Il 21 ottobre 1860 in quello che si apprestava ormai a essere l’ex Regno delle Due Sicilie si teneva la votazione per l’annessione al Regno d’Italia sotto Vittorio Emanuele II.
Il quesito era il seguente: Il popolo vuole l’Italia Una e Indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e i suoi legittimi discendenti?
Il voto non era segreto: i seggi prevedevano due urne, una dove deporre il voto per il No, l’altra per il Sì. Il 99% dei votanti si espresse a favore del Sì. Non intendo soffermarmi sulle modalità con il quale si svolsero le votazioni, nè scatenare polemiche revisioniste o controstoriografiche, ma fatto sta che quel giorno il meridione si ritrovò italiano, anzi piemontese.

plebiscito sull’annessione delle province napoletane al Regno d’Italia
La storia di quegli anni è legata a doppio filo con un fenomeno da tempo invalso nel meridione e che da sempre i vari governi succedutesi avevano provato a contrastare: il brigantaggio.
Ecco come lo storico Monnier parlava del brigantaggio e delle sue origini:
In queste contrade vi furono sempre briganti. Aprite le istorie, e ne troverete sotto tutti i regni, sotto tutte le dinastie, dai Saraceni e dai Normanni fino ai nostri giorni; le strade fra Roma e Napoli non furono mai abbastanza sicure. Immaginate dunque cosa dovesse essere la parte interna e meno frequentata di queste provincie: era un ricettacolo di assassini. Tutto favoriva il brigantaggio: e la stessa configurazione del paese, coperto di montagne, e le idee del governo, che di quelle montagne non davasi cura, nè vi apriva gallerie, nè vi tagliava strade: vi hanno distretti intieri per i quali non è ancora passata una carrozza: vi hanno sentieri, che i muli non si arrischiano di percorrere (Sul Brigantaggio nelle provincie napoletane, Firenze, 1862).
Nei convulsi eventi che condussero all’unità i briganti venivano visti come una sorta di partigiani della resistenza borbonica antipiemontese. E in effetti, moltissime popolazioni elessero i briganti come propri paladini nel corso di intense quanto brevi sommosse contro chi era comunque vito come invasore.
Ma di tutte le storie dei briganti quella più nota è sicuramente quella di Carmine Crocco, ancora oggi ricordato come il “Napoleone” dei briganti.
Parte di questa storia ci è narrata quasi in tempo reale ancora dal Monnier che introduce la figura di questo brigante quando era nel fiore dei suoi anni e delle sue scorribande.
Siamo nel 1862 e Crocco ha 32 anni: “Carmine Donatelli di Rionero, soprannominato Crocco. Era un forzato evaso, fin d’ allora colpevole di 30 delitti: 15 furti qualificati e consumati; 3 tentativi di furto; 4 carceri piavate; 3 omicidi volontari, 2 omicidi mancati, bestemmie, resistenza alla forza pubblica ec. ec.”
Tra il 7 e l’8 aprile 1861 la banda di briganti capeggiata da Crocco assalì Ripacandida, in Basilicata. Si impadronirono della guardia, fecero suonare le campane, issare bandiere bianche e nominarono un governo provvisorio (tutto questo dopo avere tra l’altro trucidato il capitano e restituitone il cadavere alla figlia solo dopo l’esborso di una forte somma di denaro).

Il brigante Carmine Crocco
L’insurrezione scoppiò successivamente anche nella più grande Venosa, patria di Orazio. La città era più preparata alla resistenza, circondata da barricate e con militari pronti a difenderla assiepati sul castello e sul campanile. La mattina del 10 aprile giunsero i briganti, erano 600, 150 armati di fucili, il resto di zappe e di scuri. I cittadini si schierarono con i briganti e la città fu presa. Crocco ne ordinò il saccheggio e – come ricorda il Monnier – “ciò che non si potè portare, fu bruciato; non si risparmiarono le finestre e le porte“. Il saccheggio durò tre giorni, a tutti i notabili furono estorti denari e chi non volle pagare veniva fucilato in piazza.
Il 14 aprile la banda lasciò Venosa diretta a Melfi, passando per Lavello, Avigliano, Ruoti e altri paesi. Tutte le volte i primi ad accorrere festanti all’arrivo dei briganti erano gli uomini di chiesa, preti, arcipreti e vescovi, che malvedevano l’operazione politica dell’unità. Crocco entrò a Melfi tra una folla festante che lo acclamava come fosse il capitano dell’esercito di Francesco II, dopodiché – continua lo storico – “impose tasse a tutti, levò balzelli e riempì le sue casse: furono eseguiti i suoi ordini, sotto pena della fucilazione. Egli dettava leggi a guisa di dittatore“. Quandò però seppe dell’arrivo dei soldati piemontesi, il brigante scappò via e a Melfi ritornò l’ordine.
