Chi può dire di non aver mai sentito pronunciare, magari in una qualche serie TV proveniente d’oltreoceano, la massima legale “colpevole oltre ogni ragionevole dubbio“?
La formula rappresenta tutt’oggi, in pressoché ogni parte dell’anglosfera, lo standardalla luce del quale una giuria può dichiarare colpevole un imputato: ancora nel 2004, la Corte Suprema degli Stati Uniti, nel caso Blakely v. Washington (542 U.S. 296), ha rimarcato come ogni accusa che faccia difetto della prova, oltre ogni ragionevole dubbio, di un fatto essenziale sia da considerare insufficiente per la condanna di un concittadino.
Se la permanenza della massima al centro degli ordinamenti di common law è cosa nota, meno note sono le sue origini teologiche ed il fatto che, più che a frenare l’arbitrio dei giurati, la regola, allorché nacque, era tesa a facilitare il lavoro della giuria, affinché le loro anime non avessero ad “aedificare ad Gehennam“, a prepararsi una dimora nel fuoco eterno.
Un buon punto di partenza per la dissepoltura di queste origini nascoste possono essere alcune parole di Papa Gregorio Magno (590-604), la cui influenza sulle generazioni di canonisti e teologi non sarà mai sufficientemente rimarcata:
“grave satis est et indecens, ut in re dubia certa detur sententia”.

San Gregorio in preghiera – Annibale Carracci, olio su tavola, 265x125cm – 1600-1602 – opera perduta in seguito ai bombardamenti nazisti del maggio 1941, già a London, Bridgewater House
Il pontefice, in uno di quei fenomeni di “conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali” che la storia di quando in quando non è timida a mostrare, stava qui gettando le basi per la costruzione di un principio teologico (quello del dubbio o della via tutior, la via più sicura) che troverà, nei secoli successivi, larghissimo seguito: in materia che si presenti venata di dubbio (in re dubia) è infatti, così concluse Gregorio, piuttosto grave ed inappropriato (indecens) formulare un giudizio definitivo, un pronunciamento inalterabile.
Anche il Papa-Giurista Innocenzo III (1198-1216), secoli dopo, mosso da preoccupazioni non troppo dissimili da quelle dell’augusto predecessore, si preoccupò di ribadire come, specialmente “in dubiis practicis” (relativi, cioè, alla moralità di un atto), “tutior via est eligenda”: è da preferire la via che presenti minori inconvenienti per ogni aspetto del problema preso in considerazione.
Per scendere a questioni più pratiche e dunque più strettamente giuridiche, è difficile non cogliere una consonanza di fondo tra questi giudizi e quanto insegnato da Graziano (†1147c.) nel suo Decretum, la prima grande universale collezione di fonti canonistiche medievali: sono qui due i passaggi, consecutivi, più interessanti. Anzitutto, Graziano ricordò come una questione dubbia non possa essere definita da una decisione definitiva (“res dubia non diffiniatur certa sententia”). Riprendendo poi parola per parola l’insegnamento gregoriano, il giurista enunciò un secondo principio (di valenza più immediatamente processual-penalistica), secondo il quale “non credantur quae certis indiciis non demonstrantur”, non bisogna considerare come provati fatti che non siano dimostrati alla luce di indizi fondati: in altri termini, non si fondi una sentenza su elementi di prova che non siano indubitati.
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Si incomincia qui ad intuire più chiaramente il legame intercorrente tra teologia della via tutior e ufficio giudicante: il giudice, infatti, che condanni a morte un imputato sulla base di indizi dei quali si possa dubitare commette un peccato, una violazione del comandamento “non uccidere”.
Il Concilio Lateranense IV (1215), presieduto peraltro proprio dal già menzionato Innocenzo III, sancì, con la proibizione ai chierici di presiedervi (canone XVIII), la fine del processo ordalico (del giudizio di Dio, ove un caso veniva aggiudicato, sulla scorta di tradizioni germaniche, provando l’innocenza o la colpevolezza dell’accusato tramite duelli o ferimenti rituali) e la nascita della giuria: se, infatti, sul resto del continente europeo furono le incombenze del giudice a venire ampliate, in Inghilterra l’impossibilità di ricorrere alle ordalie determinò la partecipazione prima dei sudditi poi dei cittadini all’amministrazione della giustizia, perdurando tutt’oggi come uno dei tratti caratteristici dei sistemi di common law.

