Arrivati al sesto e penultimo appuntamento nella nostra storia dei supplizi capitanata dal vittimologo Hans von Hentig, affrontiamo la pena della lapidazione. Un supplizio enigmatico e dai mille volti, con una storia e una tradizione non solo occidentale.
Grecia titanica e classica
Hans von Hentig così esordisce: ‹‹La lapidazione è il primo e più terribile strumento di distruzione di offesa che gli uomini e le scimmie abbiano avuto a disposizione››.
E visto che risale alla preistoria più oscura, analizziamo, da buoni storici dei supplizi, alcune testimonianze greche. In Euripide, gli abitanti della Tauride lanciano pietre sulle navi che salpano. In Omero, Ettore, adirato, dice a Paride: ‹‹se i Troiani non fossero codardi, già da tempo ti avrebbero ricoperto di un manto di pietre». Gli Ateniesi lapidarono Trasillo perché aveva concluso un armistizio sfavorevole, ma egli riuscì a salvarsi la vita rifugiandosi su un altare: ciò non impedì però che i suoi beni venissero confiscati (Erodoto I, 167). Con le pietre Ettore sfondò la porta dell’accampamento greco (Tucidide V, 60). I giganti primitivi (i Titani) che furono distrutti dagli dei, erano una specie di selvaggi eroici che combattevano con clave ed enormi blocchi di pietra – pensiamo a Polifemo – e che furono sopraffatti dalla moderna tecnica militare degli dei: la folgore di Giove e le frecce di Ercole.
Non è un caso che abbia elencato in modo disordinato le varie fonti, in quanto le pietre hanno un’origine evidente nella mitologia greca, ma altrettanto enigmatica. Non solo fonti letterarie, ma anche l’arte raffigurativa classica ci fornisce il suo contributo, infatti spesso rappresenta i giganti in atto di lanciare pietre. Von Hentig ci tiene a sottolineare che: ‹‹fra un’arma (pietra) e un supplizio (lapidazione) c’è una strettissima connessione››. Concludo questa prima parte, con il maestro della classicità: Platone. La pena suggerita per il parricidio da Platone consiste nell’uccisione del condannato dagli assistenti del giudice. Successivamente il condannato è gettato, dopo essere stato denudato, in un crocevia, lontano dalla città; ma non solo, in nome dello Stato ogni cittadino e ogni autorità deve gettare una pietra sul capo dell’ucciso in segno di maledizione.
Il popolo giudaico e la legge di Mosè
Delle parole di Gesù ‹‹chi è senza peccato scagli la prima pietra›› (Giovanni 8,7) e da altri passi del Nuovo Testamento, sappiamo che la lapidazione era per gli ebrei un supplizio che assumeva la veste della festa più allegra. Era la punizione per la bestemmia, e ironicamente von Hentig aggiunge: ‹‹se la Giudea all’epoca di Cristo non fosse stata sotto il dominio dei romani, ma indipendente, sarebbe stato un mucchio di pietre e non la croce››.
Nell’antica legge mosaica la lapidazione è prescritta per tutti i reati che abbiano sollevato l’ira di Dio e che quindi siano tali da far perdere al popolo di Israele la protezione divina. Di fronte a questa minaccia, il popolo si difendeva espellendo e uccidendo, con la lapidazione, il trasgressore. Nei regimi teocratici il crimine più grande era l’idolatria, in quanto considerata come un alto tradimento verso lo Stato di Dio. Come per la bestemmia, anche in questo caso la procedura e la prova erano semplificate: bastavano due o tre testimonianze per la condanna a morte, non essendo sufficiente, per detta condanna, testimonianza di una sola “testa”. Appunto per garanzia della procedura sommaria, i testimoni dovevano gettare la prima pietra e dopo di essi l’intero popolo partecipava alla lapidazione. Il reato di empietà era così infamante che scioglieva ogni legame di parentela o di amicizia. Si pensò che, quando fosse stato commesso un reato di empietà, il testimone, anche se fosse stato il fratello, il figlio, la sorella, la moglie o il migliore amico del colpevole, doveva testimoniare a sfavore e lanciare sul colpevole stesso la prima pietra. Solo il padre, la madre e il marito sembrano – alla luce delle fonti – esclusi da questo obbligo.
Presso gli ebrei, la pena di morte comminata per le offerte di sacrifici umani (una pratica idolatrica assai frequente e degna di particolare attenzione) era in se stessa una specie di rito sacrificale. Per la lapidazione di tali colpevoli, Mosè predispose una legge speciale che si differenziava sensibilmente dall’ordine usuale della procedura giudiziaria. Infatti, in questa procedura non fu conservato l’obbligo di lanciare la prima pietra, che normalmente incombeva ai testimoni principali a carico.
