Cosa hanno in comune Manzoni, Bartolo e la nostra Costituzione? Uno è un letterato che ricorre al diritto e l’altro è un giurista che ricorre alla letteratura, mentre la terza potremmo definirla un vero e proprio progetto narrativo. Ma se è così, quale romanzo stavano costruendo i padri costituenti quando scrivevano che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro? Estratto da “La chiave a stella”, relazione tenuta nell’ambito del Festival Nazionale di Diritto e Letteratura Città di Palmi, edizione 2021 dedicata al tema “Il lavoro mobilita l’uomo”.
Non vorrei fare disquisizioni teoriche sui rapporti tra diritto e letteratura, e su come entrambi hanno a che fare con il mondo del lavoro. Vorrei raccontarvi tre storie.
La prima è la storia di un importante scrittore che ha utilizzato il diritto come strumento per dare vita al suo capolavoro: come un ferro del proprio mestiere di scrittore.
La seconda storia racconta di un importante giurista che ha usato un testo letterario per elaborare un ragionamento giuridico.
E la terza storia racconta di noi tutti, e del romanzo collettivo che stiamo scrivendo come comunità.
La storia di Manzoni
La prima storia inizia con un processo penale che si svolse presso il Consiglio dei Dieci (la Suprema magistratura della Repubblica di Venezia) tra il 1605 e il 1607. Il processo parte da una supplica della comunità di Orgiano, un piccolo villaggio vicino Vicenza.
La comunità denuncia al Collegio dei Savi – uno dei quali si occupa di giustizia – una serie infinita di soprusi e violenze perpetrate dal nobile Paolo Orgiano.
Il Collegio invita i rettori di Vicenza a intervenire. Il podestà (che è uno dei due rettori, l’altro è il capitano e ha funzioni militari) interviene ordinando l’arresto di Paolo Orgiano. La vicenda, poi, segue l’iter processuale presso il Consiglio dei Dieci.
Qui non ci interessa l’aspetto processuale, ci interessano le accuse.
Paolo Orgiano esercita il suo dominio incontrastato con atti di violenza e di prepotenza e gode della protezione di uno zio, temuto e rispettato da tutti. Tra le sue vittime c’è una giovane contadina che si chiama Fiore e vive con la madre, rimasta vedova. La giovane sta per sposarsi; Paolo cerca di impedirlo, ma senza successo. Fiore riesce a sposare il suo innamorato, e così Paolo la fa rapire e le usa violenza.
A proteggere le vittime di Paolo – la vicenda di Fiore non è un caso isolato – c’è un frate, Fra’ Ludovico Oddi. Lo zio di Paolo, potente e con amicizie influenti presso la Curia, riesce ad allontanarlo dal villaggio: lo accusano di aspirare all’amore delle fanciulle.
Avrete sicuramente notato che si tratta di una storia molto simile a I promessi sposi di Manzoni. L’intelaiatura narrativa è identica e alcuni personaggi sono evidentemente ispirati ai protagonisti della vicenda tratta dal fascicolo processuale che vi ho illustrato.
Non abbiamo la prova certa che Manzoni abbia avuto accesso a questo fascicolo, ma esiste un collegamento personale.
Agostino Carli Rubbi, amico dei fratelli Verri e di Cesare Beccaria, nel periodo in cui Manzoni inizia la stesura del romanzo, è uno dei responsabili della conservazione dei fondi archivistici della Repubblica di Venezia.
Il collegamento con gli intellettuali vicini a Manzoni e la struttura narrativa costituiscono quindi – come si direbbe con linguaggio tecnico-giuridico – una serie di indizi gravi, precisi e concordanti.
Il romanzo di Manzoni mette in scena comportamenti antisociali. E questo mi pare sia un punto di collegamento tra la narrazione creativa e la narrazione giuridica: entrambe mettono in scena ciò che ostacola la convivenza.
La storia di Bartolo
Per raccontare la seconda storia, invece, dobbiamo fare un salto indietro di cinquecento anni. Voglio parlarvi di Bartolo da Sassoferrato, che visse nel 1300. Bartolo è un giurista medievale della Scuola dei Commentatori, autore di un approfondimento giuridico (una repetitio) sul dodicesimo libro del Codice di Giustiniano, la cui rubrica parla della “dignità”. La repetitio di Bartolo è infatti conosciuta come “trattato sulla dignità”.
Bartolo si domanda cosa renda un uomo degno, cioè una persona preminente rispetto al comune plebeo. Per rispondere a questa domanda ricorre alla Canzone “Le dolci rime” di Dante Alighieri.
Queste le tesi sulla dignità (o nobiltà, intesa come sinonimo) che Bartolo ricava dal testo di Dante.
Prima tesi: la dignità dipende dal possesso di ricchezze e beni, insieme ad antica tradizione familiare.
Seconda tesi: sono gli antichi costumi familiari a rendere una persona nobile.
Terza tesi: è nobile chi discende da padre o antenato valente.
Dante aderisce alla quarta tesi: la nobiltà dipende dalla virtù.
Bartolo, invece, conclude che la dignità è solo quella attribuita dal potere sovrano, che può decidere di rendere degno anche chi non lo sarebbe per virtù.
E così Bartolo, che è un giurista, per individuare una regola di comportamento sociale ricorre alla letteratura. Manzoni, che è un letterato, per rappresentare comportamenti antisociali ricorre al diritto. Mi pare si tratti di operazioni speculari che hanno lo stesso obiettivo.
La nostra storia
C’è un’altra cosa che accomuna diritto e letteratura: entrambi sono usi del linguaggio.
