In questo excursus storico-filosofico mettiamo in evidenza non solo la potenza e la profondità del pensiero greco, ma anche l’influenza che ha avuto in ogni ambito del nostro stare al mondo: primo fra tutti il diritto.
Se i Greci nella loro dogmatica hanno avvicinato le leggi naturali e i precetti giuridici, è accaduto sicuramente non perché il loro pensiero non fosse capace di cogliere la differenza causale e il principio normativo o perché disconoscesse il carattere normativo dei principi di diritto. Ma per un motivo del tutto opposto: i greci relegarono l’origine delle leggi naturali a una potenza metafisica-trascendentale, trascendenza di cui l’uomo può partecipare con l’uso della buona ragione. È per noi decisivo il fatto che la nascente filosofia greca riconoscesse alla totalità delle norme o delle leggi una stretta obbiettività e apriorità rispetto all’uomo che le comprendeva ed era compreso o abbracciato da esse.
Questa concezione trovò soprattutto la sua enunciazione nella filosofia naturalistica ionica fino ad Eraclito. Per questi filosofi l’uomo conosce in quanto l’anima del mondo entra in lui (pensiamo al logos eracliteo) e le leggi umane trovano forza e origine nell’ordinamento divino del mondo. Con la mistica dei numeri Pitagorici la concezione di un’idea di giustizia si oscurò, pur non perdendo nulla della sua obbiettività e apriorità. Nella personalità di Socrate trovò invece la sua più elevata formulazione: con questo pensatore, infatti, le norme vennero elevate a un’importanza suprema, ma non si sciolsero del tutto da ogni legame col principio di causa naturale.
I principi normativi fondamentali sono, per Socrate, iscritti dagli Dei direttamente nell’anima dell’uomo. Se da questa l’uomo trascrive per conto suo delle norme, può farlo solo attraverso l’influsso di quell’esperienza. Queste norme derivano da due fonti: da un lato dalla creazione divina e dall’altro dalle facoltà proprie dell’uomo (le quali rispetto alla creazione divina appaiono come qualcosa di negativo e la mutabilità da loro causata nelle leggi scritte appare come un motivo di debolezza per esse). Questa relazione riesce in particolar modo evidente se si considera che la distinzione fu posta dalla discussione mossa dai Sofisti, i quali si erano preoccupati di stabilire la capacità di comprensione dell’uomo come fonte positiva ed esclusiva del diritto; qui è il germe, il punto di appiglio della dottrina scettica del diritto, la Sofistica.
Nei suoi più audaci rappresentanti la Sofistica nega in linea generale la legge divina e la giustizia ideale e riconosce solo le leggi positive con le loro differenze spaziali e temporali, le loro mutazioni e la loro fondazione nel diritto della forza. Il metodo che sta alla base di questa posizione era del tutto opposto a quello degli altri pensatori greci e a quello proprio del pensiero greco in generale. I Sofisti fondavano la conoscenza non sull’idea ma sull’empirico, e non l’intuizione e la deduzione ma l’induzione era la meta del loro processo conoscitivo. Quello che essi credevano di trovare con questo metodo empirico, considerato come unico metodo, era non l’unità e l’idealità della natura umana, ma soltanto le differenze tra i singoli uomini concreti: ed erano differenze di costumi e di leggi, di istituzioni peculiari alle diverse nazioni, dei loro scambi e delle loro mutazioni nello spazio e nel tempo, della loro soggettività e della loro arbitrarietà. A noi importa notare questo: è il diritto comparato ciò con cui la scepsi sofistica si avvicina al contenuto empirico del diritto positivo.
Ma il diritto comparato non rappresenta, per i Sofisti, la via per cui tramite l’empiria si giunga ai valori assoluti del diritto, ma all’opposto rappresenta in generale la persuasione della impossibilità di un siffatto cammino e della irraggiungibilità di un siffatto scopo. Non è giusto perciò vedere nella scepsi giuridica dei Sofisti un dato positivo gnoseologico o paragonarla alla scoperta dell’empirismo e del positivismo in sede giuridica, e porre di conseguenza il punto di vista scettico allo stesso livello della concezione giuridica romana. Quest’ultima in realtà è originale e fondata autonomamente, mentre la concezione giuridica dei Sofisti ha il prevalente carattere di una tesi negativa e di opposizione, ed è da intendere in tutto il suo sviluppo come opposizione all’assolutezza dell’idea greca della giustizia.
