“E’ la stampa, bellezza. E tu non puoi farci niente”
C’è questo film, “L’ultima Minaccia” del 1952, che parla di stampa: il Direttore di un giornale assai famoso decide di portare a termine una delicata inchiesta che ha ad oggetto i loschi affari di un brutto ceffo, il quale da par suo tenta in tutti i modi di bloccare le rotative pronte a sfornare le migliaia di copie che denunceranno le sue malefatte.
Nonostante tutte le implicazioni sottese alla trama del film (libertà di stampa, ruolo della stampa, funzione di controllo democratico svolto dalla stampa), l’unica cosa per il quale ci si ricorda di esso è il protagonista, impersonato da Humphrey Bogart, e la sua battuta finale. In pratica Bogart – impassibile come una sfinge – indirizza la cornetta del telefono verso il rombo delle rotative e sussurra al suo brutto interlocutore: “E’ la Stampa, bellezza. E tu non puoi farci niente, niente!”. Storia del cinema.
“Di querele, Giornalisti e carichi penali”
Ma rischia di far storia anche la pronuncia dei Giudici di Monte Cavallo sulla legittimità costituzionale della pena detentiva quale sanzione per la diffamazione a mezzo stampa (Ordinanza n. 132/2020). Sollevata la questione dai Tribunali di Salerno e di Bari, la Corte ha rinviato di un anno la decisione affinché sia il Legislatore a decidere se – e in che misura – sia giusto mandare in gattabuia il giornalista ritenuto diffamatore.
Diffamazione e giornalisti: un connubio praticamente inscindibile. Non c’è articolo di cronaca che non rischi di provocare un’offesa, dalla quale gemma una querela che – a sua volta – genera (ipso facto, dicono i giuristi eleganti) un procedimento penale. Una goccia in più nel grande mare degli affari penali, un carico in più nella spaventosa mole di fascicoli che grava sulle spalle della Magistratura (onoraria e non).
Quest’ultima considerazione aprirebbe la strada alla trattazione di una piaga che occupa i discorsi plananti sulle tazzine di caffé servite ai bar dei tribunali, perché – credete sulla parola – non passa giorno che ogni operatore del diritto, dal piantone al cancellerie, dall’avvocato al magistrato, non si lamenti delle cifre raggiunte dai numeri di ruolo.
“Una efficace ADR: il duello”
Eppure, nell’800, avevano escogitato un modo assai efficace per deflazionare i carichi pendenti. Come? Semplice. Coi duelli. Vestitevi della vostra redingote più bella, pronti per fare un salto indietro di ben 136 anni, quando la Stampa era ancora giovane, i Giornali proliferavano come le pagine su facebook e gli articoli venivano letti a voce alta nei circoli che univano uomini di comuni idee politiche. E’ un periodo assai turbolento, questo decennio che inizia con l’anno 1880, per la cui descrizione rimando all’immaginifico dello steampunk. Turbolento in Europa, figuratevi in Sicilia: terra di cavallerie rusticane.
Il duello – inteso come mezzo di composizione delle controversie – era regolamentato essenzialmente da due codici: il Gelli e l’Angelini. Ritengo sia l’ultimo diritto ove si poteva riscontrare una vera e propria dimensione sapienziale: i due autori, infatti, erano considerati vere e proprie fonti alle quali attingere in caso di dubbi interpretativi.
Ma come funzionava concretamente un duello? Lo scopriamo dai verbali di una disputa conservati negli archivi di famiglia.
Marsala, 5 settembre 1886: la sinistra cittadina si stringe attorno alla figura del Sen. Prof. Avv. Vincenzo Pipitone, radicale. Si riuniscono presso un Circolo, chiamato “Società Democratica Garibaldi”, il quale è pure munito di un organo di stampa chiamato “La Nuova Età”.
