Il 29 aprile 1945, ormai perduta la guerra, i nazisti abbandonarono la Risiera di San Sabba di Trieste. L’unico campo di concentramento della penisola dotato di un forno crematorio. Il 29 aprile del 1976, esattamente trentuno anni dopo, la Corte di Assise di Trieste – dopo un farraginoso iter giudiziario – condannò all’ergastolo l’ultimo comandate del campo superstite: Joseph Oberhauser.
Dopo una odiosa coltre di silenzio che si era posata per oltre venti anni, a partire dal 1966 giunsero al giudice istruttore presso il Tribunale di Trieste numerose richieste di rogatorie provenienti dalla autorità giudiziaria di Francoforte che stava indagando per i reati commessi dai comandanti tedeschi Allers e Oberhauser in quel territorio che nel periodo 1943-1945 faceva parte dell’OZAK, Operationszone Adriatisches Küstenland, e in particolare nell’area compresa tra Trieste, Udine e Fiume. Infatti, dopo l’8 settembre e fino all’aprile 1945, l’area geografica in questione era stata divisa in tre zone: R1, R2 e R3. Obersturmbahnführer della sezione R1, Trieste-San Sabba, fu Josef Oberhauser.
A San Sabba vi era uno stabilimento per la pilatura di riso che i tedeschi avevano adibito a campo di detenzione, smistamento e annientamento, dotato di forno crematorio: l’unico forno di tutti i campi di concentramento esistenti nella penisola (oltre a San Sabba – Trieste, c’erano tre campi a Borgo San Dalmazzo – Cuneo, Bolzano e Carpi Fossoli – Modena). Questo triste primato era dovuto al fatto che il litorale adriatico avrebbe dovuto, nei piani tedeschi, essere annesso direttamente al Reich.
Il giudice istruttore di Trieste diede corso alle rogatorie richieste da Francoforte, prospettando però all’ufficio del PM l’opportunità di procedere in loco contro i comandanti, essendo emersi sufficienti elementi di colpevolezza per essere incriminati in Italia.
Dopo che le Sezioni Unite della Cassazione ebbero risolto nel 1973 un conflitto di attribuzione tra il giudice militare e quello ordinario, riconoscendo la competenza a favore di quest’ultimo, il 28 novembre 1974 fu emesso un mandato di cattura a carico di Allers e Oberhauser.
Nel 1975 si aprì dunque il processo davanti alla Corte di Assise di Trieste. Allers morì in corso di causa e la sentenza fu emessa solo nei confronti di Oberhauser, cui era addebitato di avere soppresso nel Lager di San Sabba:
- un primo gruppo di ebrei malati di mente, prelevati dall’ospedale psichiatrico di Trieste;
- un secondo gruppo di ebrei malati, prelevati da un ospedale di Venezia;
- un terzo gruppo di cinque ebrei, uccisi a causa del ritrovamento, da parte dei tedeschi, di altrettante monete d’oro, che erano state nascoste da detenuti rimasti non identificati, in una latrina del campo;
- per lo sterminio di due decine di prigionieri per la fuga di alcuni altri, avvenuta durante il bombardamento del 10 giugno 1944, e il massacro di due famiglie, Rupena e Slosar, composte anche di adolescenti e vegliardi;
- infine, l’uccisione di Giuseppe Robusti, reo di non essersi presentato al servizio del lavoro, e di altre quattro persone: il vecchio ebreo Abramo Bemporath, i coniugi Grini, delatori, e Gianna Bordignoni Sereni, la quale aveva osato chiedere, all’atto della propria dimissione dal lager, la restituzione della somma di lire 30.000, sequestratale al momento dell’arresto.
Le uccisioni erano avvenute tutte mediante gasazione o per impiccagione o a colpi di mazza. I corpi erano stati cremati in un rudimentale forno, alimentato a legna e dotato di una graticola, capace di accogliere una dozzina di salme, che veniva fatto funzionare sfruttando il forte risucchio di una ciminiera altissima, già esistente nello stabilimento dell’ex pilatura del riso.
