Il 28 luglio 1976 inizia l’epoca delle cosiddette TV private: il tutto partì da una sentenza sull’illegalità del monopolio Rai, alla quale si arrivò dopo un lungo iter giuridico.
Nel 1952, 26 gennaio, lo Stato italiano ha concesso alla Rai – Radiotelevisione italiana in via esclusiva il campo delle radio-diffusioni e tele-trasmissioni su tutto il territorio nazionale, con data di scadenza al 15 dicembre 1972. La società di strada ne aveva fatta: nata a Torino nel 1924 con il nome di Unione radiofonica italiana, era evoluta nel tempo via via allargandosi e includendo nuove offerte agli spettatori.
Proprio dal 1952, quasi tutte le azioni della società passarono all’IRI – Istituto per la Ricostruzione industriale, ponendo la RAI sotto il controllo indiretto del governo italiano.
Giunti allo scadere della concessione nel 1972, le cose per la Rai si complicano. Nel 1973 l’allora Comunità Economica Europea (CEE), per mezzo della Corte di Giustizia di Lussemburgo, aveva giudicato che la società italiana violasse le norme sulla concorrenza – in questo caso in materia di trasmissioni – sancite dall’art. 85 del Trattato di Roma del 1957 (l’importantissimo documento che segnò la nascita della stessa CEE). Infatti, il monopolio della Rai-Tv ostacolava la libera circolazione del mercato pubblicitario televisivo, inteso sia come prodotto in sé, sia come veicolo destinato a incrementare gli scambi commerciali fra i Paesi membri.
In seguito, nel luglio 1974, la Corte Costituzionale si raccolse a decidere sull’espansione dei ripetitori delle tv estere presenti sul territorio che trasmettevano a colori e su un decreto governativo che ne ordinava la disattivazione. La Corte emise due sentenze: la prima chiarì la legittimità dell’installazione dei ripetitori esteri, l’altra la liceità delle trasmissioni via cavo (C. cost., 10.7.1974, n. 225 e 10.7.1974, n. 226). Quest’ultima fu un passo decisivo: si concedeva ai privati la possibilità, in ambito locale, di trasmettere via cavo. Per quanto riguarda la prima sentenza, i ripetitori esteri non potevano considerarsi illegittimi poiché non occupavano le bande concesse al nostro paese, dunque il divieto ostacolava la libera circolazione delle idee e l’accesso a varie fonti di informazione. Dopo la sentenza, l’Italia vide l’ascesa di numerose tv locali: circa una settantina.
Il 28 luglio del 1976, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 202 liberalizzava le trasmissioni televisive via etere, in ambito locale e mantenendo allo Stato il monopolio su tutto il territorio.
Si manifestò ben presto un problema: questa sentenza apriva una nuova epoca nel campo delle telecomunicazioni, ma spettava al governo elaborare la normativa capace di regolamentare il nuovo percorso. In aggiunta, in quegli stessi anni l’opinione pubblica e diversi esponenti politici – tra cui diversi membri del PCI – contestavano proprio l’influenza dello Stato sulla Rai e il suo monopolio sul palinsesto dell’intero Paese.
Seguirono quindi alcune iniziative per limitare l’ingerenza Rai sulle altre reti: tra questi di particolare importanza fu il ricorso della Rizzoli. Il noto editore desiderava trasmettere in diretta oltre l’ambito locale il telegiornale «Contatto» simultaneamente rispetto al palinsesto della tv di Stato, così la Rai portò la questione davanti alla Corte Costituzionale.
La Corte ha stabilito in quell’occasione, con sentenza n. 148 del 1981, che le Tv private non avrebbero potuto trasmettere in simultanea programmi senza limiti territoriali, bensì soltanto mandarli in onda entro l’ambito regionale. Le righe del Corriere della Sera del tempo commentavano così la decisione della Corte:
Si doveva cioè rispondere al dilemma: libertà d’antenna o no?
I legali della Rizzoli posero poi un’importante questione: i programmi della Rai non avevano motivo di sovrastare l’offerta delle reti private, se non per ragioni di servizio pubblico particolarmente rilevante o in presenza di un interesse pubblico generale superiore.
I legali che rappresentavano la Rai affermarono al contrario che fosse nell’interesse pubblico mantenere il monopolio della compagnia, giacché in presenza di pochi canali e di elevati costi di mantenimento, senza la Rai si sarebbe creato un oligopolio governato dai potenti gruppi industriali. E fu questa la determinante della sentenza.
L’attesa riforma del settore radiotelevisivo si ebbe soltanto con la legge 6.8.1990, n. 223, cd. legge Mammì, giudicata alquanto ambigua: il mercato aveva assunto un assetto dualistico, rappresentato dal fronte delle tv private, dominato da Fininvest, e quello della tv pubblica di “mamma Rai. La nuova legge consentì ad uno stesso soggetto di essere titolare del 25% delle concessioni sulle reti nazionali disponibili: la posizione della Fininvest era intatta, giacché controllava tre canali.
Le controversie tra rete pubblica e privati furono ancora numerose e assai intricate, rispecchiando d’altronde il complesso quadro politico degli anni ’90, che pure non migliorò arrivando ai giorni nostri.
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