I briganti si ritirarono verso l’Irpinia, cioè casa mia, dove assalirono Monteverde, Carbonara (già teatro di violente sommosse all’indomani del plebiscito), Calitri (dove anni prima era stata esposta la testa mozzata del brigante Angiolillo, secondo l’usanza borbonica) e Bisaccia.
Anche a causa delle continue sommosse, fu istituita una commissione parlamentare di inchiesta che fu curata dai deputati Massari e Castagnola. Nella prefazione alla relazione del 1863 si legge:
Il brigantaggio nelle province meridionali è da tre anni, e voglia il buon genio d’Italia che presto non lo sia più una delle piaghe più dolorose del nostro paese; uno di que’ mali che più contristano, e che impediscono d’essere intera alla letizia che nasce dal vedere in gran parte indipendente, libera e, dicasi pure, forte la nostra bella patria, la quale pur dianzi mirava fremendo le sue secolari catene
A seguito dell’inchiesta fu promulgata la c.d. Legge Pica (dal nome del deputato abbruzzese che la promosse), Legge 15 agosto 1863 “Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette”, in vigore fino al 1865.
Si trattava di una legge speciale, che derogava agli articoli 24 e 71 dello Statuto Albertino (principio di uguaglianza e garanzia del giudice naturale) in quanto si applicava solo a determinate province e non a tutto il Regno e perché ne demandava l’applicazione al Tribunale Militare. In base alla legge Pica, nelle provincie infestate dal brigantaggio i componenti comitiva o banda armata composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche vie o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno giudicati dai Tribunali Militari. Le pene per questi reati andavano dalla fucilazione ai lavori forzati a vita.
Le province infestate dal brigantaggio erano quelle di Abruzzo Citeriore, Abruzzo Ulteriore II, Basilicata, Benevento, Calabria Citeriore, Calabria Ulteriore II, Capitanata, Molise, Principato Citeriore, Principato Ulteriore e Terra di Lavoro.
Ma tornando al nostro Crocco. Dopo varie vicissitudini e altre scorrerie, rincorso dall’esercito e con una pesante taglia sul collo, il brigante riuscì a raggiungere nel 1864 lo Stato Pontificio, con l’intenzione di incontrare Pio IX, che aveva sostenuto la causa legittimista. Crocco fu però catturato dalle stesse guardie papali e gli fu confiscato quasi tutto il denaro che portava con sè. Nel 1870 dopo la presa di Roma si ritrovò prigioniero del Regno d’Italia. Fu processato a Potenza e nel 1872 condannato a morte, pena poi commutata nei lavori forzati a vita.
Dopo la condanna, il brigante fu recluso prima a Santo Stefano e poi tradotto nel carcere di Portoferraio, dove morì nel 1905 all’età di 75 anni, dopo averne trascorsi 40 in galera.

taglia di 20.000 lire sul Capobanda Carmine Donatello Crocco
Ora, chi segue queste pagine si aspetterebbe di ritrovare qui di seguito il testo della sentenza di condanna. Questa volta però preferisco variare sul tema e divulgare un testo a mio avviso ancor più interessante.
Si tratta di una intervista resa da Carmine Crocco nel 1903 al Prof. Ottolenghi, già assistente di Cesare Lombroso, e ordinario di medicina legale all’Università di Siena. Ottolenghi soleva accompagnare alcuni suoi allievi presso le carceri per “esaminare” gli individui più pericolosi. Una di queste visite fu fatta proprio a Portoferraio, dove era detenuto il Crocco.
Qui di seguito riporto quindi l’intervista che concesse il brigante pochi mesi prima della sua morte. Discorre di pena, di socialismo, di Garibaldi, dell’omicidio di Re Umberto, di anarchia e di Vittorio Emanuele II.
E le sue parole sono tutt’altro che scontate.
© Riproduzione Riservata
Due guardie conducono nel cortile innanzi a noi un uomo vecchio, che mal si regge in piedi, ma che tuttavia cerca di avanzarsi con una certa energia.
Il prof. Ottolenghi gli va incontro e ci presenta Carmine Donatello di anni settantasei, da Rionero in Vulture che sparse tanto terrore verso il ’60 sotto il nome di Crocco e che condannato nel 1872 a morte dalla Corte di Assise di Potenza, e poi graziato, sta ora scontando il trentottesimo anno della sua pena.
Ecco i reati pei quali fu condannato: associazione a delinquere contro le persone e contro le proprietà; formazione di bande armate nelle quali esercitò comando; furto qualificato, tre grassazioni con omicidi; quattro grassazioni semplici; nove assassinii; nove omicidi volontari; quattro ribellioni; dodici estorsioni; numero non ben determinato di saccheggi; due attentati per cambiamento di forma di Governo dal 1860 al 1864,
Ha il tipo etnico del suo paese esagerato nelle proporzioni: la sezione cranica è meno sviluppata della facciale: il segmento anteriore è sfuggente. Forte sporgenza delle ossa zigomatiche e della mandibola: asimmetria notevole della faccia a destra. Segmento superiore frontale sfuggente: glabella prominente. La mandibola è sviluppata, specie nella parte mediana, il naso grosso, gibboso è deviato a sinistra. Orecchie ad ansa, specie quella di destra.
