Se l’esercizio del diritto è esercizio della parola, e l’esercizio della parola è esercizio del pensiero, la giustizia, per funzionare, ha bisogno di storie ben raccontate e argomentazioni chiare. Per questo la comunicazione legale dovrebbe imparare a (ri)guardare alla letteratura come sua grandissima maestra. Anzi, come un dovere civico.
Nel romanzo Attraverso lo specchio di Lewis Carrol, Alice (quella stessa Alice che era entrata nel Paese delle Meraviglie) si confronta con un personaggio chiamato Humpty Dumpty in un dialogo che può essere utilizzato per esemplificare due diverse concezioni del diritto (lo spunto è di U. Scarpelli, “Il metodo giuridico”, in Riv. Dir. Proc.,1971, p. 555).
Ecco il dialogo:
Humpty Dumpty prese il taccuino e lo guardò con attenzione. “Mi sembra ben fatto…” Cominciò.
“Lo tiene alla rovescia!” Lo interruppe Alice.
“Già, è vero!” Disse allegro Humpty Dumpty, mentre lei glielo girava. “Mi pareva un po’ strano. Come dicevo, sembra ben fatto… Benché ora non abbia il tempo di esaminarlo a dovere… E il risultato dimostra che ci sono trecentosessantaquattro giorni in cui puoi ricevere regali di non-compleanno…”
“Certo” disse Alice.
“E solo uno per i regali di compleanno, sai. Piglia su e porta a casa!”
“Non capisco cosa dovrei portarmi a casa” disse Alice.
Humpty Dumpty fece un sorriso di disprezzo. “Naturale… Devo dirtelo io. Volevo dire: ‘ecco un argomento che ti stende definitivamente!’.”
“Ma ‘piglia su e porta a casa’ non è proprio come dire ‘ecco un argomento che ti stende’” obiettò Alice.
“Quando io uso una parola” disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante “questa significa esattamente quello che decido io… Né più né meno.”
“Bisogna vedere” disse Alice “se lei può dare tanti significati diversi alle parole.”
“Bisogna vedere” disse Humpty Dumpty “chi è che comanda… È tutto qua”.
Alice ritiene che le parole abbiano significato in sé, e che questo significato sia univoco: possiamo considerarla, dunque, una giuspositivista. Humpty Dumpty, invece, ritiene che le parole abbiano il significato che gli attribuisce chi le usa: possiamo considerarlo, quindi, un giudiziarista (o processualista).
Un giuspostivista è convinto che il diritto viva nelle parole della legge. Un giudiziarista (o processualista), invece, ha la certezza che l’unico “diritto vivente” sia il frutto della communis opinio maturata nella giurisprudenza e nella dottrina in ordine al significato normativo da attribuire a una determinata disposizione (e questa è proprio la definizione che del sintagma “diritto vivente” dà la nostra Corte costituzionale).
L’obiettivo della giurisdizione è la risoluzione di un conflitto, attraverso l’applicazione della regola di condotta prevista dall’ordinamento per quel caso. La selezione dei fatti da cui il conflitto insorge e l’individuazione, tra le molte esistenti, della regola più appropriata è demandata al processo; la cui funzione primaria, allora, non pare essere tanto quella di “dare giustizia” – sebbene questo ne sia il più auspicabile tra gli effetti – ma soprattutto quella di “dire il diritto” e, dunque, di affermare la regola applicabile nel caso concreto.
“Affermare il diritto”, come si ricava anche dalla radice etimologica ius dicere, è dunque l’essenza della giurisdizione, il cui esercizio appare, per l’appunto, dominato dalla parola. Parola che sta a monte della giurisdizione, nelle regole astratte dell’ordinamento; a valle, nelle argomentazioni della sentenza; e nelle dinamiche stesse del processo, in cui i fatti vengono narrati, le disposizioni lette e interpretate, i ragionamenti sviluppati.
Queste righe sono ispirate dall’idea che la giurisprudenza sia il “linguaggio” prodotto dal “pensiero” che matura nel processo; e che – per usare le parole di Humpty Dumpty – chi comanda è il processo (che è un metodo), non la giurisprudenza (che è un esito).
