La pandemia ha travolto il settore teatrale, già fortemente in crisi, in modo catastrofico e il governo ha messo in atto misure che sembrava dovessero rappresentare un’àncora di salvezza. Qual è, tuttavia, il vero impatto di queste politiche sul settore?
Chi non ha mai notato, con quella curiosità un po’ oziosa verso scenari di emergenza che sembrano improbabili, quei cartelli che spiegano l’uso corretto di un estintore? Un disegnino, in particolare, è emblematico: «Rivolgere il getto alla base della fiamma e non dall’alto» … tale tecnica appare di perfetto buon senso solo dopo averla letta, e ci si rende conto che qualunque improvvisato (ma solerte) vigile del fuoco sarebbe tentato di usare tutta la potenza dell’estintore direttamente sopra le fiamme, aumentando l’incendio in maniera paradossale.
Identica attitudine è stata assunta, tragicomicamente, nel tentativo di salvare il mondo del teatro musicale dal divampare del virus: buone intenzioni senza la mira giusta hanno prodotto più danni che benefici.
Una premessa su come funziona il settore dell’opera lirica è doverosa. L’Italia possiede, oltre ai cosiddetti e numerosi Teatri di Tradizione che lavorano “a progetto”, quattordici Fondazioni Lirico-Sinfoniche (D.Lgs. 29 giugno 1996, n. 367), che operano stabilmente tutto l’anno, eredi dei vecchi ingessati Enti Lirici (art. 6 della Legge 14 agosto 1967, n.800). La loro collocazione è ibrida: sembrano soggetti indipendenti e quasi privatizzati, ma in realtà si sa che la maggior parte del loro sostentamento continua a derivare da contributi pubblici (il famigerato FUS, ma anche elargizioni regionali e comunali), integrati da modeste percentuali ricavate dagli sponsor e dal botteghino.
Quest’ultimo è il vero perno su cui ruota il dissesto di un settore intero: i ricavi da biglietteria sono in grado di soddisfare solo in minima parte i costi fissi di un teatro d’opera, e – in maniera ancora più grave – non coprono nemmeno i costi variabili di produzione.
In parole povere, si ponga che ogni alzata di sipario costi duecentomila euro, e che vi siano mille posti in sala. Il punto di pareggio sarebbe 200 € a biglietto, mediamente. È qui che la politica entra in gioco, stimando il teatro un bene meritevole di sussidi e finanziando le Fondazioni: grazie all’intervento pubblico, che fornisce risorse per l’intera stagione, il biglietto medio costerà (poniamo) soltanto 50 €, prezzo molto più accessibile ad un pubblico più ampio e anche più popolare.
Sulla carta sembra un meccanismo virtuoso, ma in realtà è alla base del disastro: il fabbisogno del teatro nel nostro esempio (non lontano dalla realtà) dipende sempre al 75% dalla politica a più livelli in modo troppo complesso, ed è questo che crea meccanismi distorti che hanno mostrato tutti i loro limiti.
Primo fra tutti il FUS, il Fondo Unico per lo Spettacolo dal Vivo, che è un grande calderone in cui il MIBACT raduna poche briciole (circa 300/400 milioni all’anno, pari allo 0,05% della spesa pubblica italiana) da spartirsi fra una lista di affamati soggetti passibili di “sussidio” secondo criteri meritocratici che in realtà sono diventati una sorta di hunger games, un gioco a somma zero in quanto il totale distribuito è sempre lo stesso ed è solo questione di modificare ogni anno le quote di ognuno. Avete capito bene: se io sono un teatro da premiare, non riceverò più soldi indipendentemente dagli altri, ma li toglierò per forza a qualcuno meno virtuoso. È come se in classe il professore, per dare un 10 al posto di 9, fosse obbligato a far passare qualcuno da 5 a 4, o viceversa.
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Neppure i capponi di Renzo avrebbero immaginato un modo migliore per iniziare a beccarsi senza nemmeno conoscere gli esiti della contesa, anche perché ça va sans dire, i criteri di premiazione promanano da complesse tabelle ministeriali i cui coefficienti, punti e valutazioni variano con meravigliosa burocrazia magica, tanto che un declassamento può colpire chiunque e in ogni momento sulla base di rigidi criteri fra cui temibili soglie di produttività, scatenando circoli viziosi. Un teatro in leggera difficoltà non potrà ragionevolmente mantenere i livelli di produzione dell’anno anteriore, quindi verrà punito finanziariamente con un taglio, quindi sarà ancora più in difficoltà, e così via.
A ciò si aggiunge il paradosso dei paradossi, cioè che i contributi FUS così faticosamente conquistati arrivano in genere non in anticipo come in tutto il mondo civilizzato (io ti finanzio perché tu possa produrre, non dopo che tu abbia prodotto!), bensì con mesi (se non anni) di ritardo rispetto all’esercizio in ballo: si capisce così perché i teatri siano costretti ad indebitarsi aspettando le tardive elargizioni del Ministero o della Regione o del Comune, magari per poi ritrovarsi colpiti da un taglio lineare dopo aver già speso quelle somme. Il dissesto è servito.
