Reato, s.m.
Signore e signori, mettetevi comodi perché il Nomen Omen di oggi potrebbe insinuare il dubbio nel vostro quotidiano come mai prima d’ora.
E se vi dicessi che un lemma che compare più di 400 volte nel Codice penale vigente, è il frutto di un errore letterario, passato di copia in copia e divenuto, nel tempo, norma?
Oggi parliamo di reato, concetto esteso e complesso, per dirla con Gian Domenico Romagnosi:
Il nome di reato viene da noi attribuito a qualunque violazione dell’ordine giusto e dimostrato dalla ragione, da qualunque uomo o potenza venga commessa. Quindi esister possono tanti reati legislativi quanto reati esecutivi, tanto speculativi quanto pratici.
Vi ho però promesso scintille. Facciamo parlare la storia della lingua per noi.
L’etimologia del termine ci porta al latino REATUS “stato di colpa, accusa”, sostantivo derivante dall’aggettivo REUS, “colpevole”. Alla base c’è RĒS, “cosa” ma anche “azione”.
La radice, passata per filtro Proto Italico, è Proto Indo Europea: *reh₁ís, significante “ricchezza, beni”. La radice di reato ha quindi molto in comune con realtà e, udite udite, Repubblica (coincidenze?).
L’esito naturale nel nostro italiano sarebbe quindi quello che oggi definiamo “reo”, quindi la condizione dell’imputato e non il capo d’accusa dello stesso.
Come siamo arrivati a questo scambio di costumi?
Pensando alla trasmissione delle fonti prima dell’avvento della stampa (che, tuttavia, non resta immune a refusi ed errori-orrori di sorta), ci troviamo di fronte alla fonte più prolifica di errori che Natura abbia creato: la mano dell’uomo e il filtro della mente del copista.
Il reo del nostro caso è il celebre Francesco Accursio, fiorentino nato nella Toscana del XII secolo ed entrato nel Pantheon degli scrittori italici grazie alla sua Magna Glossa al Corpus Iuris Civilis Giustinianeo: una summa di 97.000 glosse riprese dai commentari più importanti all’opera dell’Imperatore.
Se l’intento era più che nobile, nel tentativo di fare ordine e di salvaguardare la veridicità e la chiarezza delle fonti, Accursio interpretò il REATUS giustinianeo come “fatto criminoso”, e non quale accusa, come vorrebbero le fonti.
Come accadrebbe oggi con una fake-news sui Social, il reatus nelle sua nuove vesti, grazie al successo della grande opera accursiana, nel corso del XIII secolo iniziò già a consolidarsi nel significato che gli attribuiamo oggi.
Ma la rocambolesca storia di questo termine ha altro in serbo per noi.
L’attestazione del concetto di reato all’interno del linguaggio giuridico come lo intendiamo oggi, e cioè di “comportamento umano contravvenente alla legge”, per il quale è prevista una punizione penale, è tutto sommato giovane e risale all’Ottocento.
Si tratta di una vittoria guadagnata solo dopo aver sbaragliato innumerevoli contendenti e sinonimi che invadevano il campo semantico dell’atto indebito da secoli.
Nel Diritto Romano troviamo, ad esempio, l’excessus come i delicta e i crimina: i primi due riferiti alle offese oggetto di contese tra privati, il terzo, più grave, riferito agli attentati diretti dal singolo verso l’intera comunità, con azioni intraprese dallo Stato contro il reo.
Nell’italiano volgare non stupisce eccessivamente come la prima attestazione sia rintracciabile in un documento di ambito religioso del 1306, dove il “reato” è il vincolo che lega colpa e pena. Dalle parole di Giordano da Pisa:
Nel peccato si ha più cose: l’una si è l’opera, l’altra si è la macula, l’altra si è il reato; queste due cose non passano, cioè la macula e ‘l reato, cioè l’obligagione al ninferno.
Tra Medioevo e Rinascimento, nei documenti ufficiali e nei trattati vi era un ventaglio lessicale ben guarnito dedicato all’identificazione delle azioni degne di condanna. Spesso questi “sinonimi” erano utilizzati in ridondante sequenza, come negli Statuti della Città di Lucca del 1500, dove ne troviamo una singolare cinquina:
Statuimo che ciascheduno Giudice competente, secondo che apparterrà alla sua Giuriditione, sia tenuto & debbi investigare & ricercare tutti & singuli i maleficii, Colpe, eccessi, over delitti, & negligentie.
Se nei codici pre-unitari ritroviamo ancora l’oscillazione di significanti, è nel 1889 e con il Codice Zanardelli che il piano di supremazia del reato sopra i rivali poteva consolidarsi.
Come leggiamo nell’art.1:
Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. I reati, si distinguono in delitti e contravvenzioni.
Da qui in poi la Waterloo di falli, malefici e delitti non lasciò scampo a nessun sinonimo. Si istituiva quindi nuova giurisdizione semantica del reato nelle sue, più o meno, nuove vesti, nate da un refuso, e ancora oggi mantenute a norma.
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Bibliografia
Reato, in GDLI, UTET (Accessibile online).
Reato, in Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (Accessibile online).
Reatus, (par les Bénédictins de St. Maur, 1733–1736), dans du Cange, et al., Glossarium mediae et infimae latinitatis, éd. augm., Niort : L. Favre, 1883‑1887, t. 7, col. 035a (Accessibile online).
Romagnosi, G. Domenico, Dei reati che nocciono all’Industria, alla circolazione delle ricchezze ed al cambio delle produzioni, in Annali universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio, Volume 34, Milano, Società degli Editori degli Annali Universali delle Scienze e dell’Industria, Tipografia Lampato, 1832 (Accessibile online).
Fiorelli, Piero, Intorno alle parole del diritto, Milano, Giuffré Editore, 2008.
Bambi, Federigo, L’italiano. Conoscere e usare una lingua formidabile. 12. Leggi, contratti, bilanci. Un italiano a norma?, Accademia della Crusca – La Repubblica, Milano, 2016.
s.v. ACCURSIO, Francesco, di Melchiorre Roberti, in Enciclopedia Italiana, 1929 (Accessibile online).
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