Nato a Firenze il 17 gennaio 1706 dal giurista di Stato Giovanni Bonaventura Neri Badia. Neri studiò nello Studio pisano, dove conseguì il titolo dottorale, in anni nei quali vivaci erano le polemiche antigesuitiche e antiscolastiche.
Nel 1726, appena conseguito il titolo, il giovane Neri fu nominato lettore de jure publico. Il diploma del granduca Gian Gastone che istituiva la nuova lettura, nell’assegnarla a Neri faceva esplicita menzione dei meriti del padre. E ancora per intercessione del padre, ora divenuto uno dei principali consiglieri di giustizia del Granduca Gian Gastone e autore di celebri testi a difesa della ‘libertà’ fiorentina in questi anni di intense trattative diplomatiche sulle sorti degli Stati medicei, nel 1729 Neri ottenne dal granduca la grazia di esercitare il suo compito di lettore di legge a Firenze e di aiutare il padre nella carica di auditore dello Scrittoio delle Possessioni.
Nel 1735 ebbe la nomina ad assessore di questa magistratura e nel 1737, all’arrivo dei nuovi governanti lorenesi, fu chiamato alla segreteria del Consiglio di reggenza, che doveva governare il granducato in accordo con il Consiglio per gli affari di Toscana che il nuovo granduca, Francesco Stefano di Lorena, aveva istituito a Vienna.
Gli inizi della sua attività si svolsero, dunque, all’ombra del padre e delle solidarietà politiche di cui questi godette all’interno del governo mediceo. Partecipe delle posizioni e dei sentimenti di quella parte del ceto dirigente fiorentino che più si era schierata per la difesa dell’indipendenza degli Stati medicei e per il mantenimento degli assetti politici e sociali che i Medici avevano saputo costruire, Neri, all’interno del nuovo Consiglio di reggenza, operò a stretto contatto del più importante rappresentante di questa parte del patriziato fiorentino, quel Carlo Ginori che era stato nominato membro del Consiglio non solo per le sue capacità politiche e amministrative, ma anche in considerazione dei suoi rapporti con la famiglia Corsini, che si era apertamente schierata a favore della soluzione borbonica nella successione medicea, e un membro della quale sedeva in quegli anni sul trono papale con il nome di Clemente XII. E a fianco di Ginori egli difese le posizioni e gli interessi del ceto patrizio fiorentino contro i progetti di riforma proposti dai ministri lorenesi e, in particolare, da Emmanuel de Nay-Richecourt, conte di Richecourt, presidente del Consiglio di reggenza e in quanto tale vero uomo forte di quest’ultima.
Chiamato, dunque, a fare la sua parte nel contrasto che divideva Ginori da Richecourt sulle linee di riforma del Granducato, Neri, tra 1745 e 1748, fornì una straordinaria prova delle sue capacità di analisi delle istituzioni toscane e di elaborazione di un’originale visione della loro riforma. In questi anni infatti espresse, in alcuni tra i testi più significativi della cultura riformatrice della metà del 18° sec., posizioni di grande respiro e valore culturale e politico. Le sue relazioni sulle magistrature del Granducato, sulla codificazione e sulla riforma della nobiltà e della cittadinanza ebbero non solo il pregio di dare una lettura originale e acuta dei processi di costruzione del principato mediceo, ma anche di prospettare ipotesi nuove e assai avanzate di riforma dello Stato e della società.
E se è vero che alla fine degli anni Quaranta il progetto politico di Neri finì per essere clamorosamente sconfitto – Ginori allontanato dal Consiglio di reggenza e inviato a reggere il governatorato di Livorno; lo stesso Neri ‘salvato’ dal marchese Gian Luca Pallavicini, governatore militare e civile della Lombardia austriaca, e chiamato a presiedere la Giunta del Censimento milanese – è certo però che gli equilibri politici e sociali che Neri aveva saputo tenere presenti nella sua analisi si rivelarono nei fatti tanto forti da resistere al disegno ‘semplificatore’ di Richecourt. E proprio le idee di Neri, più che i progetti e le riforme stesse di Richecourt, costituirono uno dei punti di riferimento più significativi dei dibattiti e dei progetti di riforma del governo del granduca Pietro Leopoldo.