Ma fermiamo la macchina! Questa era solo una premessa per spiegare come il settore dell’opera sia già zoppicante in Italia, e per far capire come il virus abbia assestato il colpo di grazia. A segare la gamba sana ci ha pensato la politica.
Il factum principis, cioè le varie chiusure che hanno separato le platee dal loro pubblico, ha privato i teatri della loro ragione d’esistere e creato voragini nei bilanci. Cosa ha escogitato dunque il Ministero? Arrivare in soccorso dei Teatri e congelare i contributi FUS, bloccando le infernali tabelle di produttività e garantendo a tutti gli stessi fondi dell’anno precedente, indipendentemente dai livelli di produzione raggiunta che nel 2020, senza pubblico, rischiava di essere pari a zero. Sembrava un provvedimento di buon senso per garantire la sopravvivenza di soggetti dipendenti da soldi pubblici… al contrario, ecco che torna utile la metafora dell’estintore rivolto non alla base della fiamma, ma ardimentosamente a caso.
Le direzioni dei teatri, infatti, finalmente libere dai criteri di rendimento, hanno in genere colto l’occasione per tirare i remi in barca: richiamando l’esempio precedente, i sovrintendenti sapevano che in ogni caso avrebbero ricevuto garantito il 75% del loro fabbisogno (la parte di finanziamento pubblico), senza troppi pianti per il rischio di perdere quel 25% di ricavi della produzione, che come abbiamo visto è un’attività in perdita.
Anzi, hanno subito cancellato tutti i contratti artistici (certamente con lo scudo della forza maggiore), hanno messo in cassa-integrazione i numerosi dipendenti diventati inutili (liberandosi di una bella fetta di stipendi da pagare), hanno chiuso il sipario e spento le luci (anche elettricità e riscaldamento risparmiati, ci scommettiamo), senza nemmeno provare a produrre qualcosa e mantenere attivo il settore, siccome mancava ogni tipo di sprone politico o economico.
C’era da aspettarsi che i sovrintendenti agissero così, da amministratori per nulla ingenui, che valutano attentamente costi e benefici del produrre.
Il passo falso è stato a monte, cioè disattivare da un giorno all’altro il meccanismo-capestro della produttività, cui i teatri erano spasmodicamente abituati, senza offrire altri criteri di vitalità, per tutelare davvero la pelle di chi nel teatro ci lavora e da tale attività dipende.
Si è arrivati al paradosso, quindi, che garantire i contributi pubblici ha salvato sì i teatri, ma ha sfasciato il Teatro, giacché in pratica ha stoppato per mesi e mesi ogni attività artistica e tagliato il sostentamento diretto ai lavoratori dello spettacolo. È come se i fondi garantiti, concessi con leggerezza dal MIBACT, si fossero fermati nelle pance dei teatri, senza giungere davvero alle cellule attive e periferiche del settore. Artisti e cantanti rimasti senza contratti; tecnici, cori e orchestre intere lasciati a mezzo stipendio; forniture cancellate, indotto bloccato, collaboratori invitati a stare a casa. Un vero capolavoro, se si voleva proteggere il settore, non trovate?
Sarebbe stato doveroso imporre ai teatri, affinché potessero ottenere i fondi pubblici garantiti, alcune prudenti condizionalità: per esempio, un livello di produzione minimo da rendere disponibile online, per tutelare il lavoro delle masse stabili, che non si capisce perché abbiano dovuto subire la cassa-integrazione a differenza di tutti i loro quasi-colleghi dipendenti pubblici; oppure sarebbe stato vitale l’obbligo di risarcire una parte di cachet agli artisti a contratto ingaggiati in produzioni cancellate per il virus. Sarebbero stati ristori mirati e precisi, giustificati, chirurgici. Con tutti i soldi spesi per la pandemia, si poteva addirittura aumentare il magro FUS per un anno, ma continuare ad imporre ai teatri il loro ruolo di “distributori” sul territorio di questi fondi attraverso la loro normale (benché senza dubbio menomata) sfera d’azione.
Bloccando questo meccanismo di collegamento, si è preferito invece un liberi tutti, buttando la palla in tribuna attraverso la mossa più immediata e meno lungimirante, per proporre poi ingiusti e casuali ristori a pioggia, che non hanno mai compensato davvero le perdite di nessuno.
Com’è possibile che chi ci governa non abbia intravisto i pericoli di una misura talmente sempliciona? Il rischio è ora di ritrovarci alla fine del virus con i nostri teatri rimasti in piedi per miracolo, ma con migliaia di lavoratori e famiglie devastati, i quali probabilmente non torneranno mai più alla vita precedente. L’incuria cronica che l’opera subisce in Italia, inspiegabile in tempi normali giacché essa è forse il nostro prodotto culturale più autentico e diffuso, assume in tempi di crisi contorni ancora più grotteschi: l’incapacità di chi vaneggia un Netflix della cultura ha trasformato un’emergenza in una catastrofe. Siamo al crinale del disastro… serve una coscienza collettiva per evitare il precipizio cui ci spingono i colpi di autentici incoscienti barbari: allora l’Opera, come si canta commossi nell’Attila sulle macerie, rivivrà più superba, più bella, della terra e dell’onde stupor.
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