A cento anni di distanza dall’impresa di Fiume, l’inquieta personalità del “Poeta soldato” continua a dividere i commentatori: una cesura secca tra denigratori ed esaltatori a priori, con una tendenza sfumata, ma comunque presente, ad accaparrarsene le gesta.
Nè a dirimere questo contrasto, che ancora vivente D’Annunzio era già piuttosto netto, può giovare l’esperienza fiumana, vista dagli uni come una prova generale dello squadrismo fascista, dagli altri come una proiezione politica dell’anarchismo del suo promotore, il quale era riuscito a fondere in uno soggetti provenienti dalle esperienze più diverse.
In realtà, come spesso accade, la soluzione che si vuole proporre si trova a metà strada. Non c’è dubbio infatti che il Regime abbia attinto a piene mani dalla risorgiva dannunziana: non solo negli aspetti iconografici (e folkloristici) che, portati all’estremo, avevano indignato Bottai[1], ma anche nella concezione dello Stato e nell’esperimento corporativo che, come vedremo, di molto sarebbero stati debitori al costituente fiumano.
D’altra parte non appare possibile sovrapporre in toto l’esperienza della Reggenza del Carnaro con quella fascista, foss’anche solo nella sua fase “movimentistica” (1919-1921): a Fiume vi erano infatti “anche” fascisti o futuri tali, ma non si può certo tacere, ad esempio, che il maggior contributo alla strutturazione giuridica dello Stato fiumano sia stato offerto da Alceste De Ambris, convinto oppositore del Regime[2], che imboccò la strada dell’esilio volontario e che sempre rifiutò i “ponti d’oro” che il Duce gli stese innanzi per ottenere un’adesione, anche solo di comodo, alla propria politica.
Proprio il De Ambris, che Mussolini avrebbe anni dopo qualificato come “il protagonista sociale” dell’avventura dannunziana[3], si rese infatti promotore del distacco, nel senso anche più strettamente giuridico, del territorio fiumano dalla madrepatria, redigendo prima in bozza e poi facendo accettare al Comandante – sebbene non supinamente come pretenderebbe il De Felice[4] – il proprio progetto costituzionale, la “Charta quarnerina”.
Promulgata dal Poeta l’8 settembre del 1920, non senza opposizione di quelle frange del movimento che ancora speravano nella possibilità di una composizione del dissidio con il Governo di Roma, la Carta del Carnaro costituiva il logico coronamento del discorso tenuto da D’Annunzio il 12 agosto, con il quale si era proclamato lo Stato libero di Fiume e in cui si era anticipata la preparazione “di una costituzione che avrebbe salvaguardato l’italianità di Fiume e garantito le forme più democratiche di governo”[5].
Che la Carta fosse democratica o, per usare le parole del suo “Fondamento III”, un “governo schietto di popolo – «res populi»” – si ricavava da tutta una serie di disposizioni innovative nel campo di quelli che oggi vengono, con gergo giornalistico, chiamati diritti civili: parità dei sessi, libertà di stampa, di pensiero, di religione venivano solennemente proclamati[6], e sublimati dal lessico “immaginifico” del Poeta, il quale aveva “arcaicizzato” (o meglio “arcadizzato”) una prima versione redatta dal De Ambris, allo scopo di connettere più strettamente l’esperienza quarnerina con quella dell’età comunale e delle “repubbliche delle lettere”, rinascimentali.
Ecco quindi che, al fondamento XIV, viene sancito che “Tre sono le credenze religiose collocate sopra tutte le altre nella università dei Comuni giurati:
“La vita è bella, e degna che severamente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà;
l’uomo intiero è colui che sa ogni giorno inventare la sua propria virtù per ogni giorno offrire ai suoi fratelli un nuovo dono;
il lavoro, anche il più umile, anche il più oscuro, se sia bene eseguito, tende alla bellezza e orna il mondo.”
Tacendo la penosa abitudine di fotografare soltanto gli aspetti deteriori dell’esperienza in commento[7], la tendenza dei commentatori “atecnici”, anche per solleticare la curiosità del pubblico, è quella di soffermarsi sui primi postulati e sui loro corollari, quali la prescrizione dell’educazione fisica a spese pubbliche (art. LVIII) o l’esaltazione della “musica”, cui è dedicato il capo di chiusura (artt. LXIV e LXV) in cui, con toni vagheggianti lo Streben romantico e la Wille zur Macht nietscheana, si afferma che “se ogni rinascita d’una gente nobile è uno sforzo lirico, se ogni sentimento unanime e creatore è una potenza lirica, se ogni ordine nuovo è un ordine lirico nel senso vigoroso e impetuoso della parola, la Musica considerata come linguaggio rituale è l’esaltatrice dell’atto di vita, dell’opera di vita.”
I costituzionalisti hanno dal canto loro approfondito l’originale forma di governo[8], in cui l’attuazione delle leggi era affidata a sette rettori (ispirati ai “Savi” veneziani), eletti “partitamente” dall’Assemblea nazionale, dal Consiglio degli ottimi e dal Consiglio dei Provvisori (cfr. art. XXXV), che conosceva, more romano, la dittatura del comandante in caso di “estremo pericolo” (art. XLIII).