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Per la concezione giuridica sofistica il positivismo giuridico non è un’oggettiva realizzazione delle aspirazioni della coscienza, ma il prematuro arresto e la limitazione di essa, la sua rinuncia e barriera. Essa è nella sua essenza non la scoperta del diritto positivo, ma la negazione e la rinuncia all’idea della giustizia. Il pensiero greco avrebbe abdicato a sé stesso se avesse riconosciuto come obbligatoria la rinuncia empiricamente imposta dalla scepsi sofistica, infatti ha risposto a tale tesi con una affermazione particolarmente energica dell’idea della sua superiorità rispetto alla pura empiria e con un rifiuto netto dell’empiria stessa.
Questa risposta, che è espressa nella dottrina delle idee di Platone, è forse la più rimarchevole manifestazione dello spirito greco: la manifestazione della più pura ricerca metodologica delle essenze. Platone con la sua metafora della caverna ha posto l’idea greca della giustizia come l’elemento dell’armonia in sospensione tra l’infinità del mondo e l’idea dell’uomo. Così l’idea della giustizia si trova nello Stato per la cagione che rispecchia nella sua configurazione il mondo infinito. Al contrario prende le mosse dalla configurazione giuridica dello Stato Aristotele, perché egli mette in rilievo l’altro polo dell’idea della giustizia, la natura umana, cioè l’ideale naturale dell’uomo. Anche Aristotele è indubbiamente un idealista come Platone, e non è meno convinto di lui della superiorità dell’idea sull’empiria.
Ma l’antitesi non si risolve nel netto dualismo platonico, non è in lui così rigida e aspra come in Platone; infatti le idee per lui non sono fuori del mondo empirico, ma in esso immanenti e visibili (Aristotele infatti nella Metafisica parla di sinolo di materia e forma). Per questo l’aspirazione all’idea non elimina il contatto con l’empiria, anzi lo presuppone. Ciò apre alla ricerca scientifica di Aristotele un campo oltremodo esteso e fa di lui il fondatore della scienza moderna. Negli otto libri della sua Politica è esposta la sua concezione dello Stato, ma accanto a questa opera egli ha posto il suo libro sulle costituzioni che conteneva – conformemente al suo postulato per il quale il politico deve conoscere le costituzioni già storicamente attuate – la minuta esposizione di non meno di 158 costituzioni statali (come è noto, questo libro è andato in gran parte perduto).
Per Aristotele in verità non si tratta di inaugurare e realizzare la conoscenza della realtà empirica in se stessa: questa empiria rappresenta solamente il materiale per il ritrovamento e il chiarimento degli elementi ideali, e l’opera doveva servire soltanto come mezzo all’approfondimento e alla configurazione delle idee di giustizia e di Stato. Ma questo scopo è raggiungibile solo se dalle costituzioni concrete si elimina il casuale e l’accidentale, e se si mira ad afferrare in esse l’universale e il durevole. Il procedimento così espresso è proprio quello del diritto comparato, in quanto indirizzato al ritrovamento dell’idea di giustizia e dell’idea di Stato. Questa constatazione è di grande importanza perché autorizza la conclusione secondo cui nella fase decisiva della filosofia greca le costituzioni positivamente realizzate dello Stato e del diritto, attraverso il metodo della considerazione comparativa, sono messe in rapporto con la configurazione dei dati ideali.
Come conclusione dobbiamo dare uno sguardo allo Stoicismo, sia perché nell’intera filosofia greca rappresenta una nuova ed ultima visione d’insieme, sia perché in esso è il punto di raccordo con la concezione giuridica romana (lo vedremo prossima settimana). Anche il diritto ha per gli Stoici la sua origine dall’assoluto e sarà assegnato all’uomo secondo la sua partecipazione alla ragione divina, che è la sua natura ideale. E se per gli Stoici è essenziale elemento dell’idea di giustizia quella dottrina dell’uguaglianza naturale di tutti gli uomini che supera ogni disprezzo per i barbari, non può essere confermata con il metodo della comparazione delle differenze reali tra i principi di diritto positivo dei singoli popoli e delle singole Nazioni e non si può quindi mettere in una positiva connessione metodologica con l’idea di giustizia. Ma di ciò daremo ragione la prossima settimana, quando entreremo subito in medias res con lo stoicismo e la concezione giuridica romana.
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