Nelle colonne di questo settimanale si affrontano temi che, nel futuro (cioè oggi), avrebbero impegnato intere schiere di intellettuali: ad esempio, “La vita privata e la stampa”, ove ci si domanda “fino a qual punto degli uomini rivestiti di alte cariche sociali sia censurabile la vita privata intima”.
Se gli articoli fossero stati tutti di questo tenore, non avremmo di che parlare.
Ma, evidentemente, qualche pezzo – apparsi nella rubrica “Ritratti Plastici”– ebbe modo di pungere l’orgoglio di un maggiorente cittadino marsalese che (in rispetto della riservatezza dei discendenti) chiameremo Mevio.
Tizio, figlio di Mevio, risoluto nella decisione di difendere l’onore del proprio genitore, si reca al Circolo. Alle ore 12.00, bussa alla porta, chiedendo chi fosse l’autore di quel tale articolo; il Sen. Pipitone risponde che sarebbe venuto meno al suo dovere di riservatezza (all’epoca si pubblicava usando gli pseudonimi) se ne avesse rivelato l’identità. E infatti spiega all’offeso che la legittimazione passiva è della Redazione nel suo complesso: si rivolga formalmente ad essa, quale nome collettivo, e avrà la soddisfazione che cerca. Si stringono la mano, tutto sembra risolto.
Ore 13.00. Qualcuno bussa di nuovo alla porta del Circolo. Torna Tizio, ma stavolta è accompagnato da Caio e Sempronio. Tizio, Caio e Sempronio riformulano la richiesta fatta al Sen. Pipitone, il quale risponde: o proponete querela o spedite formale lettera di sfida. A questo punto gli animi si scaldano, perché Sempronio afferma testualmente “Lei non vuol declinare il nome perché quella Redazione è composta da vigliacchi, e anche lei è un vigliacco”. Sennonché passa di lì, per caso, l’Avv. Gioacchino Pipitone, fratello del Senatore, che senza aver preso parte ad alcuna discussione si vede apostrofato così “E anche lei è un vigliacco, e sono pure a sua disposizione”- “Lo proveremo – risponde il Sen. Pipitone – ma intanto mi sia il pubblico testimone che ricevo una offesa non provocata”.
Attenzione: la vocatio alla testimonianza del Pipitone non è peregrina, giacché dalla condizione di offeso derivano tutta una serie di diritti e prerogative: non ultima, quella di scelte dell’arma.
Poiché l’offesa fu rivolta alla Redazione nel suo complesso, fu l’assemblea del circolo – convocata d’urgenza e in via straordinaria – a decidere il da farsi. Dal verbale del 5 settembre 1886: “Sia vietato al Presidente di scendere ad azione cavalleresca con Sempronio; si permetta che si sfidi a nome proprio soltanto l’Avv. Pipitone, si mandi cartello di sfida in nome collettivo per la Società e per la Redazione. Si offrono, per la società il Prof Tito Zerilli, per la Redazione il Prof. Vito Rubino”. Segue una sorta di professio juris: si ordina che ogni sfida sia lanciata condizionatamente alle norme prescritte dal Codice Cavalleresco di A. Angelini.
Rogato l’atto, si passa alla notifica: il Codice prevedeva un termine di 48 ore per la notifica della lettera di sfida; ne vengono mandate in numero di tre per tre coppie di rappresentanti: “Il sottoscritto, ritenendosi offeso dal V.S. per le parole siete un vigliacco e sono a vostra disposizione lanciategli il giorno 5 corrente mese, ha pregato i Sig.ri Bonfanti e Coppola di chiederle una riparazione d’onore ai termini del Codice Cavalleresco di Achille Angelini. Avendo i summenzionati signori accettato questo mandato, la S.V. vorrà considerarli quali rappresentanti del sottoscritto, muniti all’uopo di pieni poteri. Marsala, 7 settembre 1886”. Sempronio rispose “accetto in massima”.
