leoncini” collocata dal 2007 nel giardino interno al Palazzo di Giustizia di Torino e realizzata da Michelangelo Pistoletto (fig. 9) viene da pensare che più che rappresentare la Giustizia mostri, come beffardamente affermato da un magistrato quando essa venne posizionata in quel luogo, «quello che succede quando un imputato viene condannato» (Fonte: Archivio La Repubblica.it, 2007.06.16, Una scultura divide Palagiustizia).

Ebbene, senza voler indulgere a patetiche “fughe” nel passato, sarebbe forse opportuno che gli operatori del diritto ed il sistema della giustizia riscoprissero la “sacralità laica” implicita nella loro funzione, rifuggendo da letture tese a equiparare la funzione giudiziaria ad una burocrazia come tante altre e riacquistare una piena credibilità nell’opinione pubblica. Certo, si potrebbe obiettare che ciò che conta è la sostanza, ma come insegnano i processual civilisti, spesso la forma è già in sé e per sé sostanza.
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