Quartum Concilium Lateranii – dettaglio estratto dal “Mare historiarum” di fra’ Johannes de Columna O.P. – XIV sec. – Paris, BnF, ms. Latin 4915, fol. 398v
Naturalmente, i timori teologici che si erano affacciati per l’anima del giudice che avesse condannato ingiustamente un imputato si ripresentarono, più o meno immutati, per quelle dei giurati: con il passare dei secoli e la definitiva consacrazione del processo col concorso dei giurati, la teologia della via tutior si andò gradualmente trasformando nel più noto standard del reasonable doubt.
I primi secoli dell’era moderna (secc. XVI-XVII) videro ancora (tanto da parte della pubblicistica protestante quanto da parte di quella cattolica) copiose dispute intorno alla moralità dell’atto del giudicare ma è nel secolo dei Lumi (e di là dell’Atlantico) che la nuova regola emise i primi vagiti.
La notte del 5 marzo 1770, il capitano Thomas Preston, del 29° reggimento di fanteria di Sua Maestà britannica, si mise alla testa di una colonna di sette granatieri per salvare alcuni commilitoni che una folla di bostoniani aveva circondato di fronte alla dogana di King Street: come di sovente (e ancora quotidianamente) accade quando soldati di professione si trovano ad affrontare folle di civili più o meno disarmate, la passione sopravanzò la ragione e la città, in un episodio che verrà tramandato ai posteri come “Il massacro di Boston”, si trovò a piangere cinque morti e sei feriti.

Il governatore di Boston fece subito imprigionare Preston e i granatieri che parteciparono al Massacro ma solo ad autunno inoltrato gli animi della popolazione vennero ritenuti sufficientemente quieti da poter avviare il processo: per la difesa, supremamente convinto che fosse diritto di ogni inglese ricevere la miglior difesa possibile, offrì i propri servigi il futuro presidente degli Stati Uniti John Adams (1735-1826); la Corona, invece, scelse Robert Treat Paine (1731-1814), un altro patriota e futuro firmatario della dichiarazione d’Indipendenza, per rappresentare le proprie accuse in giudizio.
Nel non semplice compito di difendere gli autori del Massacro, Adams si rifugiò nella oramai nota dottrina della via tutior, rammentando ai giurati come “tutior semper est errare, in acquietando, quam in puniendo”, è sempre preferibile commettere un errore quando si assolve che non quando si condanna: e poi ancora, “quod dubitas ne feceris”, “se dubitate che i prigionieri siano colpevoli non dichiarateli tali!”, perorò l’avvocato di Boston.
Ancora più rimarchevoli (e cavalleresche) le parole del Paine, il quale, pur nel ruolo di pubblica accusa, così esortò la giuria:
“if therefor in the examination of this Cause the Evidence is not sufficient to Convince you beyond reasonable Doubt of the Guilt of all or of any of the Prisoners […] you will acquit them”;
“se quindi nell’esaminare questa causa le prove non saranno sufficienti a convincervi, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza di tutti o di alcuni dei prigionieri, li assolverete”.
Gli argomenti dei due avvocati dovettero pizzicare qualche intima corda delle coscienze dei giurati se (al di là della contraddittorietà di alcune delle testimonianze per l’accusa) tutti gli imputati vennero assolti (eccetto due tra i granatieri che vennero marchiati sul pollice e poi rilasciati): in effetti, Adams e Paine non stavano facendo altro, nelle loro conclusioni, che evocare argomenti che, magari sotto pelle, avevano circolato per le coscienze cristiane da più di un millennio oramai.
Più di cento anni dopo (nel 1895), sullo scorcio conclusivo del secolo diciannovesimo, quando oramai chilometri infiniti di ferrovie connettevano le due sponde del continente americano e i primi conflitti sociali stavano suonando l’ultima campana per i fasti appariscenti ma posticci della Gilded Age di twainiana memoria, il futuro chief justice della Corte Suprema degli Stati Uniti Edward D. White definì, nel caso Coffin v. U.S. (156 U.S. 432), il principio della colpevolezza “beyond reasonable doubt” quale “condizione della mente originata dall’esame delle prove in giudizio” (“the condition of mind produced by the proof resulting from the evidence in the cause”).

Non si odono oramai più, in questa definizione dal taglio netto, asciutto e un po’ accademico, echi del passato teologico della massima: anche nel ripercorrere la storia dell’istituto, il giudice White limitò a pochissimi, rapidi cenni la spiegazione del ruolo svolto dalla scienza teologica alla sua evoluzione.
Ciononostante, come spesso accade nella storia giuridica occidentale, principi che oggi si danno per acquisiti, se meglio indagati, possono far mostra di radici che allignano in tempi così lontani e a tal punto dimenticati da far dubitare della possibilità anche solo di ipotizzare un tale legame: il principio del ragionevole dubbio è uno di questi, mentre collega le corti di metà del globo alle riflessioni di un Gregorio Magno, preoccupato, millequattrocento anni fa, della salvezza dell’anima di un suo chierico.
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