Una storia non così antica e non così lineare…
Quasi tutti i giuristi sanno bene che ad abolire la pena di morte per la prima volta in Europa, il 30 novembre 1786, fu il granduca di Toscana Pietro Leopoldo (fratello del più noto Giuseppe II) nella Riforma della legislazione criminale, più comunemente nota come Leopoldina. Un’abolizione significativa, influenzata dalla visione filosofica utilitaristica beccariana e non raggiunta (nonostante i propositi) neppure dal primo codice penale “rivoluzionario” emanato nel 1791 in Francia.
Quello che pochi invece sanno è che questa “illuminata” abolizione ebbe vita breve dal momento che lo stesso Pietro Leopoldo si premurò di reintrodurre la pena capitale (seppur solo nei confronti di «tutti quelli che ardiscano d’infiammare, di sollevare, e mettersi alla testa del popolo, per opporsi con pubblica violenza alle provvide disposizioni del Governo […]») il 30 giugno 1790, preoccupato dai disordini scoppiati in città come Livorno e Firenze sull’onda degli echi della Rivoluzione che giungevano d’Oltralpe. Sarà poi il successore Ferdinando III a modificare direttamente la Leopoldina estendendo l’estremo supplizio anche ai delitti di lesa maestà divina e umana e ad alcune fattispecie di omicidio aggravate.
L’esperienza napoleonica produsse nel 1810 un codice penale particolarmente severo, assai poco illuminista, che lungi dall’abbracciare tesi abolizionistiche sanzionava con la morte una serie rilevante di “crimes” fondando l’intero sistema penale sulla paura. Questo codice, talvolta riveduto e corretto, venne in poco tempo esportato in gran parte dei paesi conquistati dai francesi.
In pochi anni la «massima costante» (come recitava il Proemio della versione del 1786 della Leopoldina) che vedeva la pena di morte come «non necessaria per il fine propostosi dalla Società nella punizione dei rei» veniva abbandonata ed anzi rovesciata: essa tornava infatti legittima proprio in quanto necessaria perché, come osservò il giurista Jean-Baptiste Target «Sans nécessité cette peine ne serait pas légitime» («Se non fosse necessaria questa pena non sarebbe legittima») e ancora, con crudo realismo, «Les société auxquelles on donne des lois doivent être considérées telles qu’elles sont, et non telles qu’elles pourraient être» («Le società alle quali si danno delle leggi devono essere considerate così come sono realmente, e non come si vorrebbe che fossero»). Come si può notare, da Beccaria a Target, e dalla Toscana granducale alla Francia napoleonica, l’utilitarismo era rimasto alla base delle riflessioni penalistiche ma con conseguenze ben diverse.
La Restaurazione non portò novità significative sulla questione. Sia nei regni dove vennero rimesse in vigore le precedenti normative criminali di antico regime (come ad esempio nel regno di Sardegna) sia in quelli dove, sull’esempio francese, si diede avvio ad un’opera di codificazione (come ad esempio nel regno delle Due Sicilie) si continuò a mantenere nell’arsenale sanzionatorio anche la pena di morte.
Nella stessa Toscana questa pena fu estesa nel 1817 anche ai furti violenti, e il nuovo codice penale del 1853 (che sostituì dopo oltre sessant’anni la Leopoldina) continuò a prevederla pur limitandola a fattispecie per lo più di natura politica.
Fu solo il Governo provvisorio instauratosi a Firenze nel 1859 a eliminare questa pena dall’ordinamento penale toscano ed è in questo contesto che maturò la significativa differenziazione tra la Toscana, in cui la pena di morte non era più in vigore, e il resto della Penisola, dove dopo l’Unità d’Italia venne sostanzialmente esteso (pur con modifiche in alcuni luoghi) il codice penale sabaudo del 1859 che continuava a prevederla.
Questa situazione si protrasse per circa trent’anni, tra vari tentativi di ricondurre ad unità il sistema realizzati da personaggi politici di primario livello come Pasquale Stanislao Mancini e tra l’autorevole voce di chi, come il penalista Francesco Carrara (ricordato in occasione dell’anniversario della sua nascita per Massime dal passato da Giulia Casavola nella rubrica #Giornopergiorno), faceva notare che sul piano teorico non era così “scandalosa” una legislazione differenziata, che consentiva di non «compromettere la giustizia» in Toscana ma neppure la sicurezza del resto del regno.
Per unificare per la prima volta il sistema penale italiano fu quindi necessario attendere il codice Zanardelli, entrato in vigore il 1° gennaio 1890, che abolì la pena di morte per ogni reato comune (restava ancora in vigore per alcuni reati militari e nelle colonie). Ecco il relativo #giornopergiorno.
La pena capitale scomparve quindi dall’ordinamento italiano per circa cinquant’anni, fino a quando venne reintrodotta sotto il regime fascista dapprima (nel 1926 con la legge speciale del 25 novembre n. 2008) per soli reati politici e poi (con il codice penale del 1930) anche per reati comuni.
