Due anni prima che l’Italia si dotasse di una legge sull’aborto, l’opinione pubblica venne agitata da un tragico evento. Era il 10 luglio del 1976 quando una fuoruscita di gas tossico da un impianto chimico colpì le comunità di diversi comuni presenti tra Meda e Seveso, con effetti sulla salute pubblica che sono ancor oggi oggetto di studi. Non ci furono morti nell’immediato, ma che fare con le donne in gravidanza che furono esposte ad agenti altamente tossici e potenzialmente idonei a generare malformazioni nei feti? Si sviluppò un dibattito serrato che finì per accelerare l’emanazione di una legge sull’IVG che vedrà la luce nel 1978.
Chi crede nelle superstizioni vedrà sicuramente nel 1976 una delle prove del fatto che gli anni bisestili portano sciagure… Scoppia nel febbraio lo scandalo Lockheed, che porterà due anni dopo Giovanni Leone a dimettersi dalla presidenza della Repubblica, un mese dopo una crisi monetaria porta la Lira ad essere svalutata del 12%. Nel frattempo in Friuli (il 6 maggio) un terremoto causa quasi 4000 tra morti e feriti oltre a decine di migliaia di sfollati, dando inizio a una delle più serie emergenze abitative conosciute dall’Italia nel secondo dopoguerra. Il tutto, naturalmente, sullo sfondo della sanguinosa lotta terroristica delle Brigate Rosse contro lo Stato, che avrà il suo culmine nel 1978 con il rapimento e l’uccisione del presidente del Consiglio Nazionale della DC Aldo Moro.
In questo contesto, già di per sé drammatico, si verificò una nuova disgrazia il 10 luglio 1976: a Meda, nello stabilimento della ICMESA (Industrie Chimiche Meda Società Azionaria), vennero rilasciate nell’atmosfera un’imprecisata quantità di sostanze chimiche altamente tossiche per scongiurare il rischio dell’esplosione di uno dei reattori della fabbrica. Si trattava principalmente di una nube di diossina, che non interessò solo Meda ma finì per colpire pesantemente le popolazioni dei comuni di Cesano Maderno, Limbiate, Desio e, soprattutto, Seveso.
Non ci furono morti, ma le conseguenze sulla salute pubblica e sul territorio furono comunque gravi: centinaia di persone colpite da dermatosi, migliaia di animali abbattuti perché contaminati, migliaia di ettari di terreno disseccato a causa dell’elevato effetto diserbante degli agenti chimici liberati nell’ambiente.
In ogni caso, se paragonato ad altri incidenti industriali assai più celebri e mortali, quello di Seveso potrebbe a prima vista sembrare non così drammatico. Eppure (anche al netto delle importanti conseguenze sanitarie che ancor oggi perdurano sulla popolazione locale) proprio questo avvenimento ha rappresentato un momento fondamentale nella storia dell’ordinamento giuridico italiano. Non per quanto riguarda la sicurezza degli impianti industriali o la tutela dell’ambiente (come si potrebbe a primo acchito essere portati a pensare) bensì per il peso avuto nel dibattito che da qualche anno scuoteva ormai l’opinione pubblica sull’opportunità di ammettere l’interruzione volontaria della gravidanza anche in Italia.
Che fare infatti con le centinaia di donne in stato di gravidanza che vivevano nei comuni esposti alla nube tossica?
Nemmeno un anno e mezzo prima, nel febbraio 1975, la Corte Costituzionale presieduta dal costituzionalista e futuro Guardasigilli DC Francesco Paolo Bonifacio, aveva dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 546 c.p. (abrogato nel 1978 dalla legge 194 sull’IVG e che puniva il procurato aborto di una donna consenziente) nella parte in cui non prevedeva «che la gravidanza possa venir interrotta quando l’ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre» (Sent. Corte Cost. 27/1975).
In questo modo la Consulta aveva già reso possibile le interruzioni di quelle gravidanze caratterizzate da un rischio grave per la salute della madre.
Tuttavia gli episodi di Seveso sembravano non rientrare in questa casistica: l’esposizione alla diossina avrebbe infatti potuto provocare un rischio per la salute del feto, ma in che modo l’interruzione della gravidanza avrebbe potuto scongiurare un danno medicalmente accertato per la madre? Oltretutto, a causa della poca letteratura scientifica esistente, non vi era neppure la certezza che l’esposizione alla diossina sull’uomo potesse avere effetti teratogeni.
Inevitabilmente si generò un dibattito serrato a tutti i livelli: siamo d’altronde nell’anno in cui Emma Bonino (confondatrice a Milano nel 1973 del Centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto) riesce a entrare con il Partito Radicale in un Parlamento già difficoltosamente impegnato alla costruzione di una legge regolatrice dell’aborto (è dell’aprile 1976 – tre mesi prima di Seveso – l’approvazione alla Camera di un emendamento molto restrittivo del democristiano Flaminio Piccoli che limitava il ricorso all’aborto ai soli casi terapeutici o di stupro).
Il 2 agosto Nicola Adelfi dalle pagine del La Stampa suggeriva addirittura di rendere il ricorso all’aborto obbligatorio per le donne esposte alla nube tossica, così da vincerne le resistenze affettive, religiose e sociali; rispondeva idealmente Il Giornale di Montanelli circa un mese dopo, parlando apertamente del rischio che gli aborti di Seveso finissero per essere esempi di eugenetica, non sussistendo rischi per la salute delle madri ma semmai esclusivamente per i nascituri. Si fece sentire anche la Chiesa meneghina tramite il suo arcivescovo e cardinale Giovanni Colombo che da un lato rese pubblica l’offerta ricevuta da diverse famiglie cattoliche milanesi dichiaratesi pronte ad adottare un bambino che fosse nato con delle malformazioni e che dall’altro si fece promotore di diverse iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica della sua diocesi sul tema.