Senza eccessive pretese tecnico-scientifiche, in questa sede, si desidera soffermarsi piuttosto sulla “forma di Stato”, intesa con Paladin come “modo di essere dell’intero assetto della «corporazione» statale”[9].
In proposito, pare utile partire dal dato normativo, richiamando quell’art. III, che fonda il citato “governo schietto del popolo” sulla “potenza del lavoro produttivo”. Detto postulato ha quali corollari il riconoscimento della proprietà quale “più utile delle funzioni sociali” – con espresso rifiuto della concezione liberale che nella stessa vedeva diritto assoluto[10] (art. IX) – e la terza delle “concezioni religiose” offerte dall’art. XIV sopra citato, secondo cui anche il lavoro più oscuro, “se bene eseguito, tende alla bellezza ed orna il mondo”.
Sulla base di tali premesse non è da considerarsi un caso, quindi, che questo documento legislativo, la cui natura è sublimata dall’ “afflato lirico che la pervade”[11], sia il primo che tenti di consentire una partecipazione organica dei produttori alla vita politica (e quindi alla strutturazione giuridica) dello Stato. L’uso del termine “produttori”, che una lettura disattenta potrebbe intendere quale sinonimo di “imprenditori”, viene chiarito dall’art. XVIII, inserito nel capo dei “cittadini”, quale ideale presentazione del singolare regime corporativo adottato. Per la norma citata “lo Stato è la volontà comune e lo sforzo comune del popolo verso un sempre più alto grado di materiale e spirituale vigore”.
Ne discende quindi (co. II) che “soltanto i produttori assidui della ricchezza comune e i creatori assidui della potenza comune sono nella Reggenza i compiuti cittadini e costituiscono con essa una sola sostanza operante, una sola pienezza ascendente.” Pertanto, essendo dall’art. XVII, dannati di infamia i “parassiti incorreggibili”, la pienezza dei diritti ha da considerarsi propria ai lavoratori, che “qualunque sia la specie del lavoro fornito di mano o d’ingegno, d’industria o d’arte, di ordinamento o di eseguimento, […] sono per obbligo inscritti in una delle dieci Corporazioni costituite che prendono dal comune l’imagine della lor figura, ma svolgono liberamente la loro energia e liberamente determinano gli obblighi mutui e le mutue provvidenze.”
Le prime nove corporazioni[12] costituiscono quindi un esplicito rifiuto delle concezioni classiste fin lì dominanti nello scontro politico ed accomunano nella partecipazione agli organi di governo, professionisti e artisti, operai e contadini, datori di lavoro e salariati.
Accanto a queste prime se ne prevedeva però una decima, di cui non si trova traccia nella bozza deambrisiana e che “non ha arte né novero né vocabolo. La sua pienezza è attesa come quella della decima Musa. È riservata alle forze misteriose del popolo in travaglio e in ascendimento. È quasi una figura votiva consacrata al genio ignoto, all’apparizione dell’uomo novissimo, alle trasfigurazioni ideali delle opere e dei giorni, alla compiuta liberazione dello spirito sopra l’ànsito penoso e il sudore di sangue.È rappresentata, nel santuario civico, da una lampada ardente che porta inscritta un’antica parola toscana dell’epoca dei Comuni, stupenda allusione a una forma spiritualizzata del lavoro umano: «Fatica senza fatica».
Proprio in questa norma, la cui indeterminatezza non ne pregiudica la funzione ermeneutica in rapporto al testo costituzionale e dunque la giuridicità, è rinvenibile il vero lascito della costituzione dannunziana: il rifiuto di una concezione dello stato meramente “tecnica”, che opprimesse il lavoratore nella semplice dimensione materiale della propria attività, coinvolgendolo invece, in virtù della propria dimensione spirituale, nell’edificazione della società del domani.
Traspare netto nelle pieghe della carta quarnerina il nichilismo attivo di Nietzsche, secondo cui “i veri filosofi sono dominatori e legislatori”. Essi dicono «così deve essere», prestabiliscono l’indirizzo e la meta dell’uomo e nel far ciò mettono a frutto il lavoro preparatorio di tutti gli operai della filosofia, di tutti i dominatori del passato. Essi spingono nel futuro la mano creatrice e tutto ciò che è e che fu diviene per loro un mezzo, uno strumento, un martello. Il loro «conoscere» equivale a creare, il loro creare a una legislazione, il loro volere la verità a volere la potenza.”[13]
Ecco dunque che in questa decima e misteriosa corporazione l’interprete riesce, grazie alle parole del pensatore di Röcken, a leggere il legame tra l’esperienza fiumana e il fascismo (o i fascismi se si preferisce). Furono infatti quelle a cavaliere delle due guerre le sole esperienze politiche che abbiano tentato di considerare[14], nel senso stretto del termine, Nietzsche nel proprio obiettivo di trasformazione dello Stato e, quindi, dell’Uomo. Dagli esiti ancora oggi si possono trarre non pochi spunti di riflessione, con ciò potendosi ritenere che la Carta del Carnaro continui ad avere funzione didascalica, prima che di mera testimonianza storica di un’epoca tramontata.
