Ogni epoca ha avuto le sue epidemie, le sue leggi per farvi fronte, e i suoi No Vax. E già tra fine XIX e inizio del XX secolo la magistratura italiana dovette affrontare il tema dell’obbligo vaccinale, tra la necessità di tutelare la salute pubblica e quella di garantire le libertà fondamentali dell’individuo.
Come noto, il 15 ottobre 2021 è entrato in vigore l’obbligo generalizzato di essere in possesso del Green Pass per poter accedere al posto di lavoro e quindi, in buona sostanza, l’obbligo di essere vaccinati contro il Covid-19 oppure di effettuare ogni due giorni un tampone antigenico, con esito ovviamente negativo.
La misura è stata da subito oggetto di aspre critiche da parte del popolo No Vax, che l’ha tacciata di essere liberticida e degna di soltanto di una dittatura. Del resto, manifestazioni di dissenso erano già state ampiamente espresse da parte del sottogruppo degli studenti No Vax, ai quali da diverse settimane è precluso l’accesso alle università (e quindi alle lezioni e agli esami) in mancanza del Green Pass.
E così i No Vax sono ripetutamente scesi in piazza contro il Green Pass, provocando un po’ ovunque scorribande e tafferugli, alcuni anche caratterizzati da preoccupante gravità.
Le questioni giuridiche che si sono presentate in questo periodo di pandemia sono molte e senz’altro anche peculiari, ma non sono nuove; d’altro canto, il diritto è così: un animale antico che si evolve continuamente, ma i cui tratti, almeno salienti, possono essere assai spesso trovati nel passato, più o meno remoto.
Ricercando nell’antica giurisprudenza italiana, abbiamo così scoperto che il tema delle vaccinazioni obbligatorie venne affrontato dalla magistratura italiana addirittura a cavallo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.
Abbiamo così trovato due sentenze che, di segno opposto, potrebbero essere state pronunciate oggi, e sono pertanto attualissime.
Con sentenza dell’8 aprile 1891, la Corte di Cassazione di Roma stabilì che “il Comune può in esecuzione di ordinanza ministeriale disporre la vaccinazione obbligatoria delle persone della stessa abitazione in cui siasi verificato il vaiuolo, e quindi contravviene agli art. 48 e 49 della legge sanitaria chi rifiuta di ottemperare a quell’ordine”.
Il virus del vaiolo, oggetto del primo vaccino, inventato da Edward Jenner nel 1798, causava una malattia terribile, dolorosa e mortale. Chi vi sopravviveva ne portava i segni deturpanti per tutta la vita.
Si racconta persino che la regina Elisabetta I ne fosse stata afflitta e, pur sopravvissutane, ne fosse rimasta drammaticamente sfigurata, e che ciò sia stato uno dei motivi che la portarono a condannare a morte Maria Stuarda: quest’ultima era parimenti sopravvissuta al contagio vaioloso, ma ne era uscita senza cicatrici, e quindi conservando intatta la sua bellezza; la regina d’Inghilterra, divorata dall’invidia per la miglior sorte toccata alla cattolica cugina, la fece quindi anche per questo mandare a morte. Si sa poi come andò a finire: l’invidia non pagò, dal momento che il casato dei Tudor si estinse, e quello degli Stuart prosperò, con Giacomo Stuart, figlio di Maria, che succedette a Elisabetta I e riunificò quindi i regni di Inghilterra e Scozia sotto la stessa corona.
Nel 1979 il vaiolo è stato dichiarato definitivamente debellato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, e questo risultato è stato raggiunto grazie a un’imponente e massiccia campagna vaccinale iniziata alla fine del XIX secolo, e il cui culmine è stato raggiunto tra la fine degli anni ’50 e la fine degli anni ’70 del secolo scorso.
Ma tornando alla nostra sentenza, vi si legge che nell’autunno del 1890 il vaiolo “infieriva nella città di Venezia” e quindi, allo scopo di contenerne il contagio, in esecuzione di un’ordinanza del ministero dell’interno e del correlativo decreto prefettizio, “il municipio dispose la vaccinazione obbligatoria di tutte le persone della stessa abitazione nella quale si era verificato un caso di tale malattia infettiva”.
