Scrittore, regista, poeta controverso e radicale nei suoi giudizi, Pasolini finì spesso a processo per le sue opere, accusate oscenità. In occasione del centenario dalla nascita, lo ricordiamo attraverso tre storie: il processo per il libro “Ragazzi di vita”, il sequestro da parte della magistratura romana del film “Teorema” e il tragico assassinio.
1956 – Il processo a “Ragazzi di vita”
Non nacque a Roma, ma Roma fu la sua città.
Eclettico anche nelle lingue, Pier Paolo Pasolini scrisse molti dei suoi lavori in dialetto come segno di ribellione alla Chiesa e di vicinanza alle masse. Fu un po’ un proletario da lontano, un po’ un populista decadente. Legato alla Roma del secondo dopoguerra ne denunciò la miseria in “Ragazzi di vita” del 1955.
Fu proprio questa la prima delle svariate volte in cui la rigida e burocratica legge dell’Italia da poco costituzionale arrestò l’indomabile percorso creativo del Pasolini.
Il Servizio spettacolo informazione e proprietà intellettuale dopo soli tre mesi dall’uscita, segnalò l’opera alla Procura della Repubblica del Tribunale di Milano per contenuto osceno e pornografico. Un’opera dal “gusto morboso”, definita sporca, abbietta, scomposta, torbida.
Nel gennaio del 1956, con la triste ironia che solo quell’evento poteva avere, la prima udienza rinviò il processo perché i giudici non avevano letto il libro.
La seconda udienza pure slittò, questa volta per impedimento del suo avvocato.
Ma grazie a testimonianze come quella di Carlo Bo e Giuseppe Ungaretti e a un clima di “serena elevatezza”, la sentenza, pronunciata nel luglio dello stesso anno, fu di assoluzione piena perché il fatto non costituiva reato e ciò perché nonostante le parole “volgari” e le locuzioni “scabrose”, “l’autore non s’indugia con malizia, od anche solo con compiacimento, a descrivere situazioni obiettivamente oscene“.
Pasolini, dal canto suo, si sentiva “diverso”. Non gli restava che attendere il decorso di un potere di cui denunciava la corruzione e nel suo caso la pedissequa repressione della libera espressione.
1968 – Il sequestro di “Teorema”
Era il 13 settembre 1968 e la Procura della Repubblica di Roma sequestrava “Teorema”, il film di Pasolini. L’accusa era quella di “oscenità”. A causa delle scene di rapporti sessuali e familiari e degli amplessi carnali che facevano da padrone.
Il 14 ottobre dello stesso anno seguì la Procura della Repubblica di Genova. Il processo contro Pasolini e il produttore del film, Donato Leoni, venne poi trasferito per competenza territoriale a Venezia, terminando poco dopo, il 23 novembre 1968. Al termine di una camera di consiglio lunga una intera ora, il Tribunale decise di assolvere gli imputati, stabilendo che “trattandosi incontestabilmente di un’opera d’arte, Teorema non può essere sospettato di oscenità”.
Di Teorema protagonista è un giovane, che giunge a Milano ospite di una famiglia benestante. Il padre, proprietario di una fabbrica, la madre, moglie fedele, il figlio maschio, appassionato d’arte, ma senza il coraggio necessario a farne una professione, la figlia femmina, fragile, malinconica, inquieta, e la servitù, tra le cui fila stava Emilia.
Tutti da lui conquistati carnalmente, uno dopo l’altro. Al suo congedo, il vuoto dell’ignoto, la consapevolezza della dissolutezza.
L’idea di Teorema, esposta da Pier Paolo Pasolini in un’intervista del 1966, era quella della visita di Dio, che mostra e rivela, avvolto nell’aura del sacro, il reale, in tutta la sua brutalità.
Teorema fu presentato alla ventinovesima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Il pubblico degli specialisti ne disertò la proiezione.
1975 – L’assassinio
Nella notte tra il 1º e il 2 novembre 1975 Pasolini fu ucciso in maniera brutale: percosso e travolto dalla sua stessa auto sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia. Il cadavere massacrato venne ritrovato da una donna alle 6 e 30 circa; sarà l’amico Ninetto Davoli a riconoscerlo. Dell’omicidio fu incolpato Pino Pelosi di Guidonia, di diciassette anni, già noto alla polizia come ladro di auto e “ragazzo di vita”, fermato la notte stessa alla guida dell’auto del Pasolini. Pelosi affermò di essere stato avvicinato da Pasolini nelle vicinanze della Stazione Termini di Roma, presso il Bar Gambrinus di Piazza dei Cinquecento, e da questi invitato sulla sua vettura dietro la promessa di un compenso in denaro.
