Delitto e castigo nella vita del famoso scrittore russo: la storia del processo e della condanna del giovane Dostoevskij, accusato dal regime zarista per le sue idee liberali.
Il 22 dicembre 1849, verso le otto del mattino, scivolava dal ponte sulla Neva una lunga fila di slitte trainate da due cavalli. Era ancora buio perché a San Pietroburgo, in inverno, il buio è molto lungo.
All’alba erano stati prelevati dalla fortezza di San Pietro e Paolo quindici prigionieri. Erano giovani tra i venti e i trent’anni, tanti erano ufficiali dell’esercito, qualcuno andava ancora all’università, tutti amavano la letteratura. E proprio la letteratura, otto mesi prima, gli aveva causato l’arresto.
Da qualche anno ogni venerdì si riuniva segretamente nell’appartamento di Michail Petraševskij un gruppo di intellettuali di mentalità progressista. Petraševskij era un seguace di Charles Fourier, socialista utopico francese, anche se il fatto di vivere sotto il governo autocratico di Nicola I lo aveva costretto a diventare più utopista del maestro: in Russia c’era ancora la servitù della gleba e neanche uno straccio di giustizia sociale. Il 1848, poi, era stato il Quarantotto anche per la Russia e per paura di una rivoluzione lo zar aveva irrigidito ancora di più il suo pugno di ferro.
Al “Circolo Petraševskij” però gli incontri segreti continuavano e si leggevano e discutevano i filosofi occidentali, Hegel e Feuerbach su tutti, ma anche poeti, romanzieri e critici russi che difendevano i valori della libertà e dell’umanità. Vi partecipava anche un ragazzo promettente: aveva scritto, per ora, due romanzi, uno molto sentimentale di nome Povera gente (persino il principale critico del tempo, Vissarion Belinskij, lo aveva elogiato) e un altro molto gogoliano di nome Il sosia. Si chiamava Fëdor Dostoevskij.
Con gli anni il Circolo si era ingrandito molto e si erano venuti a formare dei sottogruppi cospirazionisti. Nessuno di loro, però, era riuscito a passare all’azione e alla fine l’attentato più grave commesso da un membro del Circolo fu la pubblica lettura di una lettera aperta di Belinskij (sì, quello che aveva elogiato Povera gente) a Gogol’.
Come tutti sanno, Gogol’ scrisse il capolavoro Le anime morte. Poi impazzì, bruciò il manoscritto della seconda parte, stette zitto per un po’ e infine pubblicò un libro bruttissimo in cui credeva molto dal titolo Brani scelti dalla corrispondenza con gli amici. Qui difendeva la superiorità dei proprietari terrieri, il sacrosanto diritto di infliggere sui servi le punizioni corporali e tutte le altre tradizioni eterne stabilite da Dio.
Belinskij (che nel frattempo era uscito un altro romanzo di Dostoevskij di nome Le notti bianche ma non lo aveva elogiato) scrisse una pessima recensione, alla quale Gogol’ rispose mostrandosi un po’ ignaro e un po’ supponente. Belinskij allora stese una lettera davvero infiammata, in cui lo accusava di essere un «predicatore della frusta, apostolo dell’ignoranza, propugnatore dell’oscurantismo e della reazione».
Proprio Gogol’, che aveva preso in giro il sistema dei padroni e dei funzionari statali, ora si era messo a giustificarlo, anzi a inneggiarlo. Altro che ascesi, misticismo e sermoni! La salvezza della Russia – scriveva Belinskij – stava piuttosto nei successi della civiltà e nel risveglio dell’autostima della gente.
Gogol’ si era creato una favola del popolo russo, che Belinskij riteneva squallidissima:
Secondo lei, il popolo russo è il più religioso del mondo: falso! Il fondamento della religiosità è il pietismo, la devozione, il timor di Dio. Il russo invece pronuncia il nome di Dio grattandosi il sedere. E dell’immagine sacra dice: se fa comodo, si prega, e se non fa comodo ci si coprono le pentole.
Di fronte a tali parole, Nicola I aveva imposto la censura sulla lettera.
Fu il ventisettenne Dostoevskij a commettere il crimine della pubblica lettura. L’arresto arrivò dopo pochissimo tempo, a seguito della delazione di un agente infiltrato nel Circolo Petraševskij, Antonelli.
