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55. Il Campanile di Asiago (1901)

55. Il Campanile di Asiago (1901)

Alle cinque di mattina del 20 settembre 1870, le truppe italiane sotto il comando del generale Cadorna iniziarono il cannoneggiamento alle mura di Roma. Il Papa, Pio IX, aveva provato l’ultimo disperato tentativo di difesa, minacciando di scomunicare chi avesse comandato di aprire il fuoco su Roma, l’ultimo baluardo dell’ormai occupato Stato Pontificio.

L’ordine giunse lo stesso, a pronunciarlo fu il capitano Giacomo Segre, di religione ebraica che per la verità della scomunica non sapeva che farsene, in quanto di religione ebraica.

Poco dopo le nove del mattino, a una cinquantina di metri a sinistra di Porta Pia si aprì una breccia. Nemmeno un’ora dopo le rassegnate truppe pontificie esposero bandiera bianca. Nel giro di una settimana, Roma era stata occupata in ogni suo angolo e in ogni suo palazzo. Solo i possedimenti del Vaticano rimasero al Papa, Pio IX, l’ultimo papa re, che non riconobbe mai l’autorità del Regno d’Italia su Roma e per tutta la vita continuò a dichiararsi prigioniero politico.

Nasce la questione romana (su Pio IX, leggi la Massima Il Discorso del Papa Re), che sarebbe – più o meno – stata superata solo con i Patti del 1929.

Nel frattempo, il 20 settembre 1895, in occasione del venticinquesimo anniversario della Breccia di Porta Pia, fu istituita la festa nazionale del xx settembre.

Quello stesso giorno, ad Asiago, al centro di un altopiano prealpino lontanissimo da Roma e dalle questioni politiche, il sindaco si affrettò per far suonare a festa le campane le campane del duomo cittadino, e così celebrare degnamente la neo istituita festa nazionale.

Ma il parroco, che tutto avrebbe voluto fuorché udire il campanile più alto della valle cantare a festa per omaggiare la ricorrenza della perdita del potere temporale della Chiesa, nascose letteralmente le chiavi per accedere al campanile.

Il sindaco, imbufalito, si presentò in canonica con i reali carabinieri, un fabbro e il presidente mandamentale. Il parroco, lì per lì capitolo, fece accedere sul campanile gli occupanti che ordinarono ai campanari di darsi una mossa e suonare le campane.

Ma il giorno dopo iniziò una incredibile battaglia legale. A fronteggiarsi, ancora una volta, il potere temporale e quello spirituale.

Di chi era il Campanile? Anzi, di chi erano le campane – o meglio – di chi era il suono delle campane?

A questa domanda prova a rispondere la sentenza della Corte d’Appello di Venezia che potrete leggere qui sotto. Aveva destato il mio interesse il suo incipit:

Dopo che gli Alemanni, il 2 marzo 1487, ebbero abbruciata la chiesa che il popolo di Asiago aveva a proprie spese, nel 20 maggio 1393, edificato in muratura in sostituzione dell’antica chiesa di legno…

E da lì, via via, fino ai “giorni nostri” (siamo nel 1901). Una vera e propria lezione di Storia e di cultura locale.

La Corte ripercorre tutte le vicende che avevano interessato quei luoghi, le guerre, gli incendi e tutte le catastrofi (sempre causate dall’uomo) che avevano distrutto il Campanile. Fa strano leggere quelle parole, sapendo che da lì a pochissimi anni, Asiago sarebbe stata ancora una volta travolta dal dramma della guerra fino a diventare terra di nessuno, con suo campanile raso al suolo.

Ma le guerre mondiali, con i morti e i loro sacrari erano appena di là da venire.