Nel capo di imputazione, peraltro, i singoli episodi criminosi erano contemplati nel quadro di una serie necessariamente indeterminata di altre uccisioni, rimaste senza prove né testimoni.
Le operazioni naziste: T4, Reinhard e A.K.
Nella sentenza si dà atto di tre diversi momenti cronologici “divenuti ormai tre momenti storici delle più segrete e tragiche vicende del secondo conflitto mondiale”: l’operazione T4, l’operazione Reinhard e l’operazione che la Corte denomina A.K. (Adriasches Ktistenland).
L’operazione T4 (da Tiergenstrasse, 4, Berlino, dov’essa ebbe il centro operativo), era iniziata nel ’39 e cessata nel ’41, e consistette nella eliminazione di infermi di mente e malati irrecuperabili, e fu per questo motivo chiamata Operazione Euthanasie. Vi parteciparono fedelissimi del partito, obbligati al segreto, che eliminarono circa 70.000 persone.
La seconda operazione «Reinhard» si protrasse dal ’42 all’autunno del ’43. Verosimilmente, la sua denominazione derivava dal prenome del capo dell’SD (Servizio di sicurezza tedesco) Heydrich, ucciso dai partigiani cechi. Consistette nello sterminio degli ebrei polacchi, eseguito nelle retrovie dell’Est europeo, particolarmente nei campi di concentramento di Belzec, Sobibór e Treblinka, dove milioni di innocenti furono soppressi, e milioni di corpi furono inceneriti nei forni crematori. In questa seconda impresa furono impiegati una novantina di elementi, veterani dell’operazione T4, al comando del generale Globočnik, che avrebbe poi rinnovato le sue “gesta” anche a Trieste.
Nell’autunno del ’43, sciolti i lager polacchi, il generale Globočnik fu inviato alla testa di una cinquantina di uomini nella zona del neo-istituito Litorale Adriatico, destinata alla futura annessione al Reich. La zona fu soggetta a una amministrazione “particolare”, consistente nella rapina dei patrimoni ebraici e nell’arresto e deportazione dei loro proprietari. L’operazione si estese fino alla eliminazione di ogni residuo di sopravvivenza ebraica, come dimostrarono i prelevamenti di ebrei “mentecatti” e invalidi dagli ospedali di Trieste e Venezia.
R1, R2 ed R3 erano sigle che rappresentavano la prosecuzione dell’operazione Reinhard in Italia.
Omicidi comuni e omicidi di guerra: le prescrizioni dell’ordinanza Notte e Nebbia
Il capo di imputazione fu riferito solo ad alcune delle uccisioni dovute a ragioni di persecuzione razziale o a motivi personali di vendetta o di lucro. Non furono ammessi al dibattimento decine di casi di omicidi commessi per ragioni di guerra perché avvenute in esecuzioni a ordini impartiti dall’Einsatzkommando, da corti marziali o da organi di giustizia campale. La Corte, in effetti, si preoccupò di stabilire se la soppressione di resistenti e dissidenti politici alla Risiera di San Sabba fosse stata un atto illegittimo; e in tal caso, se fosse stato un atto illegittimo di diritto comune (reato di omicidio) o di diritto bellico (reato contro le leggi e gli usi di guerra).
Fu anzitutto dimostrato che, nell’ambito dell’apparato repressivo nazista, gli uomini dell’Einsatzkommando non agivano affatto in esecuzione di decisioni capitali adottate da autorità esterne, quali, appunto, le corti marziali o le autorità di giustizia campale, ma come autonomo centro di potere.
Infatti, secondo le prescrizioni dell’ordinanza «Nacht und Nebel» («Notte e nebbia»), promulgata da Hitler il 7 dicembre 1941 e la polizia di sicurezza, di cui la sezione R1 costituiva parte integrante, aveva il compito di far sparire «nella notte e nella nebbia», senza processo, per non provocare disordini, chiunque fosse considerato attentatore alla sicurezza del Reich. Inoltre, in base alle istruzioni di Hitler, la polizia stessa decideva in merito alle azioni di terroristi e sabotatori, senza le forme e la pubblicità del giudizio, « per non creare dei martiri». In tal modo si concentravano nelle mani della polizia poteri di mero arbitrio e con poteri di vita e di morte.