La responsabilità di questa “retromarcia” non può però essere ricondotta integralmente alla volontà totalizzante del regime, in quanto in quei “cinquant’anni” la penalistica europea venne “sconvolta” fin nelle sue fondamenta da correnti culturali e giuridiche che si posero in antitesi rispetto alle tesi tradizionali della scuola classica di matrice beccariana. Cesare Lombroso, Enrico Ferri, Raffaele Garofalo e gli altri esponenti minori della scuola positiva stravolsero ogni teoria sostenendo la non esistenza del libero arbitrio nelle condotte umane e l’assoluta necessità di tutelare la società dai criminali, spostando così l’oggetto del dibattito dal reato (concepito come un enunciato astratto dai penalisti classici come Carrara) alla figura del reo. Un humus culturale (ad inizio Novecento certamente considerato all’avanguardia) che pur non prevalendo mai integralmente nella penalistica italiana, finì per influenzarne decisamente alcuni aspetti, tanto che, in alcuni istituti come ad esempio le misure di sicurezza, ancor oggi se ne sente (per usare un eufemismo…) l’eco.
Fu quindi necessario aspettare la caduta del regime e la fine del secondo conflitto mondiale per rimettere in primo piano la questione della compatibilità astratta della pena capitale nel “nuovo” ordinamento giuridico repubblicano.
Con la legge n. 224 del 10 agosto 1944 fu abolita la pena di morte per tutti i reati previsti dal codice penale, mantenendola però in vigore per i reati fascisti e di collaborazione con i nazifascisti. Già l’anno successivo, tuttavia, un decreto luogotenenziale del 10 maggio 1945 reintrodusse la pena di morte in via strettamente eccezionale come sanzione per alcuni fenomeni criminali particolarmente gravi che si andavano diffondendo approfittando della confusione del momento come la banda armata, le rapine violente e le estorsioni.
Naturalmente la questione venne affrontata e risolta in seno alla Costituente, dove, per quanto oggi sia anche solo difficilmente pensabile un effettivo dibattito sul tema per l’ormai trasversale contrarietà politica, la discussione non fu così lineare come si potrebbe immaginare.
Le posizioni sulla pena di morte nell’Assemblea Costituente
La discussione sulla pena di morte, ed in generale sulla formulazione del testo del futuro articolo 27 della Costituzione, entrò nel vivo dal dicembre 1946 per concludersi nell’aprile dell’anno successivo.
Leggendo gli atti dell’Assemblea Costituente emerge che, inizialmente, la volontà abolitrice (pressoché unanimemente condivisa dal consesso) non era totalmente orientata verso una cancellazione totale della pena capitale a livello costituzionale, ma si mostrava piuttosto favorevole a mantenerla in casi eccezionali e non necessariamente limitati alle leggi militari di guerra.
In effetti nella seduta del 12 dicembre 1946 il futuro presidente della Repubblica, nonché professore di procedura penale, Giovanni Leone, affermò di essere «stato sempre contrario alla pena di morte», pur sostenendo che non fosse opportuno per lo Stato rinunciare del tutto alla possibilità di comminarla per reprimere «gravissime forme di delitti» tanto più in tempi socialmente convulsi come il secondo dopoguerra.
Per tale ragione Leone arrivò a proporre di inserire in Costituzione una sorta di deroga, che consentisse, in casi eccezionali, di reintrodurre la pena di morte mediante legge votata a maggioranza parlamentare qualificata senza dover modificare il testo della Carta.
La proposta del costituente democristiano non venne approvata, ma l’idea di mantenere la pena capitale per i delitti comuni particolarmente gravi (oltre che per le leggi militari) non venne accantonata dall’Assemblea tanto facilmente.
Nella seduta del 25 gennaio 1947 gli onorevoli Umberto Nobile e Umberto Terracini (entrambi esponenti del PCI) suggerirono in proposito di inserire una deroga per conservarla «eccezionalmente anche per reati comuni, nel caso di omicidi efferati che sollevino la pubblica indignazione», mentre Leone proponeva di abrogarla solo in relazione ai delitti politici, lasciando alla sensibilità del futuro Legislatore ordinario la scelta in relazione a quelli comuni.
Il punto della questione era proprio questo: non tanto decidere se mantenere o no questa pena nella legislazione ordinaria… passato il periodo di “assestamento” istituzionale e sociale infatti i deputati costituenti erano quasi tutti d’accordo per cancellarla integralmente dall’ordinamento giuridico italiano (sempre con l’eccezione delle leggi militari); il problema era piuttosto se consentire o meno la possibilità di reintrodurla in un ipotetico futuro senza dover intraprendere un difficoltoso e lungo procedimento di revisione costituzionale. Espresse con chiarezza questo problema Leone nella seduta del 27 marzo successivo affermando che «La pena di morte è già caduta dal nostro ordinamento giuridico. Dobbiamo stabilire nella Costituzione che la pena di morte è abolita, oppure dobbiamo lasciare al legislatore di domani la facoltà – sulla quale non mi pronunzio, perché anche questo è un problema che potrebbe occupare intere sedute, intere legislature della Camera – di poterla ripristinare?».
