Introduzione
Guardate fuori dalla finestra. La folla trasuda umori di paura: per l’aumento generalizzato della delinquenza, per il rafforzarsi delle organizzazioni criminali… ognuno fa fronte come può: molti non si fidano delle istituzioni e invocano l’autodifesa, aumenta la diffusione delle armi da fuoco. La vita quotidiana è incerta, oggi si ha un lavoro domani chissà, la disoccupazione cresce, masse di diseredati, ma anche di tecnici istruiti, si muovono verso l’Europa, o nell’Europa, alla ricerca di un futuro migliore. Su tutti incombe il timore di un crack monetario e la pandemia.
Se state pensando che io mi stia riferendo a questo nostro Giugno 2020, siete in errore: questa è la descrizione di quanto avrebbe percepito un “italiano” guardando la folla fuori dal suo balcone a metà del Settecento, epidemia compresa. Sono presenti tanti elementi caratteristici della paura: la paura della criminalità, paura economica: per certi versi pure la paura della tecnologia, che allora si sostanziava nella diffusione di queste nuove armi da fuoco chiamate “archibugi” o “pistole”, che rendevano le guerre sanguinose in un modo prima sconosciuto e più facile ai briganti commettere sequestri e omicidi.
Gli storici hanno illustrato come da inizio XVIII Secolo vi sia stato un continuo intensificarsi delle lamentele sul numero crescente dei criminali e delle invocazioni di pene sempre più crudeli. Non avendo statistiche criminali realizzate al tempo e non avendone noi ancora prodotte a posteriori, non sappiamo se fosse paura di un reale incremento della criminalità o solo una percezione immaginaria. Come che sia stato veramente, questo era il contesto “ostile” in mezzo a cui Cesare Beccaria condannò quasi tutte le pratiche di un diritto criminale in gran parte figlio della paura. Il coraggio che trovò quel marchese, nonostante non ne fosse solitamente dotato, di andare in netta controtendenza allo spirito del suo tempo, rende il suo famoso libretto molto meno scontato di quanto possa apparire ad un contemporaneo non immerso nel clima di allora: questo è l’elemento tonificante che ha permesso alla sua opera di mantenere ancora oggi lo spirito di un vero e proprio lume.

Il Dei Delitti e i suoi critici
Il 16 Luglio 1764 giungeva in una Milano che subiva gli effetti di una strana estate fredda e fangosa, che infatti avrebbe provocato tre anni di carestia, la prima edizione di un volumetto anonimo destinato a cambiare le sorti del diritto penale. L’opera, inutile a dirsi, è il Dei delitti e delle pene, scritta dal ventiseienne marchese Cesare Beccaria. Il volumetto-pamphlet ha, nella sfera dell’opinione pubblica intellettuale, un effetto dirompente per la sua laicizzazione del diritto penale, per il fondamento innovativo su cui rinviene il diritto di punire, per le sue teorie sul valore, lo scopo, la funzione della pena, per la sua concezione di un diverso rapporto fra prevenzione e repressione, per la sua denuncia dell’inutilità della pena capitale e della maestosità dei supplizi, come anche dell’inutilità della tortura, per la sua solida affermazione della presunzione d’innocenza dell’imputato, per il suo riconoscimento universale del diritto di portare armi e per tanti altri elementi, che essendo a tutti noi noti, non è necessario elencare.
Molto meno trattate sono state le critiche, durissime, a cui l’opera di Beccaria venne sottoposta, che ci mostrano come il Dei delitti fosse tutt’altro che una mera collezione di elementi di dottrina criminalistica ‘mainstream’.
Il monaco vallombrosano Ferdinando Facchinei, ad esempio, nelle sue Note (1765), accusa Beccaria di lesa maestà e di empietà per lesa maestà divina, a causa della sua posizione sulla pena di morte. Ciononostante, fa proprio il moderno argomentare utilitaristico, sostenendo che sia la pena perpetua e non la pena di morte quella che ingenera l’abitudine e l’indifferenza fra i consociati, denunciando dunque l’ergastolo come incapace a svolgere una funzione generalpreventiva.
