“Ah, non credea mirarti
sì presto estinto, o fiore
passasti al par d’amore
che un giorno sol durò”
Conoscete questi versi?
Sono i primi dell’aria più bella e nota de La Sonnambula di Vincenzo Bellini, un’opera del 1831. Racconta la storia di Amina che tradisce “involontariamente” il suo promesso sposo Elvino, cadendo in stato di sonnambulismo e capitando – guarda caso – nelle stanze del conte Rodolfo.
L’Opera Lirica ha sempre risvolti romantici e delittuosi, tragici e passionali. E quelle musiche, quel canto, quei costumi, quei lezzi e tutte le sue meraviglie sono la colonna perfetta per i racconti e le storie di Massime dal Passato.
Sarà per questo che amo l’Opera, anche se di norma preferisco quelle dal finale drammatico (compresa la Carmen, così com’è). La Sonnambula invece, nonostante le premesse, ha un finale festoso, perché i due fidanzati si riconciliano e convolano a nozze dopo che Elvino si accorge che Amina sonnambula lo era per davvero. Tutto bene quel che finisce bene.
Non è bello, d’altronde, quando tutto pare andare per il verso sbagliato e improvvisamente accade qualcosa di meraviglioso? Le insidie della vita si nascondono invece nei posti più impensabili. Uno pensa di amare Amina, e di essere corrisposto, e invece lei va sonnambula tra le braccia di Rodolfo. Uno pensa di aver studiato tantissimo e invece non si ricorda niente. Uno pensa di aver comprato il regalo più bello per la sua fidanzata, e invece non le piace. Per cui a volte meglio ragionare al contrario e non aspettarsi nulla da niente e da nessuno, facendo del pessimismo scaramantico stella polare di vita.
Pensante, ad esempio, a un artista, magari esordiente, alla sua prima esibizione, quanta ansia avrà addosso, quante aspettative. Sarà applaudito, sbeffeggiato? Ci sarà pubblico? E se quell’artista si attenderà il successo, state pur certi, che sarà sommerso da bordate di fischi. Peraltro, la paura dei fischi colpisce principalmente tra tutte una categoria di artisti ben specifica: i cantanti lirici. Dal loggione nessuno fa sconti!
Pensate quindi quanto possa essere spaventosa per una cantante lirica la minaccia di ritrovarsi assiepati in teatro ospiti pagati appositamente per fischiarla (al di là della bravura, della precisione e della modestia)!
Mi è capitata tra le mani questa sentenza della Cassazione del 1902 che racconta una storia incredibile.
Siamo nell’ottobre del 1901. Giuseppe Verdi è morto quello stesso anno in gennaio, e molte città italiane hanno già intitolato alla sua memoria il teatro cittadino, tra queste Firenze.
In cartellone al Verdi di Firenze c’è La Sonnambula. Il ruolo di Amina è affidato alla soprano catalana Josefina Huguet i Salat, nota come Giuseppina Huguet. Ha già interpretato quello stesso ruolo in varie città all’estero (compresa New York) e in Italia, dove si trova in tourneè, a Milano, Napoli e Reggio Emilia. Nonostante la discreta esperienza, Giuseppina Huguet ha appena 30 anni e può quindi ancora considerarsi esordiente.

Giuseppina Huguet
Accadde questo: una delle sere che precederono la prima a teatro, si avvicinarono al suo impresario tre loschi individui che minacciarono di far fallire l’esibizione (ovvero di far riempire di fischi la povera Giuseppina) qualora non fossero stati consegnati loro “80 biglietti d’ingresso, due palchi e lire 50 da pagarsi per ogni rappresentazione dopo il primo atto, perché altrimenti non gli avrebbero garantito un felice successo“.
