Chi non è mai stato percorso da un brivido al pensiero che il proprio compagno o la propria compagna possa leggere i messaggi scambiati sul nostro cellulare? Non necessariamente perché abbiamo qualcosa da nascondere, ma anche solo perché teniamo alla nostra privacy.
Una preoccupazione ben più antica dell’invenzione di Whatsapp: quando ancora non c’era Telegram, infatti, c’erano proprio i telegrammi e nessuna legge sulla privacy (entrata in vigore nel 1997, molto oltre i termini delle storie che ci piace raccontarvi).
Anzi, al tempo di questa storia siamo così indietro negli anni che non esisteva neppure il termine privacy (presto su questi schermi per la rubrica Nomen Omen, per spiegarvi come è approdato nella lingua italiana).
In questa età eroica, però, almeno la segretezza della corrispondenza era riconosciuta. L’anno è il 1936 e secondo l’art. 616 c.p.:
“Chiunque prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta…”.
Non è una novità, già il Codice Zanardelli del 1889 all’art. 159 puniva
“Chiunque apre indebitamente una lettera, un telegramma o un piego chiuso a lui non diretto…”.
Quel'”indebitamente” manca nella disposizione del 1930, tanto da far sembrare che essa assuma un significato molto più netto e categorico, ma la cosa non è ritenuta di grande significato dalla giurisprudenza del periodo, la quale notava che non può comunque costituire reato l’azione che sia emanazione di una legittima facoltà dell’agente stesso.
Ma veniamo ai fatti.
Il signor Grande aveva aperto e letto un telegramma che supponeva fosse destinato alla moglie. Ma poteva farlo?
Già era ritenuto che il padre potesse aprire legittimamente la corrispondenza dei figli minorenni. E se invece a farlo era il marito nei confronti della moglie?
Secondo la signora Grande, evidentemente, una tale violazione della propria corrispondenza privata era inammissibile, e infatti invece di limitarsi a una sceneggiata napoletana trascinò il marito in tribunale.
Secondo il Tribunale di Napoli, invece, in questo caso bisognava valutare secondo equità, pesando concretamente le circostanze del fatto.
Di norma l’autorità maritale non ammette la facoltà di aprire la corrispondenza del coniuge, però è indubbio che spetti al coniuge il “ragionevole sospetto” di ritenere che la corrispondenza stessa rappresenti la prova dell’infrazione dell’obbligo di fedeltà matrimoniale di cui all’art. 130 c.c. (siamo nel 1936, dunque era ancora in vigore quello unitario del 1865).
Non solo, l’art. 132 c.c. stabilisce in capo al marito l’obbligo di proteggere la moglie, da cui ne è tratto il dovere “di preservarla da quanto possa riuscirle moralmente nocivo anche per altrui seduzione o per proprio traviamento”.
Si giunge alla conclusione che il marito ha sulla moglie, ma non viceversa, un diritto di sindacato morale sulla sua condotta che può esplicarsi anche nell’apertura dei telegrammi a lei diretti.
E anche di quelli erroneamente ritenuti a lei diretti.
Perché è questo che successe alla fine al signor Grande: altro che corrispondenza clandestina della moglie con un amante, quello che si ritrovò fra le mani fu un messaggio per la suocera!
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