La polizia di sicurezza perseguiva nell’OKAZ il fine della eliminazione fisica degli avversari politici e razziali, e con l’infuriare della guerra partigiana era indotta a moltiplicare le più dure e spietate forme di repressione («terrore contro terrore, occhio per occhio, dente per dente», ordine n. 9 d. d. 24 febbraio 1944 del comandante nella zona d’operazioni del litorale adriatico, Kübler). Sicché l’indiziato poteva uscire cadavere dai sotterranei della sede dell’SD di piazza Oberdan, come poteva essere condannato a morte da quel comando e ucciso, poi, alla Risiera, ovvero essere direttamente imprigionato alla Risiera, senza passare dal comando di piazza Oberdan, e là, nella Risiera, inquisito e ucciso; e non soltanto da ufficiali, ma anche da subalterni e gregari.
I fatti di soppressione di resistenti armati o di avversari politici nella Risiera di San Sabba furono dunque considerati non come atti legittimi, esecutivi di ordini di giustizia impartiti da autorità esterne, ma come atti illegittimi, commessi nell’ambito dell’apparato repressivo della polizia di sicurezza del Reich. Si sia trattato, quindi, di ebrei o di ostaggi o di resistenti armati o di oppositori politici, la soppressione del recluso nella Risiera di San Sabba costituì sempre un illecito.
Reato contro le leggi e gli usi di guerra o reato comune
Con una lunga disamina giuridica, la Corte giunse a distinguere alcune delle condotte ascritte agli imputati come reati contro la legge e gli usi di guerre e altre come reati comuni.
In particolare, nella prima ipotesi rientrano le uccisioni nella Risiera di:
- appartenenti a formazioni militari, catturati con le armi in pugno e con addosso una divisa, in quanto, trattandosi di combattenti dotati di distintivi visibili a distanza, avrebbero avuto diritto, secondo la legge di guerra, al trattamento dei prigionieri di guerra;
- franchi tiratori catturati con le armi in pugno, in quanto costoro, non essendo dotati di distintivi visibili a distanza, avrebbero dovuto, secondo la legge di guerra, essere soppressi mediante fucilazione nel petto; e, nei casi meno gravi, avrebbero dovuto essere condannati alla sola pena detentiva.
- persone colte in flagranza di spionaggio e di sabotaggio, cui spettava, secondo i principi del diritto internazionale, il diritto ad un regolare giudizio. (mentre era emerso che gli uomini di San Sabba giunsero fino al punto di prelevare dall’ospedale, dov’era ricoverato, un sabotatore dalle mani sfracellate a causa dell’esplosione della stessa bomba che avrebbe voluto lanciare, per ucciderlo poi alla Risiera);
- disertori e autori di varie infrazioni, i quali della diserzione e delle infrazioni avrebbero dovuto, invece, rispondere, anche, eventualmente, col massimo della pena, secondo le previsioni e con le precise modalità fissate dai codici penali militari di guerra e dalle leggi di guerra.
Reati comuni furono invece considerati la soppressione e l’uccisione alla Risiera di:
- persone inquisite perché sospette di far parte del movimento armato partigiano o di essere avversari politici del Reich, per i loro sentimenti, le loro opinioni, la loro appartenenza a partiti e la loro concreta azione di propaganda politica;
- l’uccisione di familiari di partigiani, torturati a morte, per estorcer loro un’informazione, o imprigionati e soppressi per ritorsione o vendetta
Il forno crematorio
La sentenza si sofferma molto sul forno crematorio, riportando molte testimonianze di ufficiali tedeschi ed ex deportati.