L’impresario, il signor Michele Virgilio (quale nome migliore per uno spirito guida?) lì per lì rifiutò, ma poi pensieroso, per la paura che accadessero disastri, decise di cedere all’estersione e contrattando un po’ la taglia, scese a patti coi criminali. Quando si incontrarono, nel preciso momento in cui fu consegnato il corrispettivo intervennero le guardie di pubblica sicurezza, arrestando gli estorsori. Costoro si difesero nei tre gradi di giudizio sostenendo di non aver fatto nulla di male, ma che anzi aveva offerto un importante servizio all’artista affinché tutto filasse via liscio durante gli spettacoli.
Altro che Gomorra.
Ah, le serate andarono tutte bene, benissimo, nessun fischio. Ma Giuseppina Huguet si sarebbe ritirata dalle scene, ancora giovanissima, appena quattro anni dopo.
© Riproduzione Riservata
La Corte: — Nel 26 ottobre 1901 in Firenze si presentarono al sig. Virgilio Michele, mandatario dell’artista di canto Hughet Giuseppina, nell’albergo Cavour, ove alloggiava, tre individui, cioè Tomwley Alfredo, Toci Tebaldo ed un Ammannati;
il primo dei quali gli disse, con un piglio da prepotente a nome di tutti, che, essendo la signorina Hughet scritturata al teatro Verdi per cantare la Sonnambula, bisognava dar loro 80 biglietti d’ingresso, due palchi e lire 50 da pagarsi per ogni rappresentazione dopo il primo atto, perchè altrimenti non gli avrebbero garantito un felice successo, come per dire che sarebbe andato a male lo spettacolo
Il Virgilio, irritato per la strana minaccia, li mandò via; ma poscia, ripensando al pericolo ed al danno irreparabile che ne sarebbe venuto alla cantante nel principio della sua carriera, incontratosi nel mattino del 29 col Toci, gli disse che fosse tornato con i compagni la sera per definire l’affare, anziché nel 30, come dissero di fare nell’uscire dall’albergo.
Nell’ora indicata, mentre il Virgilio era nella sala da pranzo, gli si fecero innanzi il Toci, il Tomwley ed un terzo compagno Burresi Stefano. Il Toci gli disse che la domanda già fatta si riduceva a 40 biglietti ed a lire 50 per rappresentazione. Il Virgilio di rimando gli rispose che era pronto a pagare soltanto la somma di lire 50, e subito, non potendo essere in Firenze la sera del 30, purché gli avessero assicurato una serata tranquilla; e, trattosi di tasca il portafoglio, gli consegnò un biglietto di lire 50, dicendo: «questa è una vera e propria estorsione». Però all’improvviso sopraggiunsero due delegati di pubblica sicurezza, ch’erano lì nascosti con le guardie; e procedettero all’arresto dei tre compagni, dopo aver sequestrato il biglietto, che il Toci aveva già posto in un cappello.
La stessa minaccia in quei giorni erasi fatta dal Tomwley al tenore Pandolflni.
Procedutosi al giudizio con citazione direttissima, il tribunale di Firenze, con sentenza dell’8 novembre, condannò i tre imputati a due anni di reclusione per ciascuno come colpevoli di estorsione ai sensi dell’art. 409 cod. pen. per aver costretto, incutendo timore con la minaccia di un insuccesso teatrale a Virgilio Michele rappresentante della Hughet ed incaricato del Pandolflni, a sborsare ad essi la somma di lire 50.
Vi fu appello e fu rigettato dalla Corte d’appello ai 13 gennaio corr. anno.
I condannati ricorrono contro la sentenza per un unico mezzo: il Toci denunzia la violazione dell’art. 409 cod. pen. e 323 n. 3 proc. pen., perchè, trattandosi d’un lucro ch’era la retribuzione ed il corrispettivo di un servizio che si rendeva all’artista, sarebbe applicabile la sanzione dell’art, 150 e non quella dell’art. 409 cod. penale.
II Tomwley deduce la violazione dell’art. 406 cod. pen. e 323 proc. pen., perchè la sentenza manca di sufficiente motivazione e non stabilisce gli estremi del reato.