Il professore gli domanda:
– Come state?
– Male – risponde il vecchio uomo con voce poco intelligibile.
– Quanto tempo siete stato brigante?
– Circa sei anni, due col passato Governo borbonico e quattro con questo.
– Che banda avevate?
– Di duemila uomini perfino!
– Che professione facevate?
– Quella di Abele, fratello di Caino.
– Come?…
– Il pastore, insomma…
– Quanti anni avevate quando vi deste al brigantaggio?
– Cominciai a darmi alla macchia poco dopo l’epoca della leva.
– Quanti anni sono che siete in carcere?
– Trentotto al 6 di agosto.
– Come fu che da soldato diventaste brigante?
– Per una supplica: mia madre morì nel manicomio di Aversa; io avevo quattro fratellini e sei sorelle tutti più piccoli di me, tutte creature…
Il brigante a questo punto interrompe il suo discorso perché è scoppiato in un dirotto pianto.
Il professore lo invita a mettersi in capo il berretto, ma non c’è verso di persuaderlo, Crocco vuole rimanere a capo scoperto.
– … Presentai una prima supplica a Ferdinando II perché raccogliesse quelle creature in un luogo qualunque. Non ebbi risposta. Ne mandai una seconda: nulla; allora un giorno dissi al Re, che avevo spesso occasione di avvicinare essendo soldato: o provvedi per quelle creature, o ti darò da fa’! Per questa minaccia mi fu inflitto un mese di prigione.
Appena uscito disertai, uccisi due gendarmi e mi diedi alla macchia.
Nello stesso tempo che il Crocco s’è commsso al ricordo della famiglia, quando ha raccontato delle sue minaccie e delle prima vendetta i suoi occhi hanno lampeggiato, nella sua voce, prima fioca, e nel suo gesto c’era qualcosa che rivelava l’antica fierezza. Crocco continua:
– Nel ’60 si fece la rivoluzione e noi briganti ci unimmo al Governo provvisorio.
Il prefetto del Governo venuto da Torino mi invitò a presentarmi: ma io non accettai per paura che mi facessero subire un processo e mi diedi di nuovo alla macchia.
I nemici d’Italia che stavano con occhi aperti, mi avevano proposto di muovere una reazione contro il Governo provvisorio perché sarebbe riuscito facile fare l’insurrezione; ma io alzai un giorno bandiera bianca e lasciai la partita politica per darmi di nuovo alla macchia.
– È meglio l’insurrezione politica o la macchia?
– La politica!
– Durante l’insurrezione quanti uomini voi comandavate?
– Duemila e settecento.
– Ma quando vi deste alla macchia erano molto meno i vostri sottoposti?
– Dai quattro ai sette.
– Quanti omicidi avete commesso?
– Mi accusano di molti, ma io non ne ho commessi che due.
– Come allora si dice che siete reo di tanti delitti pei quali foste dai giudici condannato?
– Perché io ero il capo e davo gli ordini di ammazzare, ma non uccidevo di mia mano. Quando era decisa la vendetta verso qualcuno, si faceva un piccolo consiglio; il tale, per esempio, non ha voluto mandare quel poco che gli chiedevamo: ebbene ammazzatelo, dicevo io! Se poi non potevano uccidere chi era stato condannato, quello non doveva però più uscire di casa!
– Che concetto avevate di Vittorio Emanuele II?
– Fu un grande eroe che fece l’Italia; egli cacciò gli stranieri, non troppa gente in casa tua portare perché il mondo è pieno di malizia ed ognuno cerca ciò che gli bisogna: cosa vogliono da noi questi Tedeschi?
– Dunque voi preferite il Governo che successe al Borbone?
– Sì, e gli sono anche riconoscente, perché mi ha fatto del bene, mi ha graziato della condanna a morte.
– Avete saputo della morte del Re Umberto? Che impressione vi ha fatto?
– Io ho pianto, davvero ho pianto di cuore; se non avessero ammazzato quell’innocente uomo, forse io morivo a casa mia, ai 6 di agosto di quest’anno avrei finita la pena; ucciso Umberto, Vittorio Emanuele III non può aver l’animo disposto a far grazie; se a me avessero ucciso il padre, io non avrei certo pensato a far del bene, ma a vendicarmi: tutti i condannati hanno detto lo stesso.
– Cosa pensate dei regicidi?
– Gente da poco.
– Sentiste mai parlare di socialismo, di anarchia?