Il Gley ne aveva fornito questa particolareggiata descrizione:
Sapevo che nella Risiera di Trieste esisteva un impianto di cremazione. Questo impianto è stato costruito da Lambert, come la maggior parte degli altri dello stesso genere nei campi di sterminio e negli istituti per l’eutanasia. Quale camino era stata adoperata una ciminiera già esistente nella Risiera. Ai piedi del camino c’era un forno aperto di mattoni, della grandezza di circa m. 2×2, che aveva una grande graticola di acciaio. Secondo una mia valutazione, di volta in volta potevano esser messe nel forno 8-12 salme. Il forno e il camino erano aperti. Non c’era una porta di ferro. Era un impianto molto primitivo, che adempiva al suo scopo grazie all’alto camino. C’era un forte risucchio. Questa ciminiera si trovava in un capannone nella parete di fronte.
All’inizio del 1943 giunsero alcuni camion carichi di salme solo maschili. Le salme furono cremate nel citato impianto. Poiché la benzina era scarsa, il forno era alimentato a legna. Nella Risiera erano immagazzinate grosse quantità di legno di faccio, che esistevano già prima della nostra venuta. Io stesso ho visto come le salme venivano cremate nel citato impianto.
Un altro teste, Dubois:
A San Sabba c’era anche un forno crematorio molto primitivo. Era stato costruito da Lambert. Mi ricordo della cremazione di 70-80 partigiani. Questi erano stati uccisi fuori dal lager.
Il teste Schiffner aggiunse anche qualcosa in più:
Dietro il cortile c’era anche una specie di crematorio. Suppongo che sia stato costruito da Lambert. Quando io arrivai a San Sabba, esisteva già questo impianto crematorio. Esso veniva messo in funzione durante la notte. Qualche volta ho prestato servizio durante la notte, non nel lager ma nella portineria. Durante il servizio notturno avevo notato che dietro il lager, presso il crematorio, c’era movimento. Ho percepito anche lo spiacevole odore di bruciato. Alla cremazione delle salme erano adibiti SS ucraini (…). Prima del forno crematorio c’era una grande stanza, nella quale venivano condotti gli ebrei. Non ho sentito spari. Per quanto mi ricordi, nella stanza in cui venivano rinchiusi gli ebrei non c’era un impianto a gas. Suppongo che gli ebrei venissero impiccati, perché si potevano sentire talvolta durante la notte le grida. Delle impiccagioni si occupavano gli ucraini. Queste percezioni delle azioni omicide le ho avute nel 1944 o inizio del 1945, molto probabilmente, però, nel 1944 (…). Le uccisioni degli ebrei a San Sabba sono state effettuate fino alla fine della guerra. Conoscenza certa ho però solo dei fatti successi durante il mio servizio notturno. Degli altri ho conoscenza in seguito a racconti fattimi.
Anche l’imputato Oberhauser – nonostante qualche tentativo puerile di discolpa – confessò che:
Nell’edificio segnato con la lettera E nella piantina, c’era un forno nel quale, come mi è stato detto, venivano cremate delle salme. Si trattava di salme di partigiani, che erano stati condannati dal competente tribunale delle SS e polizia e che erano stati uccisi nella località di Opicina. Durante il periodo di Wirth e Hering sono stati cremati in questo impianto anche ebrei che erano stati uccisi col gas (…).
Le esecuzioni di massa e le uccisioni individuali
La circostanza dell’esecuzione in massa e delle uccisioni individuali, sia di ebrei, sia di partigiani, sia di dissidenti politici, trovò conferma in molte deposizioni. Chiarissima era stata, al dibattimento come già in istruttoria, la testimonianza del Wachsberger, ebreo, prelevato a Fiume il 15 aprile 1944, e imprigionato per un anno alla Risiera, fino al 29 aprile 1945.
Il Wachsberger, artigiano, fu addetto dai tedeschi a lavori di sartoria, ed ebbe modo di seguirne attentamente l’opera delittuosa. Per la prima volta, nel giugno 1944, seppe dell’esistenza di un forno crematorio. Vide, infatti, arrivare un autocarro carico di salme maschili, e il mattino dopo poté constatare che nell’autorimessa entravano tutti «i caporioni», fra cui Allers e Oberhauser, e ne uscivano con i lineamenti del viso sconvolti per il disgusto. In quella circostanza era stata portata sul posto molto più legna del solito.
