Montaigne è stato un umanista del XVI secolo che, leggendolo oggi, ci sembra estremamente moderno. Ritiratosi nel suo castello per meditare e riflettere, non ha mai smesso di osservare il mondo e i suoi paradossi. Ha “inventato” il genere del saggio e nei suoi Essays ha scritto di ogni argomento, lasciandoci un ritratto autentico e schietto di sé.
Chi non ha mai pensato, a un certo punto della propria vita (o forse anche in più di un punto), che sarebbe bello mollare tutto e ritirarsi in una torre piena di libri?
Ebbene, è esattamente quello che un bel giorno del 1570 ha fatto Michel de Montaigne.
Consigliere al Parlamento di Bordeaux e magistrato in uno dei periodi più turbolenti della storia di Francia, Montaigne aveva quotidianamente a che fare con le violente controversie fra cattolici e protestanti. Per natura e per educazione era poco portato ad agire come mero esecutore della ragion di Stato: prima degli studi di diritto erano stati i grandi pensatori e filosofi classici i suoi maestri, da cui aveva appreso i principi morali e l’attitudine a rimanervi fedele.
Era stato suo padre a introdurlo allo studio del latino, forse esagerando un po’: a tredici anni, quando fu mandato in collegio, conosceva il francese molto peggio del latino ed ebbe difficoltà a integrarsi coi compagni. E anche da adulto l’eredità della sapienza antica continuò a renderlo una personalità fuori tempo: mentre prendeva piede in campo politico il machiavellismo, Montaigne cercava sempre la via della mediazione e soprattutto dell’onestà. Per lui il fine non giustificava mai i mezzi.
Ma come fare a continuare perseguire la via della conciliazione nel bel mezzo di una guerra di religione? Scoraggiato dalla possibilità di mantenere la sua carica senza mai scendere a compromessi, ma soprattutto afflitto dalla morte del padre, a cui era molto legato, e del suo più intimo amico, Étienne de La Boétie, decide di dimettersi. Si auto-commenta così: «Preferisco venir meno allo scopo della mia missione anziché a me stesso».
Ritiratosi a vita privata, al terzo piano di una delle torri del suo castello adibisce una vasta biblioteca circolare con le sue citazioni preferite dipinte sulle travi. Non è esattamente vero che non si farà mai più vedere in società: avrà modo di svolgere ancora qualche azione diplomatica e perfino di compiere un lungo viaggio in Italia, di cui ci rimane il diario. Tuttavia, è alla scrittura che dedicherà il resto della vita.
Dapprima prende la penna in mano solo per tenere traccia dei suoi pensieri mentre il tempo sembra scorrergli davanti inafferrabile. A spizzichi e bocconi registra, senza reticenza alcuna, tutto quello che gli passa nella mente: nascono così gli Essays, assaggi di tanti argomenti, messe alla prova del mondo e di sé, che inaugurano la nascita di un nuovo genere (sì, è proprio Montaigne a inventare il saggio!).
Non c’è ordine, non c’è sistematicità negli Essays, il cui contenuto è mobile come il pensiero stesso (e come la vita stessa). Inevitabilmente, anche la lingua deve adattarsi a questa materia instabile: non il latino, ma il francese, lingua viva, in evoluzione e ormai perfettamente sua.
Dicevamo: scrive di tutto, senza retorica e senza imbarazzi. Riflette sulle massime dei pensatori stoici e si lamenta dei suoi calcoli renali; racconta della sua caduta da cavallo così come della caduta di Roma e descrive il mondo in balia delle guerre così come il suo corpo preda degli anni che avanzano; medita sul valore dell’amicizia, sulla morte, sull’amore per i libri, sui costumi e le leggi dei popoli lontani, che all’epoca venivano chiamati “selvaggi” e che per Montaigne – adottando un relativismo culturale da antropologo ante litteram – non sono certo meno assurdi di noi occidentali. Anzi, prova a mettersi nei panni di un indigeno e a guardare i francesi con i suoi occhi: che gente incomprensibile, che si inchina di fronte a un monarca assoluto, tollera la schiavitù e il privilegio di pochi e si fa la guerra per questioni grammaticali!
Montaigne non osa dirlo esplicitamente, ma ci lascia intuire che tutta la solfa della Riforma in fin dei conti ruota attorno a come interpretare l'”hoc” che si dice durante l’Eucarestia, se significhi o meno la presenza reale di Cristo nell’ostia. E invece – questo lo afferma con forza – l’Europa non si pone nessun interrogativo sul massacro che sta compiendo nelle Americhe.
Lui è tra i primi a porre l’accento sull’argomento, così come su altre questioni estremamente moderne: i diritti degli animali, l’educazione dei bambini, il tabù che la società ha imposto su un argomento così naturale quale il sesso, la terribile superstizione del popolo e della Chiesa che porta delle povere sventurate sul rogo chiamandole “streghe”.
L’atteggiamento di Montaigne, in tutti questi casi, è quello della sospensione di giudizio. È difficile, se non impossibile, stabilire ontologicamente cosa è vero e cosa è giusto.
Forse l’unica cosa di cui è certo è che tutto è vanità: e in questo fluire inesorabile dell’esistenza, quello che desidera è solo lasciare una traccia sincera di sé a chi rimarrà dopo di lui.
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CONSIGLI DI LETTURA
Se stavate già pensando di prendervi anche voi un periodo sabbatico, quale migliore occasione per immergervi nei Saggi di Montaigne (consiglio l’edizione Bompiani del 2014).
Ma se 1238 pagine vi mettono ansia, per cominciare potete procurarvi un volumetto dal titolo Un’estate con Montaigne di Antoine Compagnon (edito da Adelphi nel 2014). Si tratta delle trascrizioni di quaranta puntate di pochi minuti di una trasmissione radiofonica francese con cui Compagnon ha tenuto compagnia ai bagnanti per tutta un’estate. Prometto che vi conquisterà!
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