Il linguaggio può essere usato per informare (è quello che sto facendo in questo momento), per emozionare (come farebbe una canzone o una poesia) o per prescrivere condotte.
Potremmo dire che la letteratura descrive condotte, mentre il diritto le prescrive. Ma in realtà, da un lato, la letteratura ha anche una funzione prescrittiva poiché sollecita l’adesione ai comportamenti virtuosi che rappresenta; dall’altro, il diritto ha anche una funzione descrittiva.
Se volessi spiegare a un extraterrestre in cosa consiste il gioco del calcio, difatti, dovrei dirgli in quanti si gioca; che solo il portiere può toccare la palla con le mani; che i contatti fisici violenti vengono sanzionati; e così via.
Per descrivere il gioco, dovrei ricorrere alle sue regole: le regole del gioco del calcio, dunque, sono la migliore descrizione del gioco del calcio.
La stessa cosa avviene per le regole del diritto, che sono la migliore descrizione della comunità in cui viviamo. E, in particolare, per le regole costituzionali, che sono un vero e proprio progetto narrativo.
Il testo della Costituzione racconta il romanzo che i costituenti avrebbero voluto per noi tutti.
A me pare di poter dire che noi tutti siamo gli autori di questo romanzo collettivo, che è ancora in corso. Questo perché il “diritto vive” attraverso la giurisdizione e risente delle dinamiche sociali di cui tutti siamo parte.
Perciò arriviamo alla terza storia che voglio raccontarvi, che è una parte di questo romanzo. Ecco l’incipit:
L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Il lavoro è il fondamento della Repubblica. Ma perché i costituenti ricorrono a questa formula proprio nell’articolo di apertura della Costituzione?
Se le costituzioni ottocentesche (o le dichiarazioni di fine Settecento) si fossero aperte con una formulazione simile, avrebbero indicato come fondamento la proprietà, non di certo il lavoro.
Abbiamo già visto cosa pensa Bartolo della dignità. E ancora nell’Ottocento la dignità era correlata al censo e il censo alla proprietà.
Il secondo grande romanzo italiano ottocentesco, I Vicerè di De Roberto, ci consegna un affresco degli effetti prodotti dai due istituti giuridici il cui scopo era proprio quello di conservare intatti i patrimoni familiari: il maggiorasco e il fedecommesso. I patrimoni devono conservarsi intatti perché da ciò dipende il prestigio e il potere delle famiglie. Ed è così che la successione per morte favorisce il primogenito maschio, il quale, a sua volta, dovrà trasferire tutti possedimenti al proprio primogenito maschio, e così via per sempre.
La Costituzione invece si preoccupa di chiarire subito che non vogliamo più essere il romanzo ottocentesco: vogliamo essere un romanzo nuovo.
Ma qual è il lavoro a cui pensavano i costituenti?
Pensate per contrasto a Homer Simpson. C’è una puntata in cui Homer canta una canzoncina, il cui ritornello fa così: io lavoro per i soldi, io lavoro per i soldi. Homer lavora effettivamente solo per i soldi: odia il proprio lavoro e lo svolge male. Gli serve solo per mantenere la famiglia e andare a bere birra Duff nel bar di Moe.
Nel disegno costituzionale, invece, il lavoro è soprattutto un mezzo necessario per affermare la propria personalità. E questa è una cosa che giova sia al singolo sia alla comunità cui il singolo appartiene.
Sotto questo profilo, il lavoro è un diritto che ha una componente di doverosità: ciascuno ha il diritto di lavorare, ma ha anche il dovere di farlo per concorrere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, al progresso materiale e spirituale della propria comunità.
L’architettura narrativa di questo nostro romanzo collettivo non lascia i propri personaggi in balia degli eventi: al contrario, impone che ciascuno sia messo, concretamente, in condizione di adempiere al diritto-dovere di lavorare.
La storia che i padri costituenti hanno progettato per noi, allora, è una storia in cui gli ostacoli, che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza e che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, devono essere rimossi affinché la partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese sia effettiva e non solo astrattamente annunciata.
Homer lavora per i soldi, dunque, noi lavoriamo per avere un’esistenza libera e dignitosa. Il lavoro consolida la libertà e la dignità, ma può anche conculcare la prima e annientare la seconda.
Ricorderete la scritta beffarda che accoglie i prigionieri di Auschwitz: il lavoro rende liberi.
Forse non è un caso che proprio Primo Levi, che ha conosciuto l’esperienza disumana dei campi di sterminio, dopo aver scritto Se questo è un uomo abbia scritto il romanzo che ha ispirato il titolo di questa riflessione.
La chiave a stella è la storia di un operaio che lavora in giro per il mondo. Si tratta di un’esaltazione delle proprie competenze e capacità come strumento di affermazione di sé; è un inno alla libertà e alla dignità che la soddisfazione di un lavoro ben fatto può regalare a ciascuno di noi.
Voglio lasciarvi con un’ultima immagine. L’etimologia latina suggerisce un’assonanza tra il lavoro e la fatica. In alcune lingue e in alcuni dialetti italiani, si usa proprio la parola “fatica” (o la parola “travaglio”) per indicare il lavoro. Nella Bibbia, il lavoro è addirittura la punizione inflitta ad Adamo per il peccato originale.
Il lavoro, nella dimensione costituzionale, però, ha il significato – profondamente diverso – che possiamo ricavare dalla radice sanscrita da cui discende il termine latino. Lavorare è “conseguire ciò che si desidera”.
E questo è il mio augurio per il vostro futuro lavorativo.
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