Una relazione extraconiugale, un licenziamento e una decisione destinata a entrare nella storia della giustizia del lavoro. Un estratto da Storia di un pretore di Romano Canosa.
Cosa può insegnarci, ancora oggi, un processo per un garzone di salumeria licenziato per una faccenda di cuore?
Molto, se a scrivere la sentenza è Romano Canosa, pretore del lavoro nella Milano degli anni ’70, tra i protagonisti di una stagione in cui la giustizia entrava nei luoghi di lavoro e si interrogava sui limiti del potere padronale.
Il caso è comparso spesso sugli schermi di Massime dal Passato (i più affezionati lo ricorderanno senza dubbio). Milano, 1970: un giovane garzone di salumeria viene licenziato, “colpevole” di aver avuto una relazione con la moglie del padrone…
Nel 1970 entrava in vigore lo Statuto dei Lavoratori, segnando una svolta storica nei rapporti tra impresa e lavoro. In quegli stessi anni, Romano Canosa era pretore del lavoro alla Pretura di Milano, nel pieno delle vertenze sindacali, degli scioperi e dei conflitti sociali. Magistrato lucido e indipendente, aderente alla corrente progressista Magistratura Democratica, Canosa divenne presto uno dei protagonisti della cosiddetta stagione dei “pretori d’assalto”: giudici che scelsero di portare la Costituzione dentro le fabbriche, e la giustizia accanto ai diritti dei lavoratori.
Negli anni caldi delle lotte sindacali, Canosa scelse di tutelare concretamente i diritti nei luoghi di lavoro, riducendo il potere padronale, bloccando licenziamenti e riconoscendo scioperi.
Si trovò spesso a decidere casi politicamente esplosivi (non da ultimo, si occupò dell’omicidio Feltrinelli) e le sue sentenze – spesso scandalose, sempre argomentate con rigore – facevano discutere la stampa, il mondo politico e l’opinione pubblica.
Verso la fine dell’anno 1970, però, si ritrovò per le mani un caso molto meno “politico”. La massima è memorabile:

Nella sua autobiografia Storia di un pretore, Canosa commenta il caso e la sentenza con l’ironia e la precisione che caratterizzano tutta la sua opera. Vi lasciamo leggere le sue parole:
Alla fine dell’anno decisi una causa che non aveva nulla a che vedere con lo statuto, ma che mi avrebbe provocato numerosissime critiche. Il dipendente di una salumeria se la intendeva (o almeno così era risultato dalle carte) con la moglie del titolare. Scoperta la tresca, il garzone era stato licenziato in tronco. Perfetto forse come amante, ma sicuramente attaccato, come si dice, al soldo, il garzone aveva citato in giudizio il salumaio chiedendo che il licenziamento fosse dichiarato illegittimo e che il suo datore di lavoro fosse condannato a pagargli l’indennità sostitutiva del preavviso. Decisi la causa nel senso, mi sembrava pacifico, che tutto quello che accade al di fuori dell’ambiente e dell’orario di lavoro non può produrre alcuna conseguenza sul rapporto stesso e condannai il salumaio a pagare trentamila lire di indennità sostitutiva del preavviso al suo garzone.
Per qualche giorno non accadde nulla, poi incominciai a notare che i risolini di certi avvocati accompagnavano il mio passaggio nei corridoi del palazzo di giustizia. Una mattina vennero da me i cronisti giudiziari e mi chiesero se era vero che avevo fatto una sentenza così e così. Dissi di sì e raccomandai loro, se avessero pubblicato la notizia, di non pubblicare il nome e il cognome delle parti, ma soltanto le iniziali, invito che tutti accolsero.
Nelle settimane e nei mesi seguenti sarebbero apparsi sui giornali e sulle riviste giuridiche, delle critiche feroci alla sentenza, dopo che il suo contenuto era stato abbondantemente modificato dai suoi critici, per meglio attaccarla. Ad esempio, io avevo condannato il salumaio soltanto a pagare una somma al garzone, senza ovviamente disporre la sua reintegrazione nel posto di lavoro. Venne scritto al contrario che io avevo “rimesso” il garzone nella salumeria, con il rischio che finisse a coltellate (le salumerie abbondano, come si sa, di coltelli) tra salumaio e garzone, salumaio e moglie, moglie e garzone, ecc.
Nella sentenza avevo fatto riferimento alla funzione del diritto che, secondo me, non consisteva semplicemente nella trasposizione meccanica delle idee sociali più conservatrici, ma a volte, anche nello svolgimento di un’azione in senso progressivo. Avevo inoltre fatto riferimento al codice del lavoro della Russia zarista, nel quale era previsto che il padrone potesse e dovesse correggere il suo dipendente qualora questi facesse vita non regolata, ecc. Per tutta risposta, un avvocato, Bovio, in uno dei più diffusi settimanali italiani scrisse che avevo applicato il diritto… “siberiano”, ecc.
A onor del vero, va detto che ricevetti anche molte dichiarazioni di consenso.
Al di là del caso specifico, che poteva sembrare frivolo o addirittura ridicolo, la sentenza mi era servita per esprimere quello che avevo sempre pensato: se si consente al padrone di censurare in qualche modo quello che il dipendente fa fuori dell’orario di lavoro, nella sua vita privata, si reintroducono nozioni di “fedeltà” utili soltanto a una parte (il datore di lavoro) e che in una società fondata sullo scambio di merci non vi e posto per alcun obbligo di questo tipo a carico dei lavoratori.
Al di là del tono ironico, questa pagina dice molto su come Canosa intendesse il ruolo del magistrato: non semplice applicatore di norme, ma interprete critico della realtà, capace di difendere la libertà del singolo anche nei contesti più ordinari.
Storia di un pretore torna in libreria il 5 giugno in una nuova edizione arricchita, con prefazione di Carla Ponterio e un contributo di Salvatore Trifirò. Un racconto personale e politico, colto e tagliente, che parla al presente più di quanto si possa immaginare.