Dopo una cena offerta dallo scrittore, nella trattoria Biondo Tevere, i due si diressero alla periferia di Ostia. La tragedia, secondo la sentenza, scaturì a seguito di una lite per pretese sessuali di Pasolini alle quali Pelosi era riluttante, degenerata in un alterco fuori dalla vettura. Il giovane venne minacciato con un bastone del quale poi si impadronì per percuotere Pasolini fino a farlo stramazzare al suolo, gravemente ferito ma ancora vivo. Quindi Pelosi salì a bordo dell’auto dello scrittore e travolse più volte con le ruote il corpo, sfondandogli la cassa toracica e provocandone la morte. Gli abiti di Pelosi non mostrarono tracce di sangue. Pelosi venne condannato in primo grado per omicidio volontario in concorso con ignoti e il 4 dicembre del 1976 con la sentenza della Corte d’Appello, pur confermando la condanna dell’unico imputato, riformava parzialmente la sentenza di primo grado escludendo ogni riferimento al concorso di altre persone nell’omicidio.
Due settimane dopo il delitto apparve un’inchiesta su L’Europeo con un articolo di Oriana Fallaci, che ipotizzava una premeditazione e il concorso di almeno altre due persone. Un giornalista di quel giornale ebbe alcuni colloqui con un ragazzo che, tra molte esitazioni e alcuni momenti di isteria, avrebbe dichiarato di aver fatto parte del gruppo che aveva massacrato il poeta; il giovane tuttavia, dopo un’iniziale collaborazione, avrebbe rifiutato di proseguire oltre o fornire altre informazioni, dileguandosi dopo aver lasciato intendere di rischiare la vita confessando la propria partecipazione e concludendo che non sarebbe stata intenzione del gruppo uccidere il poeta, ma che si sarebbe trattato di una rapina degenerata. Diversi abitanti delle numerose abitazioni abusive esistenti in via dell’Idroscalo confidarono in seguito alla stampa di aver sentito urla concitate e rumori – indizio della presenza di ben più di due persone sul posto – e invocazioni disperate di aiuto da parte del Pasolini la notte del delitto, ma senza che alcuno fosse intervenuto in suo soccorso.
Pelosi, dopo aver mantenuto invariata la sua assunzione di colpevolezza per trent’anni, fino al maggio 2005, a sorpresa, nel corso di un’intervista televisiva, ha affermato di non essere l’esecutore materiale del delitto di Pier Paolo Pasolini, e ha dichiarato che l’omicidio era stato commesso da altre tre persone, giunte su un’autovettura targata Catania, che a suo dire parlavano con accento “calabrese o siciliano” e, durante il massacro, avrebbero ripetutamente inveito contro il poeta gridandogli jarrusu (termine gergale siciliano, utilizzato in senso dispregiativo nei confronti degli omosessuali). E infatti, era giunta a suo tempo alle autorità una lettera anonima in cui si affermava che, la sera della morte di Pasolini, la sua auto era stata seguita da una Fiat 1300 targata Catania di cui erano indicate le prime quattro cifre, ma nessuno si preoccupò mai di effettuare una verifica presso il PRA. Pelosi ha poi fatto i nomi dei suoi presunti complici solo in un’intervista del 12 settembre 2008 pubblicata sul saggio d’inchiesta di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza “Profondo Nero”. Ha aggiunto inoltre di aver celato questa rivelazione per timore di mettere a rischio l’incolumità della propria famiglia ma di sentirsi adesso libero di parlare, dopo la morte dei genitori.
Molti intellettuali sostengono la verità giudiziaria, o comunque non credono a complotti. Si tratta di scrittori e amici di Pasolini che ritengono inattendibile, per molti motivi, la ritrattazione di Pelosi a distanza di trent’anni. In linea generale, sono gli stessi che rifiutano la lettura politica militante delle opere di Pasolini e l’immagine edulcorata del personaggio che porta a farne “un santo e un martire”. Essi privilegiano, invece, una chiave interpretativa dell’uomo e dell’opera legata alla sua particolare omosessualità, vissuta senza fermarsi di fronte a pratiche estreme e violente, anche con i minori.