Ogni venerdì venivano perpetrate le esecuzioni in massa: nell’autorimessa, che comunicava col forno mediante un passaggio mascherato da uno strano mobile da cucina, veniva fatto entrare un camion, all’interno del quale si sprigionavano i gas. La sera la porta dell’autorimessa, dov’era stato fatto entrare l’autocarro, rimaneva socchiusa. Il giorno dopo, davanti all’ingresso di un magazzino che faceva parte del lager, dov’erano custoditi i beni sequestrati agli ebrei, si trovavano ammucchiati gli indumenti tolti dagli aguzzini alle vittime durante la notte. Le donne addette al magazzino li raccoglievano e li riponevano nelle scansie. Spesso il Wachsberger, invitato da loro a entrare, aveva identificato gli uccisi, attraverso la ricognizione degli abiti.
Complessivamente, secondo un approssimativo calcolo del teste, con tale sistema erano state eliminate alla Risiera, durante l’anno della sua detenzione, non meno di duemila persone. La massima intensità delle esecuzioni collettive era stata raggiunta tra la fine del 1944 e l’aprile del 1945. In quel periodo, infatti, il Wachsberger e altri detenuti avevano raccolto documenti di identità e lettere strazianti (scritte dai morituri soltanto per dare sfogo alla disperazione e al dolore): documenti e lettere, custoditi per qualche tempo dal Wachsberger e dai suoi compagni di prigionia, ma poi distrutti per non correre il pericolo di essere scoperti.
Ulteriore conferma del funzionamento del dispositivo di morte, apprestato a San Sabba dagli uomini dell’E.K., deriva dalla precisazione del teste Wachsberger di essere tornato sul posto il 30 aprile 1945, giorno successivo a quello della fuga dei nazisti e della sua liberazione, e di avere potuto, per la prima volta, notare tra le macerie dell’autorimessa distrutta dai tedeschi nell’abbandonare il lager, una scaletta che scendeva, rispetto al livello dell’impiantito, e conduceva ad un vano sotterraneo, dov’era stato allogato il forno. Altri testimoni avevano confermato le esecuzioni di massa, molto frequenti, accompagnate dal rombo di motori di automobili e a gruppi di centinaia di persone alla volta, tra urla, rumori e tonfi. Dalle testimonianze emerse che gli infelici che venivano introdotti nel locale della autorimessa, erano lì storditi a colpi di mazza e poi sgozzati; i loro corpi venivano cosparsi di nafta e bruciati. Vi erano poi degli indizi che anticipavano il momento della strage per soffocare le urla: venivano azionati altoparlanti a tutto volume, aizzati i cani per farli abbaiare, accesi i motori, etc. Molti testi videro il camino fumare e percepirono l’odore caratteristico della carne bruciata. Altri poterono osservare, fuori della Risiera, le mosse dei soldati addetti allo smaltimento delle ceneri e di residui di ossa combuste, raccolti in grossi sacchi, che venivano fatti sparire in mare.
Il teste Wachsberger confermò di avere assistito alla soppressione di alcuni detenuti avvenuta a causa della fuga di altri due in occasione del bombardamento del 10 giugno 1944. In quella occasione, le donne della pulizia gli confidarono di avere sistemato nel magazzino il vestito di una donna che portava il lutto, da lui conosciuta e vista nel lager come cameriera di un albergo di Abbazia. L’esecuzione avvenne nell’autorimessa e i detenuti furono prelevati dalle celle. Lo stesso teste dichiarò che due ragazzi e un vecchio, obbligati per un certo tempo a portar legna, furono poi soppressi e i loro vestiti sistemati nel magazzino.
Wachsberger raccontò anche della morte di Giovanna Bordignoni Sereni, arrestata a Venezia e tradotta a San Sabba, pur essendo cattolica, col marito ebreo i figli. Questi furono deportati in Germania, la donna era stata rilasciata nel gennaio 1945, ma avendo incautamente chiesto la restituzione della somma di lire 30.000 prelevatale all’ingresso del lager, venne di nuovo imprigionata e fu uccisa. Nel magazzino fu visto il suo tailleur.
