Hugo Lafayette Black è stato fra i giuristi americani più influenti del ventesimo secolo. Al momento della sua nomina alla Corte suprema federale (nel 1937, mentre era in carica come senatore dell’Alabama), Black non aveva grandi esperienze pregresse come professionista del diritto: a 51 anni, egli era soprattutto noto come politico di ala democratica nemico delle grandi corporation e sostenitore del New Deal rooseveltiano. Nonostante la sua iniziale impreparazione, Black riuscì a imporsi come leader intellettuale dell’area liberal della Corte suprema tra gli anni ’40 e ’60, forgiando un originale metodo interpretativo e promuovendo l’idea che il Bill of Rights vincolasse non solo il Governo federale (come fino ad allora si era affermato), ma fosse direttamente applicabile anche ai singoli Stati dell’Unione (come oggi pacificamente si ritiene).
Dopo essersi laureato, Black avviò la propria carriera d’avvocato. Nei primi anni ’20 iniziò a coltivare la prospettiva di una corsa per il seggio di senatore federale, e, per assicurarsi il sostegno necessario, entrò a far parte del Ku Klux Klan. Nel 1926, Black raggiunse l’ambito ruolo, vincendo le elezioni come Democratico: in Senato divenne uno degli alleati del Presidente Franklin Delano Roosevelt, spendendosi molto per l’approvazione della agenda politica di quest’ultimo, non solo quando si trattava dei programmi del New Deal, ma anche quando in ballo erano i suoi aspetti più controversi, compreso il famigerato Court Packing Plan. Il 12 agosto 1937, FDR lo ricompensò nominandolo alla Corte suprema, e il 17 agosto il Senato votò per confermarlo. Durante il successivo mese di settembre, però, venne alla luce l’adesione di Black al Klan: lo shock fu fortissimo, e il neo-giudice fu costretto a difendersi in un discorso radiofonico alla Nazione; Black riconobbe di aver fatto parte del Klan, ma affermò di averlo abbandonato prima di essere eletto senatore. Il discorso, durato undici minuti, fu seguitissimo, secondo, per rating d’ascolti, solo a quello di abdicazione pronunciato da Edoardo VIII.
Pressato da urgenti problemi economici, il Paese perdonò rapidamente Black e Black fece di tutto per provare di essere un uomo “nuovo”. Come giudice, infatti, fece propria una visione di judicial restraint limitato al solito ambito economico, mostrando invece una grande attenzione per i diritti sociali e le libertà civili: ciò lo fece entrare in rotta di collisione con Felix Frankfurter (nominato alla Corte da FDR nel 1939); i due – che arrivarono a odiarsi intensamente – divennero i leader di due opposte aree culturali: Black di quella più “progressista” e Frankfurter di quella più “conservatrice”. La rottura tra i due si consumò in occasione del voto sui cosiddetti Flag salute cases: durante gli anni immediatamente precedenti la Seconda Guerra Mondiale, diverse scuole locali avevano imposto ai propri studenti, come manifestazione di patriottismo, il saluto alla bandiera americana. Gli studenti Testimoni di Geova si rifiutarono, invocando la libertà garantita dal Primo Emendamento, e cercarono tutela di fronte alla Corte suprema, che però – in Minersville School Dist. v. Gobitis (1940) – gliela negò. Redattore della sentenza fu Frankfurter e con questi si associò Black. La decisione finì per scatenare una serie di violenze contro i Testimoni di Geova, accusati di essere dei traditori della Patria, e mentre Frankfurter restò convinto della bontà della sua posizione, Black rimeditò il suo orientamento. Il primo giorno del nuovo anno giudiziario successivo alla pronuncia in Gobits, Justice Douglas comunicò a Frankfurter che Black avrebbe votato, se ne avesse avuto l’occasione, per rovesciare la decisione. Infastidito, Frankfurter obiettò: «Black ha per caso riletto la Costituzione, durante questa estate?»; «No» replicò Douglas «ha letto i giornali». La Corte, infine, si strinse attorno a Black e in West Virginia State Board of Education v. Barnette (1943) ripudiò la decisione adottata qualche anno prima.
L’orientamento giurisprudenziale di Justice Black constava di una prospettiva attenta alla storia degli istituti e di un’interpretazione delle norme “letteralista” e “assolutista”. La dimensione storica affondava le radici in un amore per la lettura coltivato essenzialmente da autodidatta: Guido Calabresi, che fu assistente di Black tra il 1958 e il 1959, ha raccontato che durante il secondo giorno della sua clerkship, Black gli chiese se avesse mai letto Tacito; ricevuta una risposta negativa, il giudice commentò «then you are not a lawyer» e, dopo avergli consegnato la sua personale e annotata versione degli scritti dello storico latino, lo sollevò da ogni altro incarico finché non avesse finito di leggerla. L’impostazione “letteralista” e “assolutista” gli veniva invece dalla convinzione che l’unico modo per impedire che i giudici si arrogassero poteri non loro fosse quello di obbligarli ad applicare le norme secondo il loro plain meaning e senza spazio per bilanciamenti tra valori differenti.
L’ex membro del Ku Klux Klan divenne uno dei più celebri e celebrati difensori delle libertà individuali e ciò gli valse l’accusa – da lui sempre respinta – di essere un giudice attivista. Nondimeno, Black fu il redattore di Korematsu v. United States (1944), che dichiarò costituzionale l’internamento dei nippo-americani in appositi campi durante la Seconda Guerra Mondiale, oggi considerata tra le decisioni più errate e infelici della Corte.
Benché per la grande parte dei suoi quasi 35 anni alla Corte suprema Black fu sempre associato all’area più progressista, sul finire della sua carriera assunse posizioni più “conservatrici”, a fronte di uno scavalcamento a “sinistra” da parte dei più giovani colleghi. Questi ultimi, infatti, ripresero la tradizionale dottrina del cosiddetto substantive due process of law – che la Corte nei primi decenni del Novecento aveva impiegato per proteggere i diritti di proprietà e di iniziativa economica – e l’applicarono per dichiarare incostituzionali diverse leggi limitative delle libertà personali. Non stupisce, allora, che in Griswold v. Connecticut (1965), Black votò contro l’idea che la Costituzione tutelasse un right to privacy (diventato fondamentale, tra le altre cose, per proteggere il diritto delle donne di abortire), ritenendolo privo di una adeguata base testuale.