– Sì, da qualche condannato stupido che professa queste idee, ed io mi ci sono appiccicato. E’ una cosa impossibile pensare all’anarchia; anche Sparta, Tebe, Corinto, Atene furono sotto l’anarchia, e che vantaggi ne ebbero?
– Come sotto l’anarchia?
– Sì, avevano tre giorni l’anno di anarchia completa.
– La vita del brigante è brutta?
– E’ una vita indipendente.
– Ma ammazzare gli altri?
– Il brigante è come la serpe, se non la stuzzichi non ti morde.
– Trovate giusto che l’esercito freni il brigantaggio?
– Sì: il brigante che ammazza un soldato, piange; piange pensando che è un uomo che lascia la madre, i figli
Qui il Crocco scoppia nuovamente in un pianto.
– Come credete che si potrebbe frenare il brigantaggio?
– Colla clemenza.
– Quindi bisognerebbe perdonare i briganti?
– Sì.
– Ma quando rubano, estorcono?
– Non si ruba, non si estorce in mezzo alla strada e noi teniamo in odio quello che lo fa.
– Vi capitò mai di incontrare chi lo facesse nella vostra banda?
– Sì, ma allora noi abbiamo fatto sì che il bribante cadesse in mano della legge.
– Ma tra i briganti c’è sempre di questa canaglia!
– Noi li esperimentavamo e se non la pensavano come noi, si diceva “Non ti uccidiamo perché sei una carogna”, e lo mandavamo via.
– Il carcere credete che sia utile per frenare il brigantaggio?
– Eh! ci si rassegna; nessuno si lamenta della sua condizione, ci si rassegna: ho peccato, devo scontare!
– Credete che dopo una lunga condanna si esca emendati?
– Qualche imbecille c’è sempre che rifà del male.
– Ma la maggior parte?
– Esce corretta ed emendata.
– Voi riconoscete di aver fatto del male?
– Senza dubbio, ho fatto del male alla società, ma io facevo per difendere la mia vita; per essa avrei dato fuoco a tutto il mondo.
– Lo avreste fatto: e lo rifareste?
– Eh! chi lo sa? Ora l’animo mio si commuove per l’onore che ho avuto, nella mia vecchiaia, di vedere tutti questi signori; non me lo sarei mai aspettato!
– Che ne dite della camorra?
– È la cosa più cattiva del mondo; in essa c’è un sacco di mascalzoni, di miserabili; i camorristi sono come gli anarchici, cospirano sempre, ma sono schiacciati.
– La mafia la conoscete?
– La paragono allo spurgo del mio naso: il mafioso è uno sporcaccione.
– Quale sarebbe il vostro desiderio?
– Di morire dove sono nato.
– Da giovane eravate religioso?
– All’eccesso.
– Ma il sentimento religioso non vi ha mai frenato nella colpa?
– Quando si è nella furia non si rispetta più niente; ma sempre per difendere la propria vita!
– In carcere vi ha giovato la religione?
– Sì, ma senza corona! la mia religione è qui (accennando al cuore).
– Facevate vita libertina, vi piacevano le donne?
– Sì, quando le trovavo non le lasciavo, ma non amavo molto né le donne, né il vino.
– Che cosa vi faceva più orrore?
– La morte, l’uccisione.
– Che preferivate dunque?
– Amici no; un po’ di pane di granturco e basta.
– Avevate con voi nella vostra banda qualche donna?
– No, quando si trovavano si faceva come il beccafico: si beccava e via.
– Avevano stima di voi le popolazioni della Calabria?
– Pel bene che ho fatto sì; quando passavo io tutti mi venivano appresso sicuri, io andavo avanti e dicevo: se volete esser sicuri venite dietro di me; perché io ero stuto, con uno stratagemma ero capace di andare in mezzo all’esercito nemico senza farmi riconoscere.
– Avete saputo della guerra d’Africa? Sareste voi andato volentieri a combattere laggiù?
– Sì, sarei andato anche in una fornace.
– Conosceste Garibaldi?
– Personalmente no.
– Che ne pensate di lui?
– Era un uomo audace. Quello che ha fatto Garibaldi io l’ho tutto qui nel cervello e lo ricordo minutamente.
– Se voi foste stato capo di un esercito come vi sareste comportato?
– Avrei fatto il mio dovere.
Preghiamo il brigante di apporre la sua firma in un foglio che gli presentiamo, ed egli messosi gli occhiali, lentamente scrive il suo nome, cognome e patria

firma autografa del brigante Crocco
Congedato da noi, egli di nuovo colle lacrime agli occhi ci ringrazia della visita dicendo
– Io sono vecchio, a momenti morirò; vale più questo onore che mi avete fatto che tutti gli onori del mondo.
(Romolo Ribolla, Voci dall’Ergastolo, documenti psicologici-criminali dal vero, Roma, 1903)