Quello che deve fare un giurista – e, in particolare, un avvocato –, allora, è contribuire alla formazione del linguaggio giurisprudenziale attraverso l’espressione del suo pensiero; tenendo sempre a mente che il linguaggio giurisprudenziale è giusto solo se il pensiero che lo ha prodotto è chiaro.
Ma come si fa a elaborare ed esternare un pensiero chiaro?
Una produzione legislativa elefantiaca, spesso disorganica, a volte sciatta, costringe l’avvocato che esercita nell’era della de-codificazione alla ricerca spasmodica dell’ultima modifica, disposta con l’ultimo articolo, nell’ultimo dei “milleproroghe”; facendogli perdere il senso originario della professione, che non può consistere solo nel sapere come si fanno le cose, ma dovrebbe soprattutto consistere nel capire perché le cose si fanno in un certo modo.
L’acquisizione di competenze che sembrano essere superflue riportano, al contrario, l’avvocato alle fondamenta della professione, che si deve esprimere oltre la dimensione del mero tecnicismo giuridico.
L’oggetto di osservazione del diritto è l’uomo nel momento stesso in cui esce dall’isolamento e si organizza; si dà regole di comportamento; definisce le procedure attraverso le quali quelle regole di comportamento dovranno mutare, per adattarsi al trascorrere del tempo; individua gli attori della trasformazione.
Mutando di poco il punto di vista, si può dire, allora, che l’avvocato si occupa essenzialmente degli uomini e dei loro conflitti e, in quest’ottica, contribuisce a determinare i mutamenti del sistema. Questo perché è l’avvocato che introduce le “storie” nel processo, che argomenta per indurre il giudice al convincimento, che “stressa” le disposizioni, rilevando i limiti di un’interpretazione troppo stretta.
Per assolvere a questo ruolo, che lo rende protagonista nel percorso di formazione del “diritto vivente”, da un canto, l’avvocato deve essere immerso nella realtà che lo circonda; e, dall’altro, deve saper raccontare i fatti di cui è a conoscenza; interpretare le disposizioni legislative e le sentenze pertinenti; argomentare logicamente, riconducendo i primi alle seconde.
Raccontare i fatti (e, dunque, parlare e scrivere chiaramente); interpretare le regole poste dall’ordinamento (e, dunque, leggere le disposizioni astratte, per ricavarne concrete norme di condotta); ragionare, per dimostrare il legame tra i fatti narrati e le regole individuate (ossia argomentare, per incidere sull’elaborazione del c.d. sillogismo giudiziario, espresso nella sentenza): al fondo, è questa l’attività dell’avvocato.
La pienezza del ruolo, quindi, richiede competenze e capacità per le quali la formazione tradizionale è inadeguata, perché si tratta di competenze che possono rintracciarsi oltre i confini della disciplina e capacità che devono potersi esercitare a prescindere da essa.
Il campo di studi che può offrirgli le competenze complementari di cui necessita è la letteratura.
Nella letteratura l’avvocato può sperimentare come l’esperienza giuridica è percepita nella società e quali siano le direttive verso cui la società si muove.
Con la letteratura può arricchire le proprie competenze comunicative e imparare a raccontare le “storie” che, nella dialettica del processo, porteranno il giudice ad “affermare il diritto”, rendendolo vivo e, forse, anche giusto.
Dalla letteratura l’avvocato può acquisire un metodo per l’analisi del ragionamento giuridico e per l’interpretazione delle norme e delle sentenze; allo stesso tempo, inoltre, può “allenarsi” alla comprensione del testo scritto e imparare a scrivere testi che altri dovranno comprendere, per riconoscere la bontà delle sue difese.
Queste ultime competenze sono offerte, in particolare, dalle tecniche di scrittura legale e di legal design. Si tratta di “tecniche” nel senso greco del termine: costituiscono comportamenti produttivi orientati da un sapere.