La lapidazione ebraica, inoltre, era la pena comminata per coloro che avessero trasgredito l’obbligo del riposo nel giorno di sabato: il reato con cui i farisei cercarono di far condannare Gesù. Dalla storia evangelica, invece, viene raccontato che la donna colta in flagrante adulterio (Giovanni, 8, 7) va incontro alla lapidazione. Era anche la pena stabilita per gli omosessuali, per gli atti di bestialità, e per la figlia di un sacerdote che si fosse prostituita. In verità, però, puntualizza Hentig: ‹‹la legge in questi casi parla di supplizio mediante il rogo››, ma bisogna riconoscere che Michaelis descrive come in questi casi la lapidazione non fosse esclusa, ma semplicemente aggravata in quanto la si faceva seguire dal rogo del cadavere.
Interessante, a questo punto, capire come e se: ‹‹è possibile stabilire un rapporto fra questa forma di supplizio e una forma rituale?››
I popoli semiti
Hans von Hentig risponde alla questione, guidandoci in uno splendido excursus delle popolazioni medio-orientali. Per quanto riguarda i popoli semiti dell’Asia Minore, la risposta alla domanda è affermativa. In Egitto, nella Siria, nella Fenicia e nella Palestina, vediamo infatti forme più o meno elevate di un antichissimo culto della pietra. A Betlemme, a Garizin e a Gerusalemme troviamo, ancora all’epoca evangelica, antichi altari di pietra onorati come idoli e si può immaginare, per quanto oscuramente, che le divinità nella preistoria culturale di tutti i popoli avessero la loro sede in queste pietre le quali, quindi, a buon diritto ricevevano offerte e preghiere.
Per quanto scarse possano essere le informazioni che noi abbiamo sul mondo spirituale mitico e culturale degli antichi arabi, sappiamo che anch’essi adoravano pietre e rocce. Von Kremer descrive nella sua opera una quantità immensa di divinità di pietra, spesso identificati come semplici blocchi di pietra naturale, non lavorati e di diversi colori. Per esempio, la città di Petra era la sede del santuario della divinità della pietra Dusares. Nel tempio era custodito un enorme blocco di pietra intriso dal sangue delle vittime. Von Kremer spiega come l’uso della pietra fosse diffuso essendo il materiale più solido e durevole, del quale si facevano armi e utensili, e per questo venerato in epoche primitive.
Nell’India, poi, diversi riti sono basati sul potere magico – come mezzo di difesa – della pietra, la quale ha un valore rituale non inferiore a quello dell’acqua sacra, del terremoto e degli alberi.
In seguito, come abbiamo già notato negli altri nostri percorsi, il disincanto prende il sopravvento e: ‹‹scomparve la rozzezza di queste concezioni e si separò dall’oggetto visibile la concezione della divinità – che si spiritualizzò sempre di più – ma il culto, per quanto più raffinato, non abbandonò gli antichi simboli››. Esempi di retaggi antichi sono la pietra sacra della Kaaba e la lastra di pietra scritta della moschea di Omar a Gerusalemme, che restano testimonianze viventi dell’antico culto della pietra, al quale nuovi sistemi di pensiero e di sentimento religioso hanno dato un valore nuovo, senza però mutare il culto stabilito fra gli uomini e questi oggetti. Oppure si pensi ai mucchi di pietre con i quali gli israeliti seppellivano i condannati a morte, quelli che troviamo sulle tombe degli assassini, e quelli che – portati a un grado di elaborata magnificenza – si ergono sulla tomba dei re egiziani, non possono mai essere dissociati dalla tendenza spiccata in questi popoli alla venerazione per la pietra. In Corsica c’è la tradizione ergere un tumulo di pietre sul luogo ove è stato ucciso qualcuno; ed ognuno, passando, getta la pietra sovra di esso. Anche nella Siria e in Egitto vige ancora il costume di lasciare due pietre di forma di piramide come “biglietto da visita”.
Roma imperiale e il giuramento sacro
Il giuramento più sacro dei romani consisteva nel pronunciare all’aperto la frase: ‹‹Per jovent lapidem». Chi pronunciava questa frase teneva una pietra in mano e percuotendo con essa la vittima del sacrificio diceva: ‹‹se coscientemente mancherò al mio giuramento, possa il padre della luce, che protegge questa città, scacciarmi dalla mia casa e dal mio focolare, come io getto questa pietra››. Annibale, il più degno avversario dell’impero romano, arringò gli schiavi italiani tenendo in mano una pietra e promettendo a essi la libertà e nello stesso modo promise ai soldati le terre circostanti. Silla invece, volle legare a sé Cinna con un giuramento solenne; e Cinna in questa occasione salì sul Campidoglio e tenendo pietra in mano pronunciò, prima di scagliarla, la formula del giuramento, invocando su sé stesso le più gravi sventure nel caso in cui avesse mancato alla parola data.
La lapidazione non è prevista come pena legale dal diritto romano, per quanto essa venisse usata di fatto nei momenti di maggiore eccitazione popolare, e anche come manifestazione di disapprovazione contro gli dei e i loro templi.
I germani e la giustizia popolare
Nei codici penali germanici la pena della lapidazione compare solo sporadicamente. Ma anche quando non è prevista tra le pene legali, viene usata di fatto. Nelle fonti scandinave la lapidazione è la punizione tipica delle donne (una caratteristica anche all’annegamento e al rogo). La pena è in questo caso strettamente connessa con il sistema di seppellire vivo il condannato, precipitandolo in una buca profonda come se si trattasse di piantare un albero. In genere il lancio delle pietre era accompagnato da maledizioni.
