Il caso Furman v. Georgia ha fatto credere agli Stati Uniti nel 1972 che la pena capitale non sarebbe mai più tornata in vigore. Contro questa aspettativa, invece, quattro anni dopo la stessa Corte suprema, in Gregg v. Georgia, statuì la costituzionalità della pena di morte. Furman v. Georgia non è solo un caso sulla costituzionalità della pena di morte, ma anche sui “dilemmi” che i giudici sono chiamati ad affrontare quando devono pronunciarsi su un problema costituzionalmente “controverso”, moralmente “impegnativo” e politicamente “dibattuto”.
Gli Stati Uniti sono noti per essere tra i Paesi occidentali l’unico ad ammettere ancora la pena di morte. Per essere precisi, non tutti gli Stati della federazione si trovano in questa posizione: dei 50, infatti, 23 hanno abolito il ricorso alla pena capitale (il primo a farlo fu il Wisconsin, nel 1853; l’ultimo la Virginia, nel 2021; dal 2007, ben 11 Stati si sono aggiunti alla lista degli “abolizionisti”). La pena di morte è dunque legale a livello federale e in 27 Stati: di questi, però, solo 21 possono farvi ricorso, mentre gli altri 6 sono limitati da una serie di moratorie; dei 21, 13 vi fanno regolarmente ricorso, mentre nei restanti 8 non si esegue una condanna a morte da almeno 10 anni.
Al netto dei profili politici e sociali, l’aspetto più interessante della vicenda per un giurista è la questione della costituzionalità o meno della pena di morte. Come noto, l’VIII emendamento alla Costituzione federale vieta di «infliggere pene crudeli e inconsuete», e la giurisprudenza della Corte suprema federale – almeno a un livello enunciativo dei principi guida – ha affermato che questa clausola deve essere interpretata secondo «the evolving standards of decency that mark the progress of a maturing society» (Trop v. Dulles, 1958).
Proprio facendo riferimento a questo parametro, diverse sono state le voci che hanno affermato che la pena di morte sarebbe da considerarsi colpita da una sorta di incostituzionalità “sopravvenuta”, attesa l’evoluzione dei costumi della società contemporanea. Tuttavia, la posizione a oggi prevalente tra i giuristi americani è che la pena di morte non possa dichiararsi incostituzionale, quantomeno tout court, dal momento in cui esistono innegabili indici normativi nel testo della Costituzione che ne presuppongono la legittimità (certamente senza imporla): la celebre due process clause (V e XIV emendamento), per esempio, ammette la privazione non solo della libertà e della proprietà, ma addirittura della vita, purché si osservi un regolare processo.
Un momento centrale nella storia “costituzionale” della pena di morte è stato rappresentato da Furman v. Georgia, caso deciso il 29 giugno 1972. Con quella sentenza, la Corte suprema – con una maggioranza di 5 a 4 – affermò, con toni alquanto generici, che il ricorso alla pena di morte fosse in violazione della clausola dell’VIII emendamento sul divieto di trattamenti crudeli. Tuttavia, la maggioranza non fu in grado di articolare una motivazione comune a sostegno della decisione.
Tre giudici (Stewart, White, Douglas), con la controlling plurality, statuirono che la pena di morte fosse da considerarsi incostituzionale in ragione delle modalità concrete (ritenute irrazionali e imprevedibili) con cui questa veniva applicata. In particolare, Justice Stewart osservò che «These death sentences are cruel and unusual in the same way that being struck by lightning is cruel and unusual. For, of all the people convicted of rapes and murders in 1967 and 1968, many just as reprehensible as these, the petitioners are among a capriciously selected random handful upon whom the sentence of death has in fact been imposed».
Dal canto loro, gli altri due giudici in maggioranza (Brennan e Marshall) affermarono che la pena di morte fosse sempre e comunque, dunque a prescindere dalle modalità di irrogazione, incostituzionale.
Di contro, la minoranza (composta dal Chief Justice Burger e dagli Associate Justices Blackmun, Powell e Rehnquist) affermò la costituzionalità della pena di morte, osservando che ben 40 dei 50 Stati la ammettevano in quel momento, pertanto contraddicendo l’idea che gli standard comuni della società si fossero orientati verso il suo superamento.
Furman ha avuto l’effetto di imporre una moratoria a livello nazionale sulla pena di morte. A ben vedere, nella decisione potrebbe ritrovarsi un po’ della logica che Alexander Bickel ha sviluppato a proposito del “dialogo” tra Parlamento e Corti, quale meccanismo di controllo della cosiddetta “counter-majoritarian difficulty” (si veda il suo The Least Dangerous Branch, 1962). Secondo Bickel, infatti, a fronte di un problema costituzionalmente “controverso”, moralmente “impegnativo” e politicamente “dibattuto”, i giudici dovrebbero fondare la declaratoria di incostituzionalità, là dove necessaria, su basi quanto più “minime” possibili (preferibilmente procedurali), così da non soffocare il dibattito democratico, al contempo “orientandolo” verso la soluzione, costituzionalmente ma anche politicamente, preferibile. Un judicial restraint, dunque, che non sia però judicial abdication.