Paolo Vergani, pure, nel Della pena di morte (1777) fa suo il quadro utilitarista di Beccaria, ma è proprio da questo che muove per sostenere la via della pena di morte: infatti critica il marchese per aver fondato la sua analisi su un uomo astratto, filosofico, ben diverso a suo giudizio dal suddito che al tempo abitava nel Ducato di Milano: suddito che al momento presente, nella sua concretezza di persona, vuole dimostrare Vergani, ha più timore della pena di morte che di un carcere a vita. Quando il suddito sarà come lo descrive Beccaria, la pena di morte si potrà abolire.
Tornando al Settecento, allora si espressero in favore della pena di morte personaggi del calibro di Locke, Kant, Voltaire, Rousseau, Sonnenfels, Filangeri… Se dunque l’argomentazione del Beccaria sulla tortura venne condivisa anche da molti riformisti moderati, quella sulla pena di morte fu assai meno diffusa pure fra gli illuministi radicali. Il riferimento fatto per ultimo a Filangeri non è casuale, questi infatti ci introduce direttamente alle difficoltà criminali del territorio napoletano. Qua, nel 1787, un giovane Gaetano Majo pubblica La giustizia delle leggi prevenienti i delitti: l’autore critica Beccaria come un empio e difende la legislazione napoletana, a tal punto da ravvisare nei giudici stessi la ragione del gran numero di crimini che avvenivano nel Regno, sostenendo vi fosse tale gran cifra perché i magistrati non applicavano correttamente o integralmente la legislazione in vigore nel Regno di Napoli, col suo largo uso della pena di morte anche per i reati minori. Regno di Napoli, uno Stato nella cui capitale sappiamo vi fosse una forca perennemente eretta almeno dal 1566 nella Piazza del Mercato, in ammonimento per chi avesse intenzione di attentare alla tranquillità della città.

Le leggi sui briganti
Qua contro i banditi era ancora in vigore a fine ‘700 una particolare “prammatica” (l’equivalente di una legge) datata 12 Giugno 1684. Era l’apice di un percorso di inasprimento progressivo delle pene iniziato da un secolo. Il Vicerè Don Gaspar Méndez de Haro, marchese di El Carpio e tre volte Grande di Spagna ci rende noto lo scoramento che lo ha mosso ad provvedimento tanto eccezionale e duro, infatti “nonostante fino a quel momento fossero state date ottime disposizioni per produrre lo sterminio dei malfattori e portarli al pentimento e all’ammenda e renderli partecipi della clemenza del Re; poiché alcuni di loro sono più pervicaci nella loro perversione, si è reso necessario trovare mezzi più opportuni al fine di far sperimentare a loro il dovuto castigo e avvertire gli altri con l’esempio”.
Tutti i banditi già potevano essere uccisi da qualsiasi civile e su di loro pendeva una condanna morte per la quale era sufficiente essere ritenuti tali, più il sequestro immediato di tutti i loro beni famigliari e incameramento nelle casse del Regno. I banditi per analogia erano equiparati a pirati terrestri e come tali andavano trattato.
Oltre a ciò Don Gaspar dispone che: 1. Chiunque, sia per il futuro ma anche per il passato, abbia avuto qualche genere di corrispondenza con banditi, o abbia loro fornito raccomandazioni o vitto, è punito con 6‘000 ducati di multa e, senza possibilità di grazia, la galea a vita. Chiunque darà altra forma di ausilio o commissione ai banditi che non sia già punita con la morte, può esserlo ad arbitrio del giudice previa relazione al Viceré; 2. Essendo questi delitti difficili da provare, deponendo due banditi, anche durante la tortura, di essere stati aiutati in qualsiasi modo da qualcuno, anche per atti singoli e diversi, questa sarà una prova pienissima e legittima, pure se non è citato il nominato nell’atto della confessione; 3. Nelle case di campagna in Abruzzo nei mesi da Aprile a Settembre è proibito conservare alimenti in grado di sfamare una persona per più di un giorno, pena tre anni di galea non graziabili; 4. Solo gli ufficiali e gli sbirri, se non inquisiti o parenti di banditi, possono portare con sé qualsiasi genere di arma da fuoco legale nelle provincie di Abruzzo, pena dieci anni di galea; se l’arma è una di quelle proibite, la pena è la morte come d’uso; 5. Chi ruba armi legali, gira in comitiva per la campagna e poi le detiene in casa, è punito con la morte; 6. Chiunque fuori città abbia rubato, anche disarmato e per una sola volta, più di dieci carlini in beni o denaro, sarà considerato come un vero bandito, diffidato, forgiudicato e punito con la morte; 7. Chi nasconde o seppellisce un bandito morto con lo scopo di non farlo trovare ai giudici regi è punito con dieci anni da scontare secondo qualità e il luogo dove è stato seppellito deve essere demolito; 8. Chiunque custodisca armi, oggetti o denaro di banditi è punito con la morte. È prova sufficiente il rinvenimento di detti oggetti nella propria casa; 9. In caso di reati avvenuti in campagna o di ricatti, i giudici delle regie udienze e i commissari di campagna possono procedere ad modum belli. Allo stesso modo possono procedere tutti gli ufficiali incaricati contro i banditi.