Willa descrive una forma antichissima di lapidazione in Norvegia di valore particolare infamante, ma che lasciava alla bontà divina una scappatoia per il condannato. Chi in Norvegia avesse commesso un furto in città o in campagna veniva considerato come un bandito e perciò gli si radeva il capo, lo si cospargeva di vischio e lo si ricopriva di penne. Successivamente doveva correre tra due file di popolo fino ai confini della città, sotto una pioggia di pietre e colpi di lancia. Anche in questo caso, era considerato come reato per un cittadino non aggiungere la sua pietra all’opera di purificazione della città. Tra l’altro, questa corsa del ladro attraverso le vie della città, una corsa “verso la salvezza”, fu l’ultima forma di punizione collettiva e non fu più applicata quando fu proibito ai cittadini di andare armati. Naturalmente in questa forma di punizione collettiva c’era sempre la possibilità, per quanto rara, di sfuggire vivo – attraverso le due file di popolo – nel qual caso, la pena era considerata come sufficientemente scontata e il reato estinto.
Per quanto riguarda l’Islanda, è noto che si erige un tumulo di pietre coniche sopra la tomba di chi abbia avuto la fama di iettatore. In molte stampe o pitture o rappresentazioni antiche si vede sempre un regolare tumulo di pietre sulla tomba di chi sia stato lapidato.
Nelle antiche leggende sveve, la donna maritata che non si fosse serbata fedele al consorte era sepolta sotto un tumulo di pietre. È qui ben visibile la relazione che ha tale forma di supplizio con l’altra pena che conosciamo come caratteristica delle donne, e cioè col sistema di seppellire vive le condannate e con l’annegamento delle stesse. In conclusione, con tutta probabilità, la lapidazione ha questo significato: ‹‹con essa si vuole soffocare la propagazione del male che si sprigiona dal criminale costringendo il male stesso a ritornare nel criminale medesimo››. In seguito l’idea del sacrificio sostituisce il rito magico della lapidazione, relazione questa che, per quanto non accertata, non è d’altra parte possibile negare a priori.
Retaggi di questo culto della pietra – prima rituale e poi sacrificale – persistono ancora nell’epoca in cui von Hentig scrive: gli dei, gli eroi, i giganti germanici vivevano su grandi montagne rocciose che prendevano il nome da essi e non era un caso che la persona che per prima scalasse una cima o una parete pericolosa e mai prima superata ergesse un piccolo tumulo di pietre sulla vetta, come per offrire un sacrificio allo spirito della montagna. Hans von Hentig racconta che nel Tirolo ogni bambino che per la prima volta ascendesse il monte Burgeisen doveva raccogliere una pietra e tirarla sul tumulo di pietre, sotto il quale viveva lo spirito maligno, pronunciando le seguenti parole: ‹‹io sacrifico, io sacrifico allo spirito malvagio››. Oppure ancora: nell’Urschelberg, presso Pfallimgen (Svezia) c’era un profondo burrone, chiamato la “tana della vergine della notte” e ogni passante vi gettava dentro una pietra, dicendo: «Sacrifico anche io alla vergine della notte». Ed era diffusa la superstizione che, non compiendo il “sacrificio”, si corresse il rischio di subire qualche infortunio.
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La lapidazione del boia
La pena della lapidazione è scomparsa dalle leggi penali. Ma ancora nel Novecento, quando von Hentig scrive, persiste tenacemente nella giustizia popolare, nel linciaggio e nelle sommosse popolari. A questo proposito ricordiamo una incisione della biblioteca centrale di Zurigo, riportata dal Feher: ‹‹Il boia divenuto ubriaco, non riesce più a colpire con la sua spada, egli ha colpito un condannato sulle spalle, ed un altro sul dorso. Il popolo si impazientisce, afferra le sue armi primitive e naturali, le pietre, e lapida il boia a morte››. Sembra quasi che il popolo si senta autorizzato a fare ciò, giustificato dal fatto che l’esecutore della giustizia sia diventato impotente, per ubriachezza, a compiere il suo dovere. Anche in Germania, nel Medioevo, non furono infrequenti simili attacchi contro gli esecutori di giustizia non sufficientemente zelanti. Questa giustizia popolare considerava il boia come una vittima che spettava di diritto al popolo stesso. Knapp riporta a questo proposito, nella sua Storia del diritto penale: ‹‹il boia diviene passibile di morte nel caso che non riesca a condurre a termine l’esecuzione del condannato e questo costume è rimasto immutato nonostante qualsiasi minaccia di pena››. Psicologicamente è facile spiegare questi sfoghi di ira popolare con una specie di trasporto psicologico dalla vittima al boia, responsabile di aver privato il popolo dello spettacolo di una esecuzione. Se il popolo non restava soddisfatto dell’esecuzione, allora il suo istinto sanguinario, trasformatosi in simpatia per il condannato, si rivolgeva, naturalmente, contro il boia.
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