Lo stesso testimone confermò l’uccisione degli infermi prelevati dall’ospedale della città. Giunti a San Sabba, fu chiesto loro se fossero in grado di sopportare il viaggio per la deportazione in Germania. Alcuni ebbero l’ingenuità di rispondere negativamente, e furono soppressi la sera stessa. Molte altre furono le testimonianze di efferati omicidi, come quello di una anziana signora, vedova di un alto ufficiale dell’ex impero austro-ungarico, che fu trascinata dagli sgherri su una coperta, lungo le scale, e in tal modo uccisa.
L’intera famiglia Slosar, fra cui un vegliardo e un giovinetto, fu distrutta alla Risiera dopo qualche giorno di detenzione. La famiglia era composta da Antonio Slosar, ottantottenne, vecchio nazionalista sloveno, dal figlio Antonio e dal nipote Antonio, dal pronipote quattordicenne Mariano e da due donne, entrambe di nome Maria, rispettivamente, madre e sorella del teste, non d’altro colpevoli che dei loro sentimenti antinazisti.
Della fine di Pino Robusti parlarono la fidanzata Laura Mulli, e i genitori. Il Robusti, come risulta da tali deposizioni e dalle lettere pervenute alla fidanzata dal carcere del Coroneo, era stato arrestato perché renitente al servizio del lavoro. La sua giacca, trovata fra le macerie del forno crematorio, fu riconosciuta dalla madre.
Continua poi la Corte osservando come l’eliminazione immediata a San Sabba di ebrei vecchi o malati trovasse una razionale collocazione nel quadro criminoso più ampio delle deportazioni in massa verso i lager della Germania, di cui l’autorità giudiziaria tedesca ha fornito un approssimativo di deportazioni da San Sabba ad Auschwitz e altri campi di concentramento.
In definitiva, il lager di San Sabba fu, per le vittime della persecuzione razziale, prevalentemente un campo di transito, mentre per le vittime della persecuzione politica o di crimini commessi in violazione delle leggi e degli usi di guerra rappresentò un carcere, un braccio della morte senza processi né giudici.
La condanna
Tutto quanto questo premesso in fatto, la Corte analizza i profili di responsabilità di Joseph Oberhauser, unico imputato superstite a carico del quale esistevano prove schiaccianti, documenti, lettere sottoscritte, ordini di arresto, oltre alle tante testimonianze sopra passate in rassegna. Vi era anche una lettera a firma di Oberhauser, intestate alla sezione R1, con cui dopo avere tentato di dissuadere la destinataria – Ida Ascoli, nata Tommasini – dall’insistere nelle ricerche dei suoi congiunti, deportati in Germania, si afferma falsamente che costoro erano deceduti in un attacco terroristico presso Monaco.
Il PM, dott. Clausio Coassin, aveva poi osservato come le dichiarazioni rese dall’imputato contenevano una vera e propria confessione dei reati a lui ascritti, per la decisiva importanza del riconoscimento del significato delle prove documentali e per la fragilità delle discolpe, che sottolineavano la gravità degli addebiti. Non era dunque seriamente contestabile la colpevolezza dell’imputato, anche se – osserva la Corte – il suo difensore, con responsabile impegno professionale che trova in una società di uomini liberi pieno riconoscimento aveva tentato di sminuire la portata delle prove a suo carico.
Oberhauser fu anche colui che provvide personalmente, la notte del 29 aprile 1945 dopo la capitolazione e la fuga, alla distruzione del forno crematorio, lo strumento approntato per disperdere ogni vestigia dei nemici del Reich. Fu giudicato colpevole di omicidio plurimo premeditato, aggravato dall’uso di sevizie e crudeltà e condannato all’ergastolo “la pena più grave tra quelle contemplata dall’ordinamento giuridico italiano”, con la sanzione dell’isolamento diurno per la durata di tre anni.
La condanna fu emessa il 29 aprile 1976, nel giorno del trentunesimo anniversario dell’abbandono del Lager da parte dei nazisti.
Oberhauser non fece nemmeno un giorno di prigione. Continuò a vivere da uomo libero a Monaco lavorando in una birreria fino alla morte avvenuta il 22 novembre 1979.
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