Cari lettori tenetevi pronti, perché vi stiamo per raccontare la storia di una brutale esecuzione capitale: a sola discrezione degli stomaci più forti.
Siamo nel 1905, oltre cento anni fa, e ci troviamo in Cina. I nostri occhi sono quelli di un avvocato italiano, Manlio Scarpari, corrispondente speciale per la rivista “La scuola positiva”. Da lì l’uomo inviava in patria resoconti della sua esperienza e in una delle sue lettere ci presenta una feroce esecuzione capitale a cui aveva assistito e che vi riportiamo integralmente.
Il suo disgusto e il suo sgomento, così come la sua commozione e la sua paura, sono dopotutto un po’ anche le nostre.
Sulla pianura che si allarga fra le alte montagne dell’Yunnan trillano migliaia di uccelli; la poesia fresca e allegra della natura spira in contrasto con quadro di morte che mi si profila davanti. A mezza strada sono atteso dai camerati, che mi offrono una fiala di Cognac; ne bevo a lunghi sorsi, nel presentimento che il martirio atroce, a cui andavo spettatore, avrebbe finito col togliermi tutte le forze.
Pochi passi avanti, da un antro basso, lungo e oscuro, preceduti da centinaia di curiosi, escono i condannati. Poso gli occhi sul corteggio, che sfila senza forma, senza pompa, col solo marchio della morte che lo conduce.
I pirati sfilano per primi, le mani legate all’indietro, la testa dondolante entro una tavola che loro recinge il collo dal quale sembra già staccato il capo: inchiodate e legate insieme alle due estremità, queste tavole discendevano e salivano, lunghe più d’un mentre, segnando con movimento sincrono la marcia fatale…
Il triste corteggio sfilò, e a duecento metri lo seguiva quello della donna, una piccola bruna, tarchiata, dall’occhio vivo, lucente, piuttosto disinvolta; non si sarebbe detto certo che essa andasse alla morte.
L’accusa, che la portava al patibolo, era di aver avvelenato il marito, perché non parlasse dell’adulterio flagrante nel quale l’avea trovata: la notte della scoperta essa avea distrutto la sua testimonianza più terribile contro il delitto che si punisce dai cinesi con la tortura: nel suo cervello di delinquente essa avrà ragionato che era più giusto passare alla tortura con un delitto d’amore e uno di sangue: così tutte le viscere del cuore e del corpo avrebbero goduto della medesima ebbrezza e meritato il medesimo castigo.
Bisognava pensare a tal guisa pacatamente e filosoficamente, perché la piccola donna non mostrava di preoccuparsi gran che di ciò che andava a soffrire.
Ormai tutti sono sul posto del patibolo: i soldati, quattro cinesi, boia per mestiere, sono là, con la sciabola pesante, che portava le tracce di altre esecuzioni.
Una croce di legno alta e salda costituiva il patibolo su cui dovevano salire le vittime, per venire legate e mutilate nella posizione di Cristo.
Siamo davanti a questa croce in circa quaranta europei, a cavallo: l’Autorità cinese dirige l’esecuzione. Mi avvicino con altri a domandare la grazia: il mandarino, bevendo il thè che gli è servito, sorride, e ci fa dire dall’interprete che, poiché il vicerè non l’aveva accordata non era in suo potere di mutare gli ordini, lasciandoci capire che ci sarebbe stata la corda per lui qualora si fosse arrogata tale indulgenza.
Gli si chiede allora che voglia predisporre onde le vittime non abbiano a soffrire a lungo: egli, seccato per questa nostra insistenza umanitaria, ci risponde che farà quel che sempre fu fatto e si beve il suo thè, intanto che la donna vien posta sulla croce…
Dinanzi la morte così prossima il viso della donna si è fatto esangue; tutta denudata al pubblico lasciava vedere il tremito delle ginocchia che non poteano sussultare perché il collo del piede era strettamente legato al basso della croce: ma il fremito della morte lo si vedeva passare sul piccolo corpo divenuto livido e poi giallo. A un cenno dell’Autorità un soldato s’avanza, rotea la sciabola pesante dinanzi agli occhi della paziente che si chiudono al primo colpo che cade sulla tempia sinistra: col sangue che zampilla a rivoli, esce un lungo rauco grido di morte. La sciabola strappa la tempia destra; tutto il lobo frontale cade sotto il colpo spietato; poi è il seno, uno ad uno, che cade al suolo: la donna non grida più, ma il sangue cola dagli strappi feroci: vedo una mano staccarsi, non del tutto, dal polso, poi un piede battere contro terra; le ferite sono orribili; non si sente che il colpo continuato della sciabola che finisce sempre a battere contro il legno della croce e il respiro multiforme della folla immensa, che vuol vedere altra carne smembrare. Così la sciabola opera; quando vedo l’arma dirigersi contro lo sterno e tracciare tutta una ferita fino al basso ventre, dò uno strappo al cavallo, travolgo con me due o tre terrorizzati da quella scena macabra, feroce e terribile, e guadagno con essi un angolo della prateria, dove giungo senza respiro, senza calore.
Il corpo della donna vien tolto dalla croce: è il turno del giovane pirata: sono già lontano da quel supplizio, ma la voce disperata della nuova vittima mi arriva al cuore. Ancora oggi sento la voce che grida e vedo la sciabola che rotea davanti una folla soddisfatta, davanti al mandarino che beve tranquillamente il thè…
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