Nei secoli precedenti, ogni volta che era successo qualcosa, il comune e la cittadinanza tutta ci avevano messo “del loro”. Tutta la narrativa è costellata di minuziose e bellissime descrizioni degli atti con i quali le autorità ecclesiastiche e quelle secolari avevano regolato l’uso delle campane. Il Comune, ad esempio, doveva provvedere alle spese correnti, le candele, la manutenzione del cimitero, e pure del campanile e dei campanari. A questi, poteva ordinare di suonare le campane anche per motivi “civili” (pericoli, incendi o più semplicemente feste civili).

Nessuno però aveva mai potuto immaginare in secoli e secoli di storia che un giorno quelle campane avrebbero potuto suonare contro la Chiesa.

E quindi?

Regalatevi dieci minuti per leggere questa sentenza: ne vale la pena.

Fatto – Dopo che gli Alemanni, il 2 marzo 1487, ebbero abbruciata la chiesa che il popolo di Asiago aveva a proprie spese, nel 20 maggio 1393, edificato in muratura in sostituzione dell’antica chiesa di legno, fu sollecito il Comune, terminata appena la guerra che le orde straniere aveva portato a Venezia, a risarcirla dai danni patiti, concorrendovi altresì i fedeli con cospicuo soccorso a dotazione di messe.

Di qui l’origine di quel giuspatronato laicale per fundationem dotationemque, che fu poi solennemente concesso alla stessa comunità di Asiago sulla chiesa arcipretale colla bolla pontificia di papa Gregorio XIII, in data 3 dicembre 1580, con obbligo nella stessa comunità di provvedere i singoli sacerdoti di cura, di congura e casa canonica, e la chiesa di arredi sacri, cera, olio, ristauri, campane, campanile e cimitero.

E’ pacifico tra le parti che il campanile annesso alla detta chiesa, incominciato nel 1755, e condotto a termine nel 1763, costò al Comune che lo fece erigere la somma di ducati d’argento 30,000, pari a L. 93,000.

come è pacifico che le campane, dovute alla rinomata fonderia Cavadini, sostituirono nel 1822, con un concerto di ben sei, le antiche, ed anche quel nuovo concerto, che dicono di peregrina armonia, costò al Comune, che ne assunse la spesa per intiero, una somma non lieve (L. 20,000), oltre la nomina, provvista e stipendio dei campanari che l’amministrazione di quella comunità annualmente determinava.

Se non che nei rapporti del campanile, delle campane e del loro servizio, il popolo (o il Comune) di Asiago aveva vissuto molti anni più innanzi sotto un particolare regime, che è giuocoforza brevemente riassumere dai documenti prodotti.

1°. Nel giorno 6 gennaio 1765, nella Camera del Consiglio di Asiago, tenute presenti le passate scritture “quali saranno inalterabilmente osservate” passavano alla nomina di due nuovi campanari in persona di Giovanni Costa e Stefano Rigon. In quell’atto di nomina si trascrivevano tutti gli obblighi di detti campanari; fissato in essi l’obbligo di suonare le campane all’alba, a mezzogiorno ed a sera, a morto, a cattivo tempo, a fuoco, alle messe, ai divini offici ed al conseggio, come farà bisogno; stabilito il vincolo di loro obbedienza all’arciprete ed ai sacerdoti; determinato in particolare l’obbligo di suonare il nuovo campanone all’ora di notte e nei dì solenni, si prescriveva che per la suonata di questo campanone si fosse obbedito anche al dì più quando parerà e piacerà al signor arciprete ed ai signori sindaci e governatori.

2° Più tardi, mediante normale 4 giugno 1822, si regolava in modo più dettagliato il suono del nuovo concerto allora posto su quel campanile, che i deputati comunali del tempo, Colpi, Burello e Forte, nonché il segretario del Comune, Dall’Olio, designavano coll’appellativo di nostra magnifica torre. A ciascuna campana venivano attribuiti speciali offici – anche non religiosi – come l’allarme al fuoco tanto nella villa che nelle contrade esterne, la radunata dei Consigli comunali, l’esigenza (!!) delle pubbliche imposte, ecc.