I rappresentanti degli sfidati si costituiscono in riunione al fine di determinare i dettagli dello scontro da celebrarsi: apprendiamo dalla loro penna che
“i rappresentanti di Sempronio non vollero uniformarsi alle prescrizioni del codice Angelini, quando nel cartello di sfida era già espressa la condizione di una riparazione a norma del codice istesso, non restando altra via al Sig. Sempronio che accettare o respingere la sfida condizionata”.
Ma perché si fa riferimento espresso a questa condizione? La risposta ce la fornisce il giornale: è Circolo stesso (e dunque la Redazione) – a guisa di clausola compromissoria – ad aver stabilito con delibera del 15 maggio 1885 che qualsiasi sfida, lanciata o ricevuta, sarebbe stata regolata dl Codice Angelini. Perché? “La Società Democratica deliberava che a tutti i suoi soci sia imposto di uniformarsi per le vertenze cavalleresche al codice Angelini … Il Codice Angelini, raccogliendo tutto quanto vi è di buono nelle consuetudini delle diverse provincie d’Italia, ha cancellato tutto quanto c’è di vecchio, non corrispondente ai tempi e alle nuove idee morali e sociali”. In altre parole: il Circolo prende atto della bontà del Codice, attestata – si legge nello stesso codice – “splendidamente mercé le firme di distinti personaggi apposte al presente libro”, e specifica sin da subito le norme da seguire. Una sorta di pubblicità-notizia, per intenderci, affinché eventuali querelanti sappiano regolarsi di conseguenza.
A questo punto, disponiamo di tre verbali: uno per ogni sfidante autorizzato. Il primo è quello di sfida in proprio dell’Avv. Gioacchino Pipitone (fratello del Senatore Vincenzo).
“Marsala, 8 settembre 1886 (da notare la celerità delle procedure, n.d.r.), I signori rappresentanti del Sig. Pipitone hanno dichiarato, essendo loro mandato, quello di uniformarsi al Codice Angelini e, come tale, essendo a loro la scelta delle armi, hanno già annunziato che scelgono la pistola a quindici passi di distanza. […] I Sig. Rappresentanti del Sig. Sempronio non riconoscono affatto il Codice Angelini e che, fino a che detto codice non verrà avvalorato dalla pubblica opinione, essi non possono assumere la responsabilità di stabilire un precedente contrario alle inveterate usanze di Sicilia. Essi quindi ritengono che la scelta delle armi appartiene allo sfidato (e non all’offeso, n.d.r.). Osservano altresì che non intendono riconoscere altro codice, eccetto quello della propria coscienza, la quale ripugna alla scelta di un’arma micidiale non affatto proporzionata all’offesa. Essi quindi ritengono che, tanto per le abitudini del nostro paese quanto per la poca gravità dell’offesa, si dovesse scegliere la sciabola. La concisione del verbale non deve indurre in errore: “essendo l’ora tarda s’è passato a firmare il presente verbale, avendo stabilito di riunirsi questa sera alle ore 7 p.m. per continuare d’accordo quanto resta ancora da discutere”.
Il seguito può compendiarsi in questo modo: i rappresentanti del Pipitone insistono per la scelta della pistola, i rappresentanti di Sempronio vogliono la sciabola. Nonostante il Sempronio avesse dato ai suoi Rappresentanti “mandato illimitato a non mostrare che da canto loro si venisse a pretesti per evitare la scesa sul terreno”, i Rappresentanti del Pipitone ritirano il cartello di sfida perché non è stata accettata l’arma della pistola, ritenuta dagli sfidati troppo micidiale.
Dal verbale della riunione dei Rappresentanti del Prof. Rubino coi rappresentanti di Sempronio – tenutasi l’8 settembre 1886 – si evince che la sfida non ha luogo in quanto non viene accettato il Codice Angelini quale corpus di norme regolatrici (con tutte le conseguenze sopra descritte).
