La vita di Mengoni
Nasceva a Villazzano (Trento) nel 1922 Luigi Mengoni. Nel 1940 iniziò gli studi in Giurisprudenza presso la Facoltà dell’Università Cattolica di Milano, completandoli nel giugno 1944 con una tesi in diritto commerciale (sulle società irregolari, relatore Mario Rotondi). Negli anni universitari fu ospite del Collegio Augustinianum, pensato da Padre Agostino Gemelli come luogo di vita comunitaria e occasione di formazione ulteriore per i migliori studenti universitari. Fu allievo diretto di Francesco Messineo e Domenico Barbero, e beneficiò della lezione di Antonio Cicu e Francesco Santoro Passarelli. Nel 1951 divenne professore di diritto civile nell’Università di Trieste, per poi tornare in Cattolica, dove insegnò prima diritto commerciale (dal 1954) e poi diritto civile (dal 1957). Nel 1953 fu posto, da Alberto Asquini, alla guida della Rivista del diritto commerciale, che egli diresse con Angelo de Martini e Tullio Ascarelli (proprio il rapporto con Ascarelli fu decisivo per la maturazione della sua prospettiva metodologica). Ha insegnato anche diritto del lavoro, materia di cui egli è considerato “padre nobile”, presso l’Università Cattolica e l’Università Bocconi. Nel 1987 fu nominato, dal Presidente della Repubblica, giudice della Corte costituzionale, divenendone, nel 1995, vice presidente. Cessò dalla carica nel 1996. Luigi Mengoni si è spento, a Milano, il 19 ottobre 2001.
Il magistero di Mengoni: prospettiva metodologica…
Le rapide notazioni biografiche appena riportate trasmettono in modo immediato la vastità e la trasversalità dell’opera di Luigi Mengoni, che ha percorso con i suoi studi l’intero diritto privato, dalle materie classiche del diritto civile a quelle del diritto commerciale e del diritto del lavoro. Come ha notato Paolo Grossi, in Italia «nessun civilista riveste un ruolo tanto peculiare quanto lui, un ruolo che ne fa un unicum in seno alla coralità scientifica» [Luigi Mengoni nella Civilistica italiana del Novecento, Europa e diritto privato, 2012]. La peculiarità del suo magistero non viene solo dalla qualità scientifica delle sue opere, dalla coltivazione di una curatissima prospettiva storica e dall’apertura al dibattito internazionale (specialmente con la dottrina tedesca), ma anche dall’esigenza che egli avvertì di porre rimedio «all’anarchia metodologica» [Mengoni, Recensione a Wieacker, ora in Scritti, I, 2011, a cura di Castronovo-Albanese-Nicolussi] in cui la scienza giuridica italiana si era ritrovata a metà del secolo scorso, una volta messa a nudo l’insufficienza della radicalizzazione kelseniana del positivismo giuridico. Punto di approdo è stata la formulazione di una proposta metodologica felicemente sintetizzata nel sintagma “problema-sistema”: il mestiere del giurista, insegna Mengoni, non si risolve in un automatismo, nel salire e scendere i gradini concettuali della “scala di Porfirio”, ma «nel rendere vitale e reciprocamente fertile il rapporto tra il problema, punto d’attacco e anche spinta fondamentale per ogni ricerca giuridica, e la razionalità complessiva del sistema, con cui i risultati dell’argomentazione dovranno rivelarsi coerenti» [Nicolussi, Luigi Mengoni e il diritto privato: valori e metodo, Iustitia, 2006].