Il processo ad modum belli
Era caratteristica generale del rito inquisitorio di età moderna quella di indurre terrore per il suo stesso modo di procedere. Riguardo al Ducato di Milano, abbiamo la preziosa testimonianza di Gerolamo Cardano, col suo capitolo De Lite posto nel III Libro della sua opera De utilitate ex adversis capienda Libri IIII Defensiones eiusdem pro filio coram praeside provinciae & senatu habitae, nell’edizione stampata a Basilea nel 1561 e in altre sue aggiunte manoscritte. Il capitolo è dedicato a suggerimenti su come affrontare un processo penale, un evento talmente terribile che il migliore consiglio che può fornire è quello di fuggire: consiglio tanto più valido per gli innocenti, in quanto anche se fossero stati in grado di dimostrare la propria non colpevolezza, probabilmente sarebbero morti poco dopo per i danni provocati al fisico dal periodo di carcerazione e dalle terribili ferite riportate nelle sessioni di tortura.
Ma, dunque, in cosa consiste questo rito ad modum belli d’età moderna adottato contro i grassatori, più terribile della già terribile inquisizione ordinaria, tanto terribile da dover atterrire i peggiori briganti di qualsiasi zona d’Italia e d’Europa?
Il processo ad modum belli doveva comunque prevedere alcune formalità che, in quanto parte del diritto delle genti quali iura naturalia, assolutamente non possono essere trascurate: anche se, proprio in virtù della potestà ad modum belli delegata dal Sovrano possono essere ridotte o abbreviate (la contestazione, la ricerca della prova, l’audizione dei testimoni, la difesa del reo). Nondimeno il conferimento di questa stessa speciale potestà di natura “principesca” include una facoltà implicita di trasgredire qualsiasi norma di diritto, in quanto i conferiti non sono tenuti sottoporsi a sindacato, né a rendere conto del loro operato. La potestà ad modum belli comporta infatti l’avere il “liberum arbitrium”, cioè la possibilità di procedere de facto, senza osservare l’ordo iuris e il sistema delle prove legali.
Tutta questa eccezionale procedura, ci dice Bartolomeo De Angelis nelle sue Allegationes Aurae, trova giustificazione e legittimazione proprio dall’essere un rito di terrore, posto in essere per fronteggiare eccezionali situazioni di pericolo: “iudex conscientiatus contra banditos debet apparere terribilis”.
Una volta catturati i banditi, si identificavano i rei, si tentava di accertare la loro età e si determinavano gli addebiti mossi. Tutto ciò non era accompagnato da alcuna forma di trascrizione delle singole fasi e soltanto ad esecuzione avvenuta si redigeva una certa documentazione su quanto era stato compiuto. Si sollecitava quindi la confessione e, poi, si sottoponeva il reo alla tortura. Questo era il momento fondamentale del procedimento, l’unico assistito da una particolare solennità di forme, con la redazione scritta del tutto, avendo lo scopo di validare la confessione resa in precedenza dall’inquisito. Esaurita la fase della tortura, si concedevano quindi due ore per la pronuncia della difesa, dando all’avvocato l’originale del processo per abbreviare i tempi. Però, in presenza di situazioni eccezionali e straordinarie, non determinate, era possibile ridurre tale lasso di tempo fino ad annullare del tutto la difesa.