L’ultimo verbale, redatto il successivo 9 settembre, dà atto della riunione dei rappresentanti di Sempronio con quelli del Prof. Zerilli. Ques’ultimo
inabile alle armi bianche per non avere alcuna istruzione di esse, sceglie giusta pistola a piede fermo tirando per primo a quindici passi. I Rappresentanti di Sempronio, non potendovisi uniformare, si dichiarano pronti a riparazione conforme all’offesa.
Niente di fatto, i rappresentanti dei rispettivi contendenti si ritirano.
Provocatio ad Populum: gli offesi-sfidanti offrono all’opinione pubblica i verbali della vertenza cavalleresca: conseguenza naturale del fatto che – anche secondo gli Ermellini di oggi – il bene protetto dai reati contro l’onore di cui agli artt. 594 e 595 Codice Rocco è la dignità del singolo inteso come “credito in società” secondo quel che è il sistema di valori di riferimento. Il 12 settembre affidano alla stampa il seguente comunicato:
“Ed ora al pubblico giudizio: chiamati vigliacchi, per chiedere riparazione cavalleresca ci siamo strettamente attenuti al Codice Angelini, e ci fu negata. Se siamo vigliacchi, e quel codice ci torna tanto comodo, quello è il codice dei vigliacchi. Lo sappia Angelini…!”.
Ciò che accade dopo è manifestazione dell’essenza stessa della Giurisdizione: il 12 settembre stesso i contendenti della vertenza Rubino-Sempronio “stralciano” la propria posizione, affidandone la risoluzione ad un organo terzo ed imparziale chiamato “Giurì d’Onore” (ne rimane traccia nell’odierno art. 596 c.p.), che sappiamo essere costituito in Collegio dal Presidente Cavalier Giacomazzi Favara e dai “giudici a latere” Barone Pepoli di Rabici, Cavalier Fardella Saura, Avv. Mazzarese e Avv. Curatolo. Motivazione succinta, come del resto prescrive l’attuale Codice di Procedura Penale: “Ritenuto che dall’articolo che ha dato luogo alla sfida … non risulta la intenzione offensiva verso il padre del Sig. Sempronio … Constatata la perfetta regolarità della condotta tanto della persona dello Sfidante, fiero tutore del decoro della propria famiglia, che quella dello Sfidato, rimasto fedele alla logica della situazione e ai Principi dell’Onore … Dichiara: Non dovere affatto aver luogo il duello fra il Sempronio e il Rubino.
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Degli altri non mi è dato sapere, conservando soltanto gli atti del “fascicolo” relativo al mio avo. Quel che però qui importa sono i temi che la vicenda fa emergere. Innanzi tutto: il codice cavalleresco. Esso altro non è che la raccolta (e la successiva sistemazione) di tutte le consuetudini cavalleresche di un Nazione giovanissima, secondo i principi di uno Stato ormai affrancato dalla dimensione “fisica” del diritto. E’ lo stesso Angelini, benché sia l’estensore di un corpus iuris che tratta del duello, a spiegarne le ragioni che ne rendono irrazionale il ricorso
“Il Duello non è che un avanzo di barbarie giacché esso 1) non riabilita il colpevole; 2) non cancella un’offesa; 3) non punisce sempre l’offensore”.
Eppure la sua genesi compilatoria – lungi dall’essere un Codice propriamente detto – sembra anticipare di parecchi anni la logica dei famosi “Testi Unici”. Nonostante questa prolessi giuridica, c’è un qualcosa che guarda al passato: l’elezione del corpo giuridico di riferimento sembra ricalcare la “Professio Iuris”, con la quale – durante i Regni romano-barbarici – il soggetto dichiarava la legge alla quale si obbligava.
Quel che di positivo rimane di questa storia è la celerità con cui si è addivenuti alla trattazione e risoluzione del… carico pendente: dalla citazione al verdetto del Giurì in appena sette giorni. Un successo che le ADR di oggi possono soltanto immaginare.
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