3° Finalmente uno speciale regolamento sul servizio dei sagrestani e campanari, pubblicato nel 31 maggio 1892, previa regolare approvazione per parte del Consiglio comunale, dopo aver previsto all’art. 4 che per ciò che riferiva all’ordine interno della chiesa od alle funzioni religiose i campanari dovevano dipendere dalla fabbriceria, dall’arciprete e dai reverendi sacerdoti, chiudeva col seguente art. 10: ”

Per tutto quanto non è indicato nel presente regolamento, i campanari dovranno osservare le consuetudini ed adempiere a quanto loro ordinato dall’autorità municipale, dalla fabbriceria e dai reverendi sacerdoti, nella cerchia delle rispettive attribuzioni“

non senza soggiungere un art. 11, che comminava delle disposizioni disciplinari per ogni infrazione o mancanza ai doveri dei campanari stessi, quali “richiamo all’ordine, multa e licenziamento dal servizio”.

Non consta in guisa alcuna che a queste provvidenze antiche e recenti dell’autorità comunale, l’autorità ecclesiastica abbia mai fatto obbiezioni o sollevato eccezioni e reclami, sicché anche alla nomina dell’attuale arciprete parroco di Asiago quelle disposizioni si erano mantenute.

Ora avvenne che, nel pomeriggio del 20 settembre 1895, il sindaco di quella città, attuale appellato, accordasse il permesso di far suonare le campane per celebrare la festa civile, che era stata , per quella ricorrenza del 20 settembre istituita dal Parlamento nazionale.

Se non che l’arciprete don Domenico Bortoli, odierno appellante, che in previsione di quell’evento aveva ritirato dal campanaro le chiavi della torre, si rifiutò di concederle. Avvenne che il sindaco, di ciò avvertito, prima scrivesse all’arciprete pregandolo a consegnare le chiavi del campanile allo scopo anzidetto, poi al persistente rifiuto del pastore, fattosi accompagnare dal commissario distrettuale, dal maresciallo dei rr. carabinieri e da un fabbro ferraio, si presentò ad intimare la consegna delle chiavi. A quella minaccia l’arciprete, premesse le debite proteste e riserve, consegnò le chiavi del campanile e le campane suonarono, dunque a festa.

Non è qui il luogo di ricordare – se non di volo – le infinite pratiche, seguite in via amministrativa a quell’episodio, con ricorsi al commissario distrettuale, al prefetto di Vicenza, al Ministero dell’interno, alla maestà del re, tutti a loro volta respinti.

Di qui la citazione 14 dicembre 1898, colla quale il reverendo arciprete Bortoli sunnominato chiamò il Comune avanti il tribunale di Bassano chiedendo sostanzialmente che fosse dichiarato di esclusiva spettanza della chiesa il diritto pubblico ed egualmente privato d’uso delle  campane della chiesa parochiale di Asiago.

La causa fu decisa colla sentenza 9 maggio 1900, colla quale tutte le domande dell’arciprete furono respinte. Appellò allora l’arciprete don Bortoli e si fece chiedere a questa Corte la totale riforma della sentenza medesima.

Diritto  – l’appellante nel censurare la sentenza del tribunale di Bassano, ha affermato

  1. In tesi, l diritto di esclusivamente usare delle campane a beneplacito della chiesa è fondato sul giure canonico.
  2. In ipotesi, concorrono la convenzione 13 luglio 1579 e la bolla pontificia 9 dicembre del 1580 a stabilire la precisa esclusività del diritto medesimo.
  3. In ogni caso i regolamenti normali ed istruzioni non possono sostituirsi a quei documenti che quel diritto esclusivo avevano fondato.

Ora, ad avviso della Corte, quelle proposizioni peccano tutte per soverchio di enunciazione assoluta.

E valga il vero per la tesi.