Nell’abitazione di due persone, i coniugi Franchini-Bottero, vi era stato un episodio di contagio, e “fu lesta l’autorità municipale ad inviare colà il medico comunale per sottopor[li] a vaccinazione”.
I suddetti coniugi, No Vax ante litteram, dichiararono che nessuno poteva avere il diritto di obbligarli a inocularsi il vaccino e, quindi, si rifiutarono sottoporvisi.
Questo contegno costò loro assai caro: il Pretore di Venezia li dichiarò infatti contravventori agli articoli 49 e 50 dell’allora vigente legge sanitaria, nonché all’art. 108 del relativo regolamento, e li condannò a 25 giorni d’arresto e a lire 51 di ammenda per ciascuno. I due interposero appello, ma il tribunale penale lo rigettò, confermando la condanna. I due ricorsero quindi per cassazione denunciando la violazione degli art. 49 e 50 della legge sanitaria e dell’art. 26 dello Statuto Albertino, il cui comma 1 disponeva che “la libertà individuale è guarentita”.
I ricorrenti esposero sia che, consistendo la vaccinazione in una “operazione chirurgica”, bisognava lasciare al cittadino la libertà di farla eseguire da chi meglio e come credeva, sia che legge mai avrebbe potuto “imporre ad un cittadino sano di assoggettarsi ad una cura medica ch’è destinata nei suoi effetti ad alterarne la salute”.
La Corte, con incisiva semplicità, osservò che il provvedimento del Comune di Venezia che disponeva la vaccinazione obbligatoria era stato emesso “nell’interesse della salute pubblica”, e per giunta “in obbedienza degli ordini dell’autorità ed in seguito della deliberazione del consiglio superiore di sanità”.
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I Sommi Giudici conclusero pertanto che, poiché si trattava dell’interesse pubblico, il cittadino doveva “ottemperare agli ordini dell’autorità competente intesi a garantire la pubblica salute”. Nel caso di specie, poi, ai sensi della legge sanitaria il Ministero dell’Interno (cui competeva la tutela della pubblica salute), aveva emesso legittimamente il provvedimento col quale aveva reso obbligatoria la vaccinazione antivaiolosa, e pertanto con esso non poteva “dirsi di essere stato violato impunemente […] alcun diritto, e molto meno l’art. 26 dello statuto fondamentale del regno”.
Poco meno di un ventennio dopo, la magistratura italiana si trovò nuovamente ad affrontare una questione correlata agli obblighi vaccinali, e questa volta pervenendo a conclusioni affatto diverse.
Nel 1912 la Pretura di Perugia dovette giudicare il prof. Carlo Ruata, noto “antivaccinista”, del delitto di istigazione a delinquere, per aver egli diffuso molteplici scritti (cartoline e pubblicazioni in svariati numeri della rivista Vita e Malattie, da egli stesso diretta) nei quali si scagliava contro la vaccinazione antivaiolosa, ritenendo incostituzionale l’art. 130 dell’allora vigente testo unico della legge sanitaria, che la rendeva obbligatoria.
In una cartolina postale firmata dal prof. Ruata si leggeva: “la vaccinazione non protegge contro il vajolo neppure per un giorno. Essa indebolisce il bambino, che talora diventa magro e macilento, e non torna mai più come prima. Produce un’infinità di mali riconosciuti da tutti i medici e qualche volta anche la morte. Rispettiamo il corpo integro e sano, e non guastiamolo con lo strano pretesto d’immunizzarlo contro una causa esterna del male facilmente combattibile all’esterno del corpo”.
Nella rivista Vita e Malattie il prof. Ruata sosteneva altresì che la legge sulla vaccinazione obbligatoria costituisse una “prepotenza del potere legislativo” e che pertanto nessun cittadino avesse l’obbligo di sottomettersi al regolamento (che peraltro prevedeva anche l’obbligo di rivaccinazione) perché incostituzionale.
Con sentenza del 31 luglio 1912 il Pretore di Perugia ritenne che il contegno del prof. Ruata non integrasse il delitto di istigazione a delinquere, non essendo essa sorretta dal necessario dolo specifico (sostanziato dall’utilizzo della parola “istiga”), consistente nella volontà di indurre altri a violare la legge penale e a commettere un reato.