Certo, nell’Assemblea Costituente non mancavano anche figure contrarie, senza se e senza ma, alla pena di morte che si impegnarono fortemente in questo senso.
Tra essi spiccò Paolo Rossi (professore di diritto penale socialista e futuro presidente della Corte Costituzionale) che sul tema si era già espresso chiaramente nel 1932 firmando un opuscolo dall’eloquente titolo La pena di morte e la sua critica.
Nella medesima seduta del 25 gennaio 1947 il deputato ligure volle attirare l’attenzione dei suoi colleghi sul «valore sentimentale» che la questione rivestiva, dovuta al fatto che, in circa un secolo e mezzo, si erano susseguite in “Italia” quattro abolizioni (nel suo ragionamento – un po’ retorico – Rossi considerava infatti come parte della storia giuridica “italiana” anche le abrogazioni Toscane del 1786 e 1859, quella della Repubblica romana del 1849 e, ovviamente, quella “zanardelliana” del 1889), successivamente smentite sempre in concomitanza di rigurgiti politici reazionari. Per tale ragione, Rossi riteneva che nella nuova Costituzione repubblicana questa pena avrebbe dovuto essere confinata nei codici militari. Secondo il ragionamento del deputato socialista neppure i delitti gravissimi avrebbero dovuto essere puniti con questa pena, e ciò per due ragioni specifiche che Rossi portò all’attenzione dell’Assemblea: innanzi tutto erano proprio i processi relativi ai delitti «che sollevano la pubblica indignazione» a portare più spesso a errori giudiziari in ragione del clamore che li circonda e, in secondo luogo, l’esperienza dimostrava che la minaccia dell’estremo supplizio non era mai stata idonea a disincentivarne realmente la commissione.
Il dibattito sulla pena di morte riprese il 26 marzo, quando tornò sul punto un importante penalista democristiano, Giuseppe Bettiol. L’opinione espressa dal futuro ministro della pubblica istruzione era abbastanza “laica”; egli riconobbe infatti che «non vi è un’opinione che tagli la testa al toro per cui la pena di morte possa dirsi assolutamente fondata o infondata dal punto di vista scientifico. Malgrado l’opinione diversa che Paolo Rossi ha espresso nel suo bellissimo libro, il problema è insoluto, e forse insolubile». La scelta “pena capitale si, pena capitale no”, andava quindi inquadrata su un piano squisitamente politico, prendendo atto che «dopo l’inflazione della pena di morte» che aveva caratterizzato il recente momento storico essa sarebbe dovuta essere limitata a casi veramente eccezionali.
Anche il liberale Giuseppe Fusco nella seduta del 28 marzo riconobbe che la natura del dilemma era sostanzialmente politica e affermò la sua assoluta contrarietà alla pena capitale «non già per ragioni di carattere dottrinario, né per le grandi ed ammonitrici voci del passato, a cominciare da Cesare Beccaria, e del presente (la più recente è stata quella dell’onorevole Paolo Rossi); ma soprattutto per quello che è stato l’esperimento della pena di morte nel periodo fascista». Seguiva il triste ricordo di alcune tra le più famose condanne a morte avvenute sotto il regime, come quella dell’anarchico Angelo Sbardellotto, mandato al patibolo dopo un processo di pochi giorni per il solo proposito di uccidere Mussolini ancorché non seguito da atti effettivi di esecuzione del disegno criminoso.
Alla fine prevalse nella Costituente l’indirizzo più stringente e il 15 aprile 1947 venne approvata la formulazione proposta del deputato Dante Veroni, infine divenuta il 3° comma dell’art. 27 della Carta costituzionale: «Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra».
Era così sancita la definitiva vittoria del fronte abolizionista. Come è noto, cinquant’anni dopo il Parlamento italiano avrebbe deciso di eliminare la pena di morte dal Codice penale di guerra (con la l. n. 589 del 1994) e poi ancora, dopo sessanta, di riformulare addirittura sul testo dell’art. 27 eliminando in radice, con la legge costituzionale 1/2007, qualunque possibilità di prevedere tale sanzione, anche per le leggi militari.
Chi può dire però cosa sarebbe successo se, in seno alla Costituente, fosse prevalso un indirizzo più possibilista, che avesse cioè consentito di reintrodurre con legge ordinaria la pena di morte in caso di reati particolarmente gravi? Nella storia repubblicana non sono in effetti mancati momenti di tensione, e la mente non può chiaramente che andare a quegli “anni di piombo” che lo Stato riuscì comunque ad affrontare anche grazie ad una serie di leggi speciali ma comunque nel pieno rispetto della legalità e delle garanzie costituzionali.
Saremmo riusciti a tenere ferma la posizione abolizionista o avremmo ceduto a soluzioni diverse? Fortunatamente (mi permetto di osservare) questi dilemmi ci sono stati “risparmiati” dalla lungimiranza dei nostri padri costituenti.
Gli atti dell’Assemblea Costituente (fra cui quelli citati in questo contributo) possono essere integralmente consultati on-line al seguente link: http://legislature.camera.it/frameset.asp?content=%2Faltre%5Fsezionism%2F304%2F8964%2Fdocumentotesto%2Easp%3F
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