L’attenzione riservata al problema metodologico si salda, nella prospettiva mengoniana, con l’urgenza della costruzione di un discorso scientifico che sia comunicabile, in quanto controllabile: ciò è reso possibile dal ricorso alla dogmatica giuridica, che – depurata dagli esiti assolutizzanti e, in definitiva, mortificanti di una certa Pandettistica – rappresenta il miglior mezzo a nostra disposizione per testare la verità o l’accettabilità di una proposizione fondamentale (questo essendo il significato più risalente dell’etimo “dogma”). La dogmatica offre un telaio concettuale nell’ambito del quale la soluzione va sempre cercata e che consente, da una parte, al sistema di non cristallizzarsi e di essere pensato dinamicamente, senza però perdere la propria dignità di sistema, e, dall’altra, al problema di essere compreso non in modo atomistico, ma conosciuto nei suoi nessi universali e, quindi, complessivamente. La metodologia di Mengoni, una cui completa esposizione si rinviene in Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico [in Mengoni, Diritto e valori, 1985], trova applicazione diretta nei suoi molteplici scritti di diritto positivo, a partire dalle opere che egli ha dedicato ai vari settori del diritto civile – dal diritto delle obbligazioni a quello delle successioni, passando per i saggi numerosi che si occupano di diritto della famiglia e della circolazione dei diritti – e del diritto del lavoro e commerciale.
… e diritto positivo
Nell’ambito delle obbligazioni, i contributi principali di Mengoni sono: L’oggetto dell’obbligazione, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi» (studio critico), Sulla natura della responsabilità precontrattuale e la voce enciclopedica Responsabilità contrattuale [ora raccolti in Scritti, II, 2011, a cura di Castronovo-Albanese-Nicolussi]. Mengoni vi ha elaborato una teoria generale dell’obbligazione, pensata come rapporto giuridico complesso, in cui, attorno al dovere primario di prestazione, ruotano doveri strumentali, accessori e di protezione della sfera giuridica altrui – gli ultimi, in particolare, concretizzazione della direttiva generale di buona fede oggettiva cui il rapporto obbligatorio è sottoposto. Volendo sintetizzare alcune delle innovazioni più importanti che si devono, in questo campo, a Mengoni, è bene ricordare che egli è stato il primo a dimostrare l’inconsistenza logica e giuridica della distinzione, di derivazione franco-tedesca, tra obbligazioni “di mezzi” e obbligazioni “di risultato”, e tra i primi a smontare la sovrapposizione tra l’istituto della garanzia e quello dell’obbligazione, eredità concettuale di un abbaglio di Pothier frettolosamente sanzionato dal nostro legislatore con la lettera dell’art. 1476 n. 3 c.c. Fondamentale è stata anche l’intuizione della natura “contrattuale” (cioè ex art. 1218 c.c.) e non “extracontrattuale” della responsabilità “precontrattuale”, sul presupposto per cui ogni qualvolta lo svolgimento di una relazione sociale viene assoggettato dalla legge all’imperativo della buona fede oggettiva, come è nel caso dell’art. 1337 c.c., allora quella relazione diviene oggetto di una obbligazione in senso tecnico, il cui contenuto va individuato alla stregua della buona fede.
In tema di diritti reali e di circolazione della ricchezza, Gli acquisti a «non domino» [1975], riscrittura matura e consapevole della prima edizione della sua monografia giovanile, prova che l’espressione in parola non rappresenta una categoria giuridica unitaria, del tutto inesistente, ma si limita a sottolineare l’elemento comune di una serie di fattispecie eterogenee in cui, a fronte di diversi presupposti, la volontà della legge sacrifica le ragioni del proprietario-dominus in favore di quelle dell’acquirente, nell’ottica di salvaguardia della stabilità e della rapidità dei traffici commerciali. Quanto alle successioni, i due tomi sulla Successione legittima e sulla Successione necessaria [nel Tratt. Cicu-Messineo, 1999 e 2000] combinano i valori dell’autonomia testamentaria e della trasmissione familiare della ricchezza in un sistema in cui il testamento è strumento di deroga all’ordine successorio legale.
Il contributo di diritto del lavoro e di diritto sindacale, inscritto in una concezione istituzionale dell’ordine di mercato, ricostruisce la subordinazione del lavoratore come potere del datore di lavoro di determinazione della prestazione nell’ambito delle mansioni stabile dal contratto, e non quale potere sulla persona [si vedano i suoi saggi riprodotti ne Il contratto di lavoro, a cura di Napoli, 2004].