Convengono i trattatisti che, in principalità, campanili annessi o propinqui a chiese e ad esse colle loro campane inservienti, tamnquam curae animarum appenditiis, debbano considerarsi alle chiese medesime inerenti così che di regola l’uso di esse debba essere disciplinato dal diocesano e da chi in suo luogo la chiesa stessa amministra. Ma, se questa è la regola, non ne deriva né  che di per sè stesso il fatto della benedizione delle campane debba farle assurgere la rango di sacri arredi o di cose sacre al culo esclusivamente inservienti, nè che poi questa non esclusività non sia per lettera stabilita., non fosse altro per effetto di consuetudine pacifica ed immemorabile.

La benedizione delle campane di per sé esaminata, non può renderle siffattamente cose sacre che agli usi profani, non  di propria natura condannabili, debbano di necessità e senza eccezione alcuna essere sottratte.

Tanto varrebbe allora dir cose sacre ed intangibili dal profano le navi da guerra e le bandiere dell’esercito, le quali pure solennemente e con riti lustrali, che alla benedizione delle campane ed all’imposizione perfino del così detto loro nome di battesimo si avvicinano, vengono in certo modo consacrate.

Né perché, a differenza delle navi e delle bandiere, sono species praedicatorum populum ad fidem et divina vocantium di guida che la loro cura, l’amministrazione e giurisdizione appartiene ai vescovi, ne deriva escluso in via assoluta che possano essere adibiti ad altri usi, quando questi non siano contrari alla fede e soprattutto non incoraggino atti di eresia o di ribellione ai precetti divini.

Lo stesso cardinale De Luca, dal quale questi concetti si attingono, ammette sia pure in via eccezionale, che l’uso delle campane di una chiesa possa essere concesso ad altri scopi che puramente o prettamente chiesiastici non siano.

Emerge che la tesi caldeggiata dall’appellante non è nemmeno in iure canonica proclamata. Né a questa esclusività si può dire abbiano approdato la convenzione 13 luglio 1579 o la bolla pontificia 9 dicembre 1580 dalla quale si parlò nella fattispecie. Nella prima, infatti: a supplicazione dei maggiorenti Villae Axiliagii, ivi nominalmente indicati in rappresentanza di quella università o popolo, salvo sempre il beneplacito della Santa Sede apostolica, l’ordinario patavino erigeva e confermava il giuspatronato del prefato Comune e degli uomini di Asiago, di presentare l’idoneo sacerdote alla cura di quella chiesa parochiale giusta le forme del sacro Concilio tridentino, sottoponendo questa concessione a parecchie condizioni, tutte onerarie più che onorarie pel Comune, comeché ben volentieri accettate, ma nessuna includente una esclusiva che di per sé non può quindi presumersi appunto perché dai canonisti scartata se non altro nei casi contingibili pro accidens.

E lo stesso deve dirsi della bolla pontificia nella quale, sola differenza dalla provvisione dell’ordinario patavino leggesi più esplicita promissione per parte dei maggiorenti e del popolo di Asiago contenuta nel periodo: “Et insuper dictam ecclesiam, tam paramentis, quam ceris, oleo, et omnibus aliis in dicta ecclesia faciendis, nec non etiam in reparatione ipsius ecclesiae, ac domus praesbiteralis, caemeterii, nec non campanarum et campanilis necessariis perpetuo manutere omnibus periculis interesse, et expensis dictorum universitatis et hominun et ad id se et eorum bona obligare etc.”

Ma, nessuna frase leggesi, vuoi dalla postulazione, vuoi dalla concessione, la quale con più stringenti freni che quelli della dottrina canonica non siano, l’esclusiva pretesa ora dall’appellante valgano a stabilire.

