Fino al 1863 le donne non poterono entrare negli uffici del telegrafo. Ma quando finalmente la legge lo concesse, impose alle telegrafiste di non sposarsi mai. Vi raccontiamo gli anni delle loro lotte e conquiste.
È il giugno 1847 quando l’Italia viene investita da una grande novità: il professore di fisica Carlo Matteucci, fatti venire macchine e fili conduttori dall’estero, dopo alcuni mesi di lavoro lungo la Leopolda inaugura con successo tra Pisa e Livorno il primo telegrafo d’Italia.
Nei mesi a seguire sarebbe toccato a Firenze, Lucca, Siena, Prato. Nel 1849 iniziano i lavori per introdurre il sistema telegrafico nel Lombardo-Veneto, a Trieste viene aperto il primo ufficio telegrafico e il servizio è tra i più rapidi d’Europa.
Negli anni successivi tutti gli Stati pre-unitari (Stato Pontificio compreso) si dotarono di quella sfolgorante nuova tecnologia e nel 1961, a Italia fatta, c’erano 355 uffici telegrafici per 16.000 km di linee.
Cosa serviva per lavorare come telegrafista? Nessun particolare requisito tecnico: in base ai regolamenti dell’epoca era sufficiente essere regnicolo, aver compiuto la maggiore età e aver sempre tenuto una buona condotta. Ma, soprattutto, essere uomini.
Essendo considerato un “pubblico ufficio”, infatti, inizialmente il lavoro al telegrafo era precluso alle donne. Soltanto qualche anno dopo venne aperto l’accesso, ma solo a speciali condizioni. Con il Regio Decreto n. 1137 del 25 gennaio 1863 furono ammesse anche le vedove e le orfane di ex impiegati.
Per essere assunte, dunque, bisognava godere (anzi, in questo caso sarebbe meglio dire soffrire) di una particolare situazione familiare: aver perso un parente stretto impiegato, e poterlo così sostituire. Una condizione che venne imposta anche pochi anni dopo quando, con il Regio Decreto 18 settembre 1865 che approvava il nuovo Regolamento per l’Amministrazione delle Poste, grazie all’articolo 40 le donne fecero la loro prima entrata come commesse anche negli uffici postali di terza classe. Anche in questo caso, era possibile solo se si erano ritrovate vedove, orfane o sorelle nubili di impiegati defunti.
Queste limitazioni vennero meno con il Regio Decreto n. 1385 del 22 maggio 1873, quando tutte le donne furono ammesse alla mansione di ausiliarie telegrafiche anche negli uffici principali. Una conquista dell’emancipazione femminile? Non del tutto. Per le telegrafiste, infatti, era previsto uno stipendio più basso degli uomini (il gender pay gap ha una storia aziendale inveterata), era esclusa la possibilità di fare carriera ed era prescritto il licenziamento in caso di matrimonio.
Le telegrafiste, insomma, erano costrette a fare le vestali dell’ufficio e non potevano ambire a formarsi una famiglia: tutta la loro energia doveva essere dedicata al lavoro. Tutti i giorni (e talvolta anche di notte), anche a Natale, a Pasqua, a Capodanno, senza tutele, senza nemmeno la pensione.
Il perché di questa imposizione è presto detto (anche le domande degli HR in sede di colloquio sul progetto di avere dei figli hanno una storia aziendale inveterata). La maternità sarebbe stata un costo eccessivo, per cui ne veniva esclusa a priori la possibilità.
Anche all’epoca, però, si architettavano delle ragioni fantasiose per giustificare una scelta tanto abietta. E la scusa ufficiale era che le donne avrebbero potuto violare il vincolo di segretezza che il lavoro imponeva rivelando ogni fatto al marito.
Così le eterne signorine (o suore, che dir si voglia) del telegrafo rappresentavano un ottimo affare per lo Stato: costavano meno degli uomini e rendevano anche di più. Presto, infatti, ci si rese conto che di norma erano più veloci, più efficienti, più puntuali (anche perché a ogni minuto di ritardo la penale trattenuta dallo stipendio era salatissima).
Il lavoro era estenuante, ma per molte era la sola alternativa alla miseria. «Le trattavano come tante bestie da soma», scrisse Matilde Serao nella novella Telegrafi dello Stato, che raccontava le vicende, le fatiche e le speranze di un gruppo di telegrafiste. Il racconto era ispirato alla sua esperienza personale: dal 1874 al 1877, la futura giornalista e scrittrice aveva lavorato come telegrafista alle Poste Centrali di Napoli.