Nel frattempo, il 29 luglio, in Parlamento le due deputate radicali Emma Bonino e Susanna Agnelli avevano chiesto apertamente al Governo di ammettere alla popolazione colpita il ricorso all’aborto. Il giorno successivo l’assessore alla sanità della Lombardia Vittorio Rivolta decise di consentire alle donne in gravidanza coinvolte nell’incidente di essere esaminate presso la Clinica Mangiagalli di Milano e di poter a loro scelta abortire alla luce dei risultati emersi nel corso degli esami. Di lì a pochi giorni (11 agosto), d’intesa con il Governo, il ministro della Giustizia Francesco Paolo Bonifacio, lo stesso che aveva presieduto la Consulta un anno prima e dichiarato la parziale illegittimità del reato di “aborto di donna consenziente”, riconosceva espressamente che i casi di Seveso potevano rientrare in quelli di aborto terapeutico. Questa decisione fu presa anche sulla base del parere espresso dalla commissione medica nominata per valutare i rischi dell’esposizione alla diossina sulla popolazione che non escludeva la possibilità di conseguenze negative sullo sviluppo dei feti.
Da un punto di vista “giuridico” la questione si concluse in questo modo: alle donne di Seveso e degli altri comuni coinvolti fu consentito di interrompere delle proprie gravidanze. Le donne che decisero di abortire furono infine solo 35 (almeno in Italia, perché alcune scelsero di andare in cliniche estere). Molte di esse dovettero affrontare esperienze umanamente degradanti, acuite da un sistema sanitario e sociale di riferimento ideologicamente ostile alla loro scelta, e rese ancor più penose dalla successiva notizia dei risultati delle analisi giunte dall’Istituto di Patologia dell’Università di Lubecca che non ravvisarono alcuna evidenza rilevabile di malformazione nei feti. Certo, non si poteva escludere che nel corso della gestazione non sarebbero potute comunque insorgere altre complicazioni, ma fortunatamente le altre gravidanze che vennero continuate portarono alla nascita di 76 bambini sani.
Due anni più tardi, con la legge del 22 maggio 1978 n. 194, anche l’Italia si è dotata di una legge per disciplinare i casi e le modalità in cui è ammesso il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza; un risultato politicamente e socialmente importante, reso possibile anche grazie all’impatto avuto dal disastro di Seveso.
Questa drammatica vicenda, che ha caratterizzato il dibattito pubblico italiano su un tema dalle delicatissime implicazioni etiche e sociali, non può tuttavia non suscitare alcune riflessioni di fondo sull’atteggiamento tenuto in primis degli organi politici e in secundis di quelli di informazione. Riflessioni che paiono, purtroppo, ancora di una certa attualità.
Del comportamento tenuto dal Parlamento e dal Governo sulla possibilità o meno di consentire l’aborto alle donne coinvolte colpisce innanzi tutto la strisciante tendenza a non decidere, né in un senso né nell’altro. Da un lato ci si è ben guardati dall’affrontare il tema effettivo, ovvero quello dell’accesso all’aborto in caso di rischio di malformazione del feto, ma dall’altro nemmeno i due Governi a guida democristiana che si avvicendarono tra il mese di luglio e agosto 1976 (presidenti del Consiglio erano Aldo Moro – fino al 30 luglio – e poi Giulio Andreotti) se la sentirono di portare con coerenza alle estreme conseguenze la loro posizione sul tema, vietandolo tout court salvo rischi di salute per la madre. Si optò invece per far rientrare nel concetto di aborto terapeutico a favore della madre (così come delineato nella sentenza della Corte Costituzionale del 1975) situazioni che oggettivamente erano diverse, con risultati paradossali: coloro che volevano accedere all’aborto venivano di fatto forzate a dichiarare che il pensiero di avere un figlio con problemi di salute le esponeva a rischi di natura psichiatrica.
Quantomeno va dato atto che una presa posizione governativa ci fu, differentemente da quanto capita oggi su tanti temi etici sui quali la politica decide pilatescamente di scaricare sempre più spesso il problema sulla magistratura.
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Quanto agli organi di informazione si può osservare che il pressing mediatico di quei mesi se ha avuto l’effetto di imporre alla politica una seria riflessione su un problema sociale non più rimandabile si è caratterizzato per posizioni violente, allarmistiche e spesso non suffragate da dati medici oggettivi: su giornali nazionali si parlava senza mezze misure del rischio di partorire dei “mostri”, si paragonava la zona interessata dalla nube tossica al Vietnam e si adombrava la possibilità che le conseguenze sulla salute sarebbero state superiori di quelle registrate a Hiroshima dopo la bomba nucleare…
Nessuna mezza misura, tante finte certezze, molto clamore e pochissimi dati scientifici… un vero e proprio terrorismo psicologico e una ricerca del “sensazionalismo” che purtroppo troviamo ancora spessissimo nei media e che se è da biasimare sempre appare ancora più odioso quando ha conseguenze dirette e dolorosissime sulla vita concreta delle persone.
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