Riferendosi al caso di specie, il Pretore osservò infatti che non potesse “non ingenerarsi nell’animo di chi legge la convinzione che [il prof. Ruata], che da 30 anni si è dedicato allo studio di questo problema, sia profondamente persuaso della bontà della sua propaganda e animato esclusivamente dal nobile scopo, che deve essere quello di ogni cultore delle scienze mediche, di portare il proprio contributo al grande problema della salute pubblica e di studiare di preservare, quanto più è possibile, la vita umana dalle insidie delle malattie che la minacciano” e aggiunse altresì che nei vari articoli dell’imputato non si inculcasse “affatto ai cittadini di non adempiere alla prescrizione dell’art. 130 della legge finché non sia abrogata”.
Nella sentenza del Pretore di Perugia vi sono anche due affermazioni di principio che sono – a nostro avviso – straordinariamente moderne per l’epoca e, con riguardo al tema della tutela dei diritti civili, non meno vigorose di quelle oggetto delle pronunce più illuminate a noi contemporanee.
Innanzitutto, il magistrato umbro affermò che “la diffusione delle proprie convinzioni, con qualunque mezzo si attui, è un diritto incontestabile”.
In modo ancor più incisivo, il Pretore chiarì anche che “combattere una legge, sia pure munita di sanzione penale, non vuol dire eccitare i cittadini a trasgredirla”.
Secondo il Pretore i suddetti principi si riverberavano necessariamente nel caso del prof. Ruata, spiegando i relativi effetti: in primo luogo, sul presupposto che “le verità scientifiche non sono definitive e immutabili, ma vanno soggette ad una continua opera di revisione e di critica, che le corregge e le supera con altre verità”, la “propaganda del dott. Ruata contro la vaccinazione, dal punto di vista giuridico, è pienamente legittima e non è passibile di alcuna sanzione penale”; inoltre, essendo il prof. Ruata “antivaccinista, deve logicamente disapprovare l’art. 130 della legge sanitaria”, e ciò non è fatto per spingere i cittadini alla violazione della suddetta norma, ma a fronte di “una convinzione scientifica, onestamente e sinceramente professata”.
Il ragionamento del Pretore perde – a nostro avviso – lucidità nella parte finale della sentenza, dedicata in modo specifico a trattare il tema dell’incostituzionalità dell’obbligo di rivaccinazione, asserita dal prof. Ruata.
Il giudicante, infatti, pur ritenendo che l’opinione del prof. Ruata non fosse corretta, osservò che non potesse aversi un’istigazione a commettere un reato dal momento che la ritenuta incostituzionalità della disposizione regolamentare in parola eliminava “ogni carattere di criminosità dalla sua inosservanza”.
Questa costruzione logica pare abbastanza artificiosa: infatti, seguendo il ragionamento del giudice perugino, per essere assolto dal contestato reato di istigazione a violare una norma penale, ciascuno di noi potrebbe semplicemente lamentarne l’incostituzionalità.
È proprio vero che la storia tende sempre inesorabilmente a ripetersi: e così, ogni epoca ha avuto le sue epidemie, le sue leggi per farvi fronte, e i suoi No Vax.
La tensione tra la necessità di tutelare la salute pubblica e quella di garantire le libertà fondamentali dell’individuo esisteva oltre un secolo fa, ed esiste – sicuramente con maggior vigore – anche oggi. Si tratta di uno scontro tra titani, il cui esito è assai difficile da prevedere.
Ciò che muta nel tempo è però la conoscenza che l’essere umano acquisisce di ciò che lo circonda e dei fenomeni ai quali assiste: questa è destinata ad aumentare; pertanto, se è pur vero che – come già osservò il Pretore di Perugia oltre cento anni fa – “le verità scientifiche non sono definitive e immutabili, ma vanno soggette ad una continua opera di revisione e di critica, che le corregge e le supera con altre verità”, è anche vero che la scienza odierna si basa su una mole di dati enormemente superiore a quella disponibile cent’anni fa e su analisi, prove ed esperimenti condotti con un rigore che un secolo fa non era davvero immaginabile.
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