Il Burresi lamenta l’erronea motivazione, perchè nel fatto ricorrono gli estremi della violenza privata e non dell’estorsione.
Con motivi aggiunti i condannati denunziano:
1° la violazione dell’art. 409 cod. pen., perchè il fatto non contiene gli estremi dell’estorsione. E di vero la minaccia di un insuccesso teatrale, o quello di non garantire il successo del debutto di un artista di canto, non è la minaccia di gravi danni alla persona, all’onore o agli averi. L’offrire a determinate condizioni di compenso l’opera di alcuni per assicurare il pieno successo del debutto di una cantante, non è materiale della estorsione. L’indursi dopo un primo rifiuto a sborsare il compenso richiesto pel timore delle conseguenze di un insuccesso non rappresenta un consenso strappato alla vittima dalla violenza dell’agente, ma un adattamento alle circostanze dell’ambiente ed al costume invalso.
2° La violazione dell’art. 323 n. 3 p. p., in relazione agli art. 409, 413, 154, 61, 63 e 64 c. p., perchè la Corte non ragionò sopra le distinte ipotesi reato dedotte coll’appello, cioè: a) se ammessa l’incussione del timore di un insuccesso teatrale, si avesse la violenza diretta ad aver cosa per nessun titolo dovuta, o una limitazione della libertà di adottare o respingere l’aiuto di chi garentiva il successo; b) se il timore dell’insuccesso potesse considerarsi un inganno del danneggiato nel valutare la potenza di quei tali offerenti, o l’effetto di una violenza esercitata su lui; c) se il passaggio del biglietto nelle mani di uno degli imputati alla presenza dei delegati di p. s. potesse rappresentare lo spossessamento del danaro da parte della vittima, ossia la consumazione del reato; d) se l’intervento del Burresi, che tenne compagnia al Toci, rappresenti concorso di correo o di complice.
Osserva, quanto al mezzo principale ed al primo dei mezzi aggiunti, che la censura che si muove alla Corte d’appello, per aver ritenuto nel fatto i caratteri del delitto di estorsione, non ha fondamento giuridico.

Amina, cammina sonnambula su un precario cornicione. Disegnata da William de Leftwich Dodge nel 1889
La Corte ritenne, e giustamente, che, quando si costringe alcuno, come nella specie, a mettere a disposizione del colpevole danaro od altre cose sotto la minaccia che altrimenti non si sarebbe garantito il successo di una giovane artista, si ha la figura di estorsione e non di altro delitto. Infatti, se ben si consideri, non manca alcuno degli estremi che costituiscono l’estorsione ai sensi dell’art. 409 cod. pen., sia che si guardi alla incussione del timore di un grave danno materiale e morale, com’era quello di un insuccesso, che per la debuttante specialmente significava, al dire della Corte, la completa ed irrimediabile rovina della propria carriera artistica, sia che si guardi al costringimento che ne seguì, se per effetto dell’incusso timore la somma richiesta fu messa a disposizione degl’imputati, sia che si guardi infine all’intenzione che ebbero di costringere altrui a consegnare una cosa che non era loro dovuta.
Nè ad escludere il delitto può dirsi con l’uno dei ricorrenti che la somma pretesa era la retribuzione di un servizio, che tornava a gran vantaggio dell’artista, perchè il servizio cui si accenna, nonché richiesto, veniva imposto, come si è detto, con violenza.
Che il secondo dei mezzi aggiunti non è più fondato che il primo. E di vero le due prime deduzioni, oltre che importano una indagine di fatto, debbono reputarsi escluse dal momento che la Corte di merito ritenne che la violenza vi fu pel timore di gravi danni morali e materiali, cioè all’onore ed agli averi, come quello che fu incusso al Virgilio con la minaccia di un insuccesso.
Per questi motivi, rigetta il ricorso.
(Il foro italiano, 27, II, 1902, 321)