Un certo modo di costruire la frase, alcune scelte lessicali, immagini particolarmente evocative: tutte queste cose rendono efficace la comunicazione, anche se l’emittente è inconsapevole delle regioni di questa efficacia.
È possibile, allora, trasmettere direttamente la conoscenza dei vari “comportamenti produttivi” oppure insegnare (e imparare) il sapere che è a monte.
Il “comportamento produttivo” soddisfa un’esigenza di base: quando parlo (o scrivo) devo farmi capire. Un’esigenza comune a tutti i comunicatori e, quindi, anche ai comunicatori del mondo legale.
La comunicazione legale, però, è un genere al cui interno è forse possibile individuare una specie che ha obiettivi in parte esuberanti il mero “farsi capire”: io la definirei comunicazione forense. L’obiettivo della comunicazione forense è duplice: farsi capire, ma anche rispondere alla comunicazione di cui si è stati destinatari e, dunque, comprenderne tutte le sfumature. Questo è evidente sia nelle scritture difensive sia negli atti di impugnazione.
Alla base delle tecniche di scrittura (e di design della parola), pertanto, c’è un sapere che guida l’elaborazione del pensiero, non solo la sua esternazione. Posso imparare come comunicare con chiarezza (comportamenti produttivi) oppure posso imparare come si costruisce un pensiero chiaro (e, in modo speculare, come si decostruisce il pensiero oscuro, che sia proprio o altrui).
Sotto questo profilo, straordinaria utilità hanno – per citarne solo alcuni – gli studi di linguistica, che ci guidano alla scoperta di quel meraviglioso strumento di comunicazione che è il linguaggio; la logica, che nella sua versione informale o argomentativa ci aiuta a riconoscere le fallacie; la retorica aristotelica, che è essenzialmente una retorica logica e non psicagogica; la dialettica, che è il metodo di ricerca della verità alla base del processo; la psicologia cognitiva, che ci consente di non cadere in quei tranelli della mente che sono i bias.
La scrittura legale e il legal design, in quest’ottica, sono strumenti tecnici mediante i quali acquisire – attraverso diversi livelli di approfondimento ma sempre in una visione multidisciplinare – padronanza delle parole; e le parole sono la materia di cui sono fatti i pensieri.
Lo scrittore George Saunders scrive, a questo proposito, che
noi consideriamo il linguaggio un prodotto del pensiero (facciamo un pensiero e poi scegliamo una frase con cui esprimerlo), ma il pensiero è a sua volta un prodotto del linguaggio (tentando, grazie alle parole, di trasmettere un significato preciso, capiamo meglio ciò che pensiamo.
L’elaborazione del discorso giuridico deve essere il frutto di un circolo virtuoso: le parole saranno il veicolo di un pensiero netto se il pensiero sarà il carburante di un linguaggio chiaro. E il pensiero sarà tanto più netto quanto più chiaro è il linguaggio che lo produce.
Se è così, però, la specificità della comunicazione forense (devo farmi capire ma devo anche capire, per rispondere) non deve rimanere un tratto della sola scrittura legale, perché la capacità di elaborare un pensiero critico è un’esigenza civica. Non a caso la retorica – che è la nonna delle tecniche di scrittura moderne – nasce nel tribunale ma cresce nell’agorà.
È vero che chi scrive (o parla), tanto nel tribunale quanto nell’agorà, ha il dovere di farsi capire e che a questo dovere corrisponde il diritto di capire in capo a chi legge (o ascolta), ma forse è ancora più corretto sostenere che entrambi hanno un onere.
Il vantaggio di entrambi è nella diffusione di un pensiero chiaro; e il pensiero che nasce oscuro deve essere reso chiaro, eventualmente, grazie all’apporto (dialettico) del destinatario. Non è questa dialettica, in fondo, l’essenza stessa del contraddittorio?
Più è oscuro il pensiero dell’emittente, maggiore è interesse del destinatario decodificarlo allo scopo di correggerlo oppure di “smontarlo” per renderne evidenti i limiti e le contraddizioni. Altrimenti, la comunicazione, confinata in un rapporto rigido di diritti e doveri contrapposti, resta solo un rumore di fondo.
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