A Milano Neri fu chiamato a completare l’opera del nuovo censimento, intrapresa nel 1718 e volta a una rilevazione geometrico-particellare della proprietà quale strumento per la distribuzione del carico fiscale tra le comunità. Impegnato nella realizzazione del catasto, Neri si misurò con le questioni legate alla riforma dei governi delle comunità e del rapporto tra queste e gli apparati di governo dello Stato e alle questioni complesse della tassazione dei beni ecclesiastici; mentre su un altro piano, nel contesto della definizione dei cambi tra le monete milanesi e quelle del Regno di Sardegna, redasse, nel 1751, le Osservazioni sopra il prezzo legale delle monete, accompagnate da dettagliate relazioni su una lunga serie di ‘assaggi’ effettuati nella zecca di Torino, nelle quali sostenne che il valore delle monete era dato non dal sovrano, ma dai mercati e, nel caso delle monete milanese e torinesi, dalla media delle transazioni dei mercati degli stati italiani circostanti.
L’azione di Neri a Milano suscitò una forte diffidenza e a volte un’aperta opposizione in altri ministri del Milanese, nel governo austriaco e nella stessa sovrana, l’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo. Non sorprende allora che nell’estate del 1757, dopo il ritiro di Richecourt, per motivi di salute, dal governo del Granducato, in un clima segnato da un rapporto più disteso della dinastia lorenese con il tradizionale patriziato fiorentino, Neri facesse ritorno a Firenze in qualità di ministro del consiglio di Reggenza lorenese, ora retto dal maresciallo Antonio Botta Adorno.
Nel 1763, alla notizia della nomina a governatore della Toscana dell’arciduca Pietro Leopoldo (poi, nel 1765, alla morte del padre, insediatosi in Toscana come granduca), Neri riprendeva e inviava a Vienna la memoria scritta nel 1745 sull’assetto dello Stato toscano e insieme una seconda memoria, nella quale denunciava le contraddizioni in esso apportate dalle riforme di Richecourt.
All’arrivo del nuovo granduca, Pietro Leopoldo, Neri intervenne su questioni di assoluto rilievo: dai provvedimenti a favore della liberalizzazione del commercio dei grani alle misure per il controllo e la repressione della mendicità – nella quale sostenne con grande lucidità l’inutilità delle leggi di espulsione dei mendichi dalle città –, ai primi interventi granducali per la riduzione del numero delle monacazioni femminili. Nel 1769 indirizzava al sovrano una memoria sulla riforma dei governi comunitativi e sulla nuova magistratura, la Camera delle comunità, che ne avrebbe avuto il controllo. Alla base del progetto neriano stava l’idea di una comunità guidata dai maggiori proprietari, secondo il modello già sperimentato nel Milanese, e di una magistratura in qualche modo rappresentativa dei nuovi governi comunicativi. Una proposta, questa di Neri, che incontrò forti resistenze negli altri ministri e nello stesso granduca, che pure alla fine degli anni Settanta, ormai morto Neri, avrebbe ripreso questa idea nell’elaborazione del progetto di Costituzione per il suo Stato, al quale Pietro Leopoldo prese a lavorare a partire dal 1779.
A Neri fu comunque affidata la riforma del sistema giudiziario, che approdò con i provvedimenti del 1771 e 1772 a una professionalizzazione dell’amministrazione della giustizia e al superamento del sistema tradizionale di affidare ai soli cittadini fiorentini gli incarichi di giusdicenti nelle comunità dello Stato. E, nell’ambito dei lavori per la riforma della giurisdizione, Neri proponeva nuovamente l’urgenza di una riforma della legislazione, sul modello di quanto aveva proposto negli anni Quaranta. Proprio in questo contesto va collocata l’edizione, nel 2° volume delle opere di suo padre, apparso nel 1776, dei Discorsi legali che Neri aveva redatto nel 1747-48 nell’ambito dei lavori, avviati da Francesco Stefano di Lorena, per la codificazione e per la riforma della nobiltà e della cittadinanza fiorentina.
Neri morì a Firenze il 15 settembre 1776. Dopo la sua morte, Pietro Leopoldo provvide a far sequestrare buona parte delle sue carte di governo, che oggi si ritrovano disperse in molte filze dell’archivio di Stato di Firenze, mentre la sua biblioteca, considerata allora assai pregevole, fu venduta ‘alla spezzata’ dal fratello Filippo.
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