Dopo che l’avvocato aveva pronunciato la sua (eventuale) difesa, il Tribunale (che poteva ridursi a un solo Pubblico Ufficiale) enunciava il suo “voto”, con il quale si esauriva il giudizio e la sentenza, così emessa, era immediatamente esecutiva. Quando vi era pericolo di un tumulto o di una sedizione, era lecito affrettare l’esecuzione e svolgerla immediatamente sul posto. La sentenza emessa ad modum belli era di per sé inappellabile, tanto che spesso venivano bruciate le (poche) carte riguardanti il processo per impedire qualsiasi sorta di revisione.
In un numero datato 10 Maggio 1679 del giornale edito da Antonio Bulifon viene riportata una statistica interessante, seppur rudimentale, quanto ai dati connessi alla guerra contro i briganti. Da questa veniamo a sapere che nel solo periodo fra il 1675 e il 1679 nel Regno di Napoli vennero indultati 1541 banditi, uccisi 516 e condannati alla galera o alla guerra 1’079.
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Conclusione
Beccaria trovò un coraggio non scontato nell’andare contro ad almeno due secoli di cultura e di pratica criminale. Non solo, il suo pamphlet metteva a nudo il Potere nella sua incapacità di assicurare quell’ordine su cui si fondava la sua legittimità, sia per i modelli tradizionali che per quelli contrattualistici del giusnaturalismo. Al contempo, propose una soluzione al “problema criminale” che allora ai più dovette sembrare contro intuitiva: cioè processi e pene più miti, anche se più certi e rapidi (anche se abbiamo visto talvolta il problema era proprio la eccessiva rapidità del processo). Questa era una risposta della mente che andava contro quella comune, quella classica, quella “viscerale” degli uomini del tempo, cioè attuare una giustizia terribile per crimini terribili. Infatti, il potere politico temeva il rischio che agli occhi del popolo un “mero” ergastolo potesse apparire come troppo poco per le nefandezze compiute da un uomo, portandoli a vedere la giustizia del Sovrano come “ingiusta” e dunque minando la legittimità del suo potere.
È anche vero, come credo di aver tratteggiato in maniera sufficientemente chiara, che questi provvedimenti “severissimi ed eccezionali” ormai proseguivano da secoli come una slavina e si era arrivati al fine ad un inevitabile punto di rottura: le fattispecie e le pene erano diventate talmente tanto allargate che andare oltre oramai non era possibile. Dovette apparire inevitabile il tentativo di cercare nuove soluzioni.

È così che Beccaria propose la sua ricetta innovativa, avendo ben presente che quanto fosse necessario fare in primo luogo era disinnescare la spirale di violenza su cui si era avvitata su sé stessa la società, anche a causa dei modelli repressivi che erano stati adottati. La scommessa era ridurre la violenza complessiva della società riducendo quella esercitata dallo Stato\Governo\Potere. Beccaria vede che la riduzione della violenza nella società si può avere da una estensione e garanzia dei diritti individuali, non da una loro sottrazione (magari, pure, arbitraria).
Una innovazione gigantesca, un vero e proprio spartiacque.
Poche sono dunque le somme che possiamo tirare. La paura è uno dei sentimenti più potenti e paradossali, in grado al contempo di terrorizzare e tranquillizzare. È un sentimento viscerale nelle masse e dunque con cui la politica deve confrontarsi e che può strumentalizzare, controllabile solo tramite una ferrea gabbia di razionalismo empiricista, pena il rischio per la giustizia e il legislatore di addentrarsi in una spirale di violenza sempre più acuta che può durare anche secoli. Una spirale di difficile disinnesco, perché, come sono sfumati i contorni della legittima difesa individuale, che si colloca in situazioni dove si agisce d’istinto per la pressione e la paura (anche percepita per motivi irreali), ancor di più lo sono quelli della “legittima difesa collettiva”, per usare la terminologia giusnaturalistica.
“Il prezzo della libertà è una eterna vigilanza”, scriveva Thomas Jefferson negli stessi anni di Beccaria.
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