Insieme ad altri frequentatori del Circolo, nella notte tra il 22 e il 23 aprile del 1849 Dostoevskij fu portato alla fortezza di San Pietro e Paolo. Gli interrogatori furono condotti dal capo della Commissione d’Inchiesta, il generale Ivan Nabokov. Ci furono altre ondate di arresti, i prigionieri divennero quasi sessanta. Nessuno fece mai il nome dei cospirazionisti e il capo d’imputazione più solido rimaneva solo la lettura della lettera di Belinskij. Comunque fu istituito un processo secondo la legge penale militare, giusto per essere sicuri che la pena sarebbe stata durissima. E il 16 novembre arrivò la condanna: a morte.
La mattina del 22 dicembre i quindici condannati furono prelevati dalle loro celle condotti con le slitte a Piazza Semënov, dove era già pronto il plotone di esecuzione. Lessero la condanna, gli dissero di baciare la Croce, spezzarono le spade sopra le loro teste e gli fecero indossare degli abiti bianchi. I primi tre di furono legati al palo per fucilati. Ne chiamavano tre alla volta; Dostoevskij si trovava nel secondo gruppo e si rese conto che non gli restava più di un minuto di vita.
Un solo minuto per ripensare alle cose più importanti della vita: lo dedicò al fratello Michail.
Ma all’ultimo secondo accadde qualcosa di impossibile: la revoca. Lo zar concedeva la grazia.
In realtà la commutazione della pena era già stata decisa il 19 dicembre, ma la legge prevedeva che venisse comunicata ai condannati solo sul patibolo, crudelmente allestito per la farsa. Quindi fu letta la nuova sentenza: lavori forzati a tempo indeterminato in Siberia.
Dostoevskij chiese di poter vedere il fratello, ma glielo negarono. L’unica cosa che gli venne concessa fu una lettera, in cui scrisse così:
Adesso puoi stare tranquillo. Fratello! Non mi sono abbattuto né perso d’animo. La vita è vita dappertutto. La vita è dentro di noi, non fuori di noi. Accanto a me ci saranno delle persone, ed essere un uomo tra gli uomini e restarlo per sempre, e per nessuna sventura abbattersi o perdersi d’animo — è questa la vita, lo scopo della vita. Ora l’ho capito.
Il 24 dicembre fu deportato in Siberia, dove giunse l’11 gennaio 1850. Il 17 gennaio venne rinchiuso nella fortezza di Omsk, dove rimase per quattro anni a lavorare l’alabastro, trasportare tegole e spalare neve, senza altra compagnia che una Bibbia e individui della peggior specie.
Nel febbraio del 1854 venne liberato per buona condotta, ma la cruda esperienza in Siberia, stratificatasi sul trauma della mancata fucilazione, lo segnò per sempre, acuendo gli attacchi epilettici che dureranno per tutta la vita. Tanto che, inizialmente, pensava che non avrebbe scritto mai pi
Poi invece riprese la penna in mano e i suoi demoni divennero i migliori strumenti per scavare nei più reconditi tormenti dell’animo umano, nella sua miseria, nel suo sudiciume, e da questo fondo buio risalire verso le vette più elevate della letteratura.
Nei suoi romanzi ricorre spesso l’esperienza di trovarsi a pochi minuti da una condanna. Uno dei momenti più belli e indimenticabili si trova ne L’idiota, dove il principe Myškin racconta la storia di un uomo condotto al patibolo:
Gli restavano da vivere cinque minuti, non di più. Egli diceva che quei cinque minuti gli erano parsi interminabili, una ricchezza enorme. Gli pareva che in quei cinque minuti avrebbe vissuto tante vite, che per il momento non bisognava ancora pensare all’ultimo istante, cosicché prese varie risoluzioni: calcolò il tempo occorrente per dire addio ai suoi compagni, e per quello stabilì due minuti, altri due minuti per pensare un’ultima volta a se stesso, e poi per guardarsi intorno un’ultima volta. Ricordava molto bene che aveva preso proprio queste tre decisioni, e che aveva calcolato esattamente in quel modo. Moriva a ventisette anni, pieno di salute e di forza […] nulla era stato più penoso del pensiero incessante: “se potessi non morire, se potessi far tornare indietro la vita, quale infinità! E tutto questo sarebbe mio! Io allora trasformerei ogni minuto in un secolo intero, non perderei nulla, terrei conto di ogni minuto, non ne sprecherei nessuno!”. Diceva che alla fine quel pensiero s’era tramutato in una tal rabbia, che ormai desiderava che lo fucilassero al più presto.
© Riproduzione riservata