La maggiore preoccupazione di Bickel è che, nella inevitabile tensione storica tra le ristrettezze del presente e le vocazionali aspirazioni a una “perfetta” giustizia («a tension between principle and expediency», ma si potrebbe anche parlare di tensione tra «senso costituzionale e senso comune»), una Corte che dimentichi la prudenza e indossi i panni di un riformatore d’eccezione finisca per essere più dannosa che benefica. D’altronde, per citare uno tra i giudici più “restrained” di sempre, Justice Marshall Harlan II, «The Constitution is not a panacea for every blot upon the public welfare. Nor should this Court, ordained as a judicial body, be thought of as a general haven for reform movements» (Reynolds v. Sims, 1964).
Proprio per questi motivi, Bickel invita i giudici – come già detto – ad evitare di decidere nel senso della incostituzionalità ogni qualvolta sia possibile farlo o di pronunciare l’illegittimità là dove sia necessario avendo cura di circoscriverne la portata il più possibile, facendo ricorso alle cosiddette «passive virtues», ovverosia a quelle «techniques that allow leeway to expediency without abandoning principle». Più precisamente, l’idea bickeliana si adagia su una constatazione di fatto: poiché approvare una legge è un processo complicato, specie dopo una pronuncia di incostituzionalità, gli incentivi politici a muoversi in questo senso si darebbero solo a fronte di una pressione dell’elettorato per così dire “irresistibile”, contro cui le Corti potrebbero fare ben poco; per cui, assente questa pressione, il dibattito pubblico potrebbe accettare la portata della sentenza – farvi acquiescenza – e non tornare più sul tema.
Riflettere criticamente sui pregi e sui difetti della teoria bickeliana richiede ben altri spazi; tuttavia, applicando le coordinate prima sintetizzate a Furman, è possibile affermare che i giudici della Corte avessero scommesso sul fatto che, a seguito della sentenza, il popolo americano avrebbe semplicemente “lasciato perdere” la questione della pena di morte, indirizzando la propria attenzione verso altri temi. Proprio all’indomani di Furman, infatti, un noto opinionista politico, Barry Schweid, commentò la sentenza affermando che sarebbe stato «altamente improbabile» che la pena di morte avrebbe potuto essere applicata nuovamente negli Stati Uniti.
Invece, nei quattro anni successivi alla pronuncia in Furman, ben 37 Stati approvarono nuove leggi sulla comminazione della pena di morte, adeguandosi specialmente ai rilievi critici della controlling plurality, così confermando quanto i dissenters in Furman avevano sospettato circa il diverso orientamento della società americana del tempo. Investita nuovamente delle questioni di costituzionalità, e preso atto dell’esistenza di quella pressione elettorale “irresistibile”, la Corte suprema – in Gregg v. Georgia (1976), con una maggioranza di 7 a 2 – affermò che le nuove norme rispettavano la clausola dell’VIII emendamento, per l’effetto interrompendo la moratoria che Furman aveva imposto sull’esecuzione delle condanne capitali.
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Dell’originaria maggioranza in Furman, solo i giudici Brennan e Marshall confermarono la propria idea sulla incostituzionalità della pena di morte, mentre il resto dei giudici statuì che la pena di morte non avrebbe violato la clausola dell’VIII emendamento se irrogata in forza di criteri oggettivi e prevedibili e dopo aver preso in considerazione la persona del reo. Proprio Justice White – che aveva sottoscritto la controlling plurality in Furman – osservò che la reazione degli Stati della federazione alla precedente sentenza non potesse essere sottovalutata e sostituita d’imperio con il giudizio della Corte, dal momento in cui la Costituzione non impone espressamente l’abrogazione della pena di morte. (Curiosamente, molti anni dopo la pronuncia in Gregg, sia Justice Blackmun che Justice Stevens rinnegarono pubblicamente il proprio voto a favore della non incostituzionalità della pena di morte.)
Come già anticipato, a seguito di Gregg v. Georgia gli argomenti sulla incostituzionalità della pena di morte hanno perso gran parte del loro peso: vero è che la Corte è negli anni intervenuta per eliminare alcuni degli aspetti più controversi della pena capitale (con Roper v. Simmons [2005], ad esempio, fu dichiarata incostituzionale la pena di morte nei confronti dei minorenni), ma in generale sembra ormai acquisito che la via verso la sua (auspicabile) abolizione passi non dalle sentenze, ma dal responso delle urne elettorali. È certo che questo significa sacrificare alle esigenze del presente le aspirazioni di giustizia del futuro (nonché – occasionalmente – sanzionare decisioni che violano il proprio personale senso di moralità): tuttavia, per tornare proprio a Bickel, «[no] society, certainly not a large and heterogeneous one, can fail in time to explode if it is deprived of the arts of compromise, if it knows no ways of muddling through. No good society can be unprincipled; and no viable society can be principle-ridden».
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