La famiglia viene liberata dall’ipoteca della concezione “vetero-istituzionale”, che la voleva fortemente gerarchizzata a imitazione dello Stato, e consegnata alla dimensione “neo-istituzionale” e costituzionale di società naturale fondata sull’uguaglianza e sulla solidarietà (così, allo stesso tempo, resistendo alle pressioni di “publicizzazione” neo-hegeliana, da una parte, e di “privatizzazione” frutto della cosiddetta “ideologia dell’indifferenziato”, dall’altra) [si veda il suo La famiglia in una società complessa, Iustitia, 1990].
La proprietà privata viene riconosciuta quale garanzia di libertà, ma non nel senso ottocentesco di «libertà negativa», ma in quello rawlsiano e berliniano di «libertà positiva», quale garanzia strumentale alla libera e attiva partecipazione alla vita comunitaria ed economica [si veda il suo Proprietà e libertà, ora in Scritti, I, cit.].
Purtroppo, la giurisprudenza ha spesso tardato ad abbracciare le soluzioni offerte da Mengoni: ma quando lo ha fatto, ha trovato in esse la via per “svecchiarsi”, abbandonando formule in contrasto con il dato del diritto positivo vigente e che continuavano a essere impiegate solo perché apparentemente immediate e di facile comprensione. In questo senso, la giurisprudenza ha sperimentato ciò che qualsiasi lettore attento della pagina mengoniana conosce bene: la hegeliana “fatica del concetto” che altro non è che «un’avventura intellettuale che si potrebbe dire “senza ritorno”, perché il lettore vi riceve nuovi guadagni di senso e di metodo che lo rendono irrimediabilmente più esigente» [Nicolussi, Luigi Mengoni e il diritto privato, cit.]. Rendono testimonianza di questo snodo: Cass. sez. un. n. 15781/2005 e n. 577/2008, che hanno disegnato uno statuto unitario dell’obbligazione, superando la tralaticia distinzione tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”; Cass. sez. un. n. 11748/2019, che ha riconosciuto l’alterità tra garanzia e obbligazione; Cass. sez. un. n. 8236/2020, che – sulla scia dei precedenti rappresentati da Cass. n. 14188/2016 e n. 27648/2011 – ha affermato la natura “contrattuale” (meglio: “relazionale”) della responsabilità precontrattuale.
La dogmatica giuridica quale mezzo per garantire il primato della legge
La dogmatica, quale vincolo dell’argomentazione giuridica, risulta fondamentale in tempi quali i presenti, in cui alcune delle più importanti innovazioni normative non sembrano più provenire dalle aule parlamentari, ma da quelle dei tribunali. Essa è, in sintesi, tra gli strumenti più efficaci per evitare che la naturale attività “creatrice” della giurisprudenza debordi in un arbitrario e irrefrenabile “creazionismo giudiziario” [in proposito, ci permettiamo di rinviare al nostro Il coraggio del judicial self-restraint, Extrema Ratio, 2020]. In una società pluralista e dinamica come la nostra, infatti, il giudice può trovarsi di fronte a una domanda di giustizia per la quale il diritto positivo non ha però ancora espressamente dettato una soluzione: ma se il legislatore è libero di risolvere i problemi sottoposti alla sua attenzione con la libertà valutativa che gli viene dalla responsabilità democratica che lo legittima, lo stesso non può dirsi del giudice, il quale sempre «deve esercitare la sua auctoritas al servizio della legge» [Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, 1996] – e ciò tanto nell’ambito “tradizionale” del diritto privato, quanto in quello, per certi versi ancora nuovo, dei diritti fondamentali riconosciuti nella Costituzione e nelle altre Carte sovranazionali. Solo quando il problema scuote il sistema al punto da richiedere una soluzione innovativa, la dogmatica (relativa alla materia in questione) può essere messa in discussione con esiti che possono essere o quello di una innovazione sistematica, o quello dell’impossibilità di una soluzione nuova per mancanza di puntelli normativi sufficienti, e, quindi, della segnalazione dell’esigenza di riforma legislativa. È qui che si riconosce l’autonomia del discorso giuridico da quello politico: è qui che si colloca la differenza tra la sentenza e il responso dell’urna elettorale.
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