[1] V. su questa stesso sito, il contributo Una legge per gli artisti: la legge del 2 per cento.
[2] Cfr. De Begnac, Taccuini mussoliniani, Bologna, 1990, 100 e 239. Per Mussolini “le sue idee su un sindacalismo d’urto, estraneo ad ipotesi di pace con l’organizzazione economica italiana, di ieri e di sempre, cozzavano con quelle di Rossoni e, perché no?, con le mie.”
[3] Ibidem.
[4] De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino-Milano, 2015, 553. Per lo storico romano “sul piano interno De Ambris, giocando abilmente sulle confuse aspirazioni di rinnovamento politico-sociale del Comandante e sulla sua vanità, riuscì a far accettare a D’Annunzio il suo famoso progetto costituzionale.” Come si cercherà di giustificare infra, una simile spiegazione appare troppo semplicistica e riduttiva.
[5] Chiara, Vita di Gabriele D’Annunzio, Milano, 1978, 347.
[6] Chi scrive è dilettante di diritto ecclesiastico dello stato. Per “vocazione”, non può pertanto astenersi dal citare l’art. LIV della Carta, laddove, trattando dell’istruzione pubblica, si sancisce che “alle chiare pareti delle scuole aerate non convengono emblemi di religione né figure di parte politica. Le scuole pubbliche accolgono i seguaci di tutte le confessioni religiose, i credenti di tutte le fedi, e quelli che possono vivere senza altare e senza dio [minuscolo N.d.A.]. Perfettamente rispettata è la libertà di coscienza. E ciascuno può fare la sua preghiera tacita. Ma ricorrono su le pareti quelle iscrizioni sobrie che eccitano l’anima e, come i temi d’una sinfonia eroica, ripetute non perdono mai il loro potere di rapimento. Ma ricorrono sulle pareti le imagini grandiose di quei capolavori che con la massima potenza lirica interpretano la perpetua aspirazione e la perpetua implorazione degli uomini.” Si confronti questa prescrizione con, l’ancora vigente art. 118 R.D. 30 giugno 1924 n. 965 e, alla luce del confronto tra queste disposizioni, si traggano spunti circa l’individuazione delle differenze ontologiche tra Regime fascista e Reggenza fiumana.
[7] V. ad es. Lanna e Rossi, voce Cocaina, in Id., Fascisti immaginari. Tutto ciò che c’è da sapere sulla destra. Firenze, 2003, 103.
[8] “Democrazia decentrata” la chiama Chiara, loc. cit.
[9] Paladin, Diritto costituzionale, 3a ed., Padova, 1998, 27-28.
[10] Non si può tacere il contributo offerto a questa concezione da Leone XIII, Litt. Enc. Rerum novarum, 1891, n. 7.
[11] Rauti-Sermonti, Storia del fascismo, I, Le interpretazioni e le origini, Roma, 1976, 288.
[12] XIX – Alla prima Corporazione sono inscritti gli operai salariati dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, dei trasporti; e gli artigiani minuti e i piccoli proprietarii di terre che compiano essi medesimi la fatica rurale o che abbiano aiutatori pochi e avventizii. La corporazione seconda raccoglie tutti gli addetti ai corpi tecnici e amministrativi di ogni privata azienda industriale e rurale, esclusi i comproprietarii di essa azienda. Nella terza si radunano tutti gli addetti alle aziende commerciali, che non sieno veri operai; e anche da questa sono esclusi i comproprietarii. La quarta corporazione associa i datori d’opra in imprese d’industria, d’agricoltura, di commercio, di trasporti, quando essi non sieno soltanto proprietarii ma – secondo lo spirito dei nuovi statuti – conduttori sagaci e accrescitori assidui dell’azienda. Sono compresi nella quinta tutti i pubblici impiegati comunali e statuali di qualsiasi ordine. La sesta comprende il fiore intellettuale del popolo: la gioventù studiosa e i suoi maestri: gli insegnanti delle scuole pubbliche e gli studenti degli istituti superiori; gli scultori, i pittori, i decoratori, gli architetti, i musici, tutti quelli che esercitano le arti belle, le arti sceniche, le arti ornative. Della settima fanno parte tutti quelli che esercitano professioni libere non considerate nelle precedenti rassegne. L’ottava è costituita dalle Società cooperatrici di produzione, di lavoro e di consumo, industriali e agrarie; e non può essere rappresentata se non dagli amministratori alle società stesse preposti. La nona assomma tutta la gente di mare.”
[13] Nietzsche, Al di là di Bene e Male. Preludio a una filosofia del futuro. A cura di Manara, Licandro e Colla, Padova, 2013, n. 211, 227.
[14] Cioè “osservare gli astri per trarne auspici” più propriamente terreni.
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