In Parlamento le telegrafiste avevano pochi alleati, ma uno di essi era l’onorevole Salvatore Morelli, uno dei più importanti sostenitori del movimento femminista in Italia di fine Ottocento (presentò alla Camera numerosi progetti di legge che non furono mai neanche discussi, il suo unico successo fu la Legge Morelli del 1877 che ammise le donne a testimoniare negli atti pubblici e privati). Il 12 dicembre 1876 Morelli introdusse per la prima volta alla Camera il discorso sulla revisione del divieto alle telegrafiste di sposarsi. Gli altri deputati reagirono di primo acchito con un moto di ilarità.
Senza lasciarsi distrarre, Morelli continuò deciso: si è lasciata da parte l’idea del celibato nelle caserme, perché si deve insistere con il nubilato telegrafico? Altro moto di ilarità.
A quel punto il Ministro per i lavori pubblici rispose che non esisteva proprio nessun divieto nel regolamento e liquidò lì la questione. In effetti, nel regolamento per gli impiegati stabili quel divieto non c’era: ma il punto è che le telegrafiste erano ipocritamente mantenute in una situazione di costante precariato.
Perché venisse riaperto il discorso si dovette aspettare la tornata del 29 giugno 1895, quando gli onorevoli Ettore Socci (altro importante sostenitore della causa femminile, che si batté per far ammettere le donne all’avvocatura) e Nicola Vischi riportano all’attenzione del Parlamento sia il problema del divieto di matrimonio delle telegrafiste sia quello non meno grave dell’assenza di una pensione.
In quel lasso di anni, infatti, le telegrafiste erano state finalmente parificate a impiegate stabili, però in caso di matrimonio la soluzione che è stata ingegnata era di concedere loro una liquidazione pari a un mese di stipendio. Una specie di dote nuziale, e chi si è visto si è visto. La cosa, a parere di Socci, era immorale e inumana, e l’onorevole non mancò di far notare che le telegrafiste donne erano anche più brave degli uomini. Anche Vischi denunciò le ipocrisie del mondo del lavoro fatto dagli uomini per gli uomini e citò il caso tanto disonesto quanto ridicolo di un preside di scuola che aveva raccomandato alle maestre di partorire durante le vacanze estive (anche in questo caso sugli atti parlamentari leggiamo il commento tra parentesi si ride).
A Socci e Vischi si associò anche l’onorevole Andrea Sola Cabiati: la motivazione di facciata per il divieto di matrimonio, cioè che attenterebbe al segreto professionale, è del tutto risibile. Quando mai le donne rivelano i loro segreti proprio ai mariti? Si direbbe piuttosto che si confidano con tutti tranne che con i propri mariti.
Alla discussione si aggiunse poi Carlo Papa, il quale affermò che mentre ammettere il matrimonio non sarebbe un grave peso economico troppo grave da sostenere per lo Stato, la pensione purtroppo sì: sarebbe un’utopia se lo Stato riuscisse a garantire la pensione a tutti gli impiegati. Ce ne sono tanti altri che stanno pure peggio delle telegrafiste. E le ragioni del denaro chiusero definitivamente la discussione.
Si dovette attendere fino al 1899 perché la riforma del Ministro delle Poste e dei Telegrafi Nunzio Nasi eliminasse finalmente l’obbligo del nubilato per le ausiliarie telegrafiche, e addirittura il 1907 perché, dopo lunghe e dure lotte, anche le telefoniste e le dattilografe ottenessero la stessa libertà di sposarsi. In alcune amministrazioni provinciali, tuttavia, il divieto rimase più a lungo: a Milano era il 12 aprile 1912 quando il Consiglio della provincia deliberò che
il matrimonio non deve essere considerato ostacolo per la prestazione d’opera agli uffici della Provincia da parte delle dattilografe.
Quanto alla conquista della pensione, ci sarebbero voluti ancora altri anni di lotte. Il primo passo verso la giustizia fu compiuto nel 1907 dalla signorina Patanè, anziana telegrafista ausiliaria di Palermo, che con l’aiuto di tutte le colleghe riuscì a portare il suo caso dinanzi al Consiglio di Stato.
Ma questa è un’altra storia e – magari – la racconteremo un’altra volta.
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