All’indomani della declaratoria di inammissibilità del referendum sull’eutanasia ci siamo chiesti: è da ritenere favorevole per un organismo come la Corte costituzionale commentare i propri atti per mezzo di un comunicato stampa? Esiste davvero un rischio di sovraesposizione mediatica?
Non sempre è il merito di un atto della Corte costituzionale a dover essere commentato. A fortiori nel caso di un atto atipico come il comunicato stampa a margine di una Camera di consiglio, dove non ci si limita a fornire un responso e un dispositivo, bensì si accenna al cuore della ratio di quelle che saranno le argomentazioni di diritto delle motivazioni. Non ritengo questa prassi favorevole all’immagine della Corte e, per ciò che mi riguarda, difficilmente compatibile con la sua posizione costituzionale.
Il «comunicato in diritto» parla stringatamente di una Corte che «[…] ha ritenuto inammissibile il quesito referendario perché, a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili […]».
Ora, se sussistesse il brocardo «in claris non fit interpretatio» (caso di una manifesta o palese infondatezza o inammissibilità di una questione), si potrebbe forse essere più flessibili, ma se si apre alla platea generale dei consociati (e non soltanto agli operatori del diritto che quotidianamente hanno un minimo di pratica della giurisprudenza costituzionale e che possono capire più o meno dove la Corte si sia veicolata grazie all’utilizzo di determinate formule) il rischio che quelle verba da clara diventino tenebrosa è altissimo e si innescano meccanismi a catena di vario genere. Tenuto conto, poi, dell’estrema delicatezza della questione in oggetto.
Si è, infatti, per molti anni criticato in dottrina l’uso smodato delle esternazioni del dirimpettaio organo di garanzia al Quirinale, adducendo una sovraesposizione mediatica della figura con rischio di uscire dai tracciati costituzionali. Possibile che non si intraveda un minimo rischio a maggior ragione per la Corte? La Consulta non è un organo costituzionale che soffre, a tutela della sua indipendenza e per la sua alta funzione di garanzia costituzionale, della potentissima spada di Damocle della «responsabilità politica diffusa»: in altri termini non occorre che i quindici giudici
debbano interloquire con la società civile in merito alle proprie decisioni (diverso è il caso dell’attività di relazioni e di pedagogia costituzionale nelle scuole e nelle carceri o con i podcast), poiché qualche giudice costituzionale potrebbe correre il rischio di una sorta di delegittimazione, di una messa in stato d’accusa, di un recall o di altro che ne possa minare la stabilità.
Per interlocuzione, appunto, non mi riferisco alla suddetta opera di pedagogia costituzionale, ma
appunto ad un sentimento di responsabilità e pressione sociale, che è pericoloso per un giudice terzo ed imparziale con competenza molto limitata in uno spicchio del territorio nazionale, figuriamoci per il Giudice delle Leggi. Il Presidente della Repubblica ce l’ha e il suo acquis della prassi e le particolari modalità di esercizio dei suoi poteri tipici gli impediscono di non relazionarsi con la suddetta spada di Damocle. Qui parliamo del Giudice delle leggi, del custode della Costituzione, di un giudice il cui utilizzo dei soli strumenti tipici salva dalla strumentalizzazione politica e dal rischio di delegittimazione, che avrebbe conseguenze disastrose.
Esternare delle ragioni, se non per il tramite del considerato in diritto, copre il giudice dalla parzialità, dall’interesse, dall’autoreferenzialità, dalla voglia di farsi potere piuttosto che contropotere: la tipicità salvaguardia il ruolo costituzionale. Un conto è la dissenting opinion o l’inserimento di avvocati generali. Sono anch’essi strumenti che rafforzano la trasparenza di un’attività dialettica o dialogica, ma che rimangono entro il recinto del diritto e che possono contribuire, talvolta, ad arricchire e far sviluppare nuove idee e categorie giuridiche.
Cosa succederebbe, se si dovesse rompere il recinto del diritto per prendere il diavolo della strumentalizzazione e sovraesposizione mediatica per le corna? Cosa, soprattutto, potrebbe succedere se, come altamente probabile, fosse quel diavolo a ribaltare la presa sfruttando l’assenza della rete di protezione del diritto e la sua maggiore conoscenza del pericoloso campo minato della strumentalizzazione?
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