Ciò posto, di grande momento appaiono quelle norme, quel regolamento, contro dei quali il paroco mai non insorse, e mercè i quali in epoche ben remote fu regolato l’uso delle campane della torre che alla chiesa arcipretale ed alla comunità d’allora e d’oggi inservivano. Imperochè tutto quello che in essi venga imposto – data la più che centenaria e quindi immemorabile osservanza – deve oramai riguardarsi come pacificamente acquisito da entrambe le parti. E poiché, lo si vide già, in mezzo a quelle normali regolamentari e esplicitamente compreso l’obbligo di suonare le campane anche al più, quando parerà e piacerà al signore arciprete e ai signori sindaci e governatori, così questa diuturna osservanza ha preso il posto di quella contingenza pro accidens che radicava e radica nel capo del Comune il diritto di far suonare a distesa: in signum laetitiae,

e nessun italiano potrà negare che eminente segno di letizia sia una festa civile istituita da una legge dello Stato.

Ora questo diritto consacrato dall’uso non poteva con un atto arbitrario essere dall’arciprete don Bortoli impedito.

Non a caso la Corte si indugia a parlare qui di atto arbitrario, imperocchè, mentre normali surricordate facevano consegnare ai campanari nominati dalla comunità, le chiavi del campanile ingiungendo dovessero vegliare a che non fossero affidate a mani inesperte, ed asserendosi dallo stesso appellante che egli se le sia fatte consegnare per impedire che il sindaco potesse far sciogliere il vagheggiato concerto giulivo, riesce all’evidenza dimostrato che,  se mai vi fu un atto eseguito motu proprio lo si dovette all’appellante e non ad altri.

Per le cose sopra discorse e senza fermarsi alle altre considerazioni secondarie, sulle quali del resto la sentenza appellata con maturo e ponderato esame si è fermata, merita la stessa sentenza piena conferma nella parte in cui statuì.

Ma la merita anche nella dichiarazione di incompetenza relativa alla domanda che originariamente era stata formulata e permane sottoposta coll’art. 7: “Essere stata illegittima ed arbitraria l’azione commessa dal ff. di sindaco di Asiago…., sì e come alle conclusioni odierne“.

Non può nascere dubbio – perché su di ciò le parti sono pacifiche – che le intimazioni fatte dal sindaco all’arciprete di Asiago la sera del 20 settembre 1895, lo furono, presente e consenziente il commissario distrettuale, vale a dire il rappresentante politico del mandamento ed alla presenza puranco del capo della forza pubblica, quale era il maresciallo dei rr. carabinieri. E’ altresì pacifico che quelle ingiunzioni erano state precedute, furono accompagnate e furono poi seguite dalla esplicita dichiarazione “essere le medesime dirette a tutelare l’ordine pubblico e la pubblica quite“.

Niun dubbio quindi che, nella specie del caso, si trattasse di un vero e proprio ius imperii, che vuole essere tenuto ben distinto dall’ius gestionis.

Ora, se nel secondo caso, sarebbe lecito all’autorità giudiziaria ricercare gli effetti dell’atto amministrativo in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, quando si chieda di stimmatizzare come illegittimo ed arbitrario l’atto di autorità; si invaderebbe dall’autorità giudiziaria il campo riservato alla competente autorità amministrativa, alla quale solo spetta decidere se l’atto stesso – comeché per avventura il legittimo od arbitrario – debba essere revocato o modificato. L’atto quindi di governo o di imperio sfugge – per sè stante – alle indagini del magistrato civile, donde l’incompentenza del magistrato medesimo a conoscerne.

Appena è il caso di ricordare come in fatto il Comune non abbia mai accampato il diritto di proprietà sul campanile di Asiago, ma l’uso soltanto del suono di quelle campane, quando per sue proprie necessità civili o per ricorrenze segnalate, creda conveniente di farne echeggiare per le pendici dei sette Comuni l’armonioso e confortante concento!

Pertanto, non tornerebbe all’argomento opportuna la citazione della sentenza 18 aprile 1872 della Corte di cassazione di Torino, siccome quella che giustamente niega ad un Comune la proprietà d’una chiesa, solo perché da esso edificata a proprie spese, il che non è chi non veda quanto diffal caso in esame (omissis).

p.q.m. conferma l’appellata sentenza.

Monitore dei Tribunali, 1901, 927.

© Riproduzione Riservata

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