Il crollo del regime fascista sul territorio nazionale maturò lungo tutto l’arco della tarda primavera e dell’estate del 1943. Il 25 luglio di quell’anno ci racconta l’evento maggiormente simbolico, ossia l’arresto di Benito Mussolini su ordine del Re d’Italia Vittorio Emanuele III.
L’evento in questione fu oggetto di una lunga, drammatica e segreta trama politica, ricamata da personalità di spicco del PNF in collaborazione con la Real Casa, guidata dal Duca Pietro d’Acquarone, e con personalità politiche e d’alto rango militare vicine alla Corona; tutti sospinti, prevalentemente, dall’infausto esito della guerra condotta dall’esercito italiano e con gli Alleati sbarcati in Sicilia e in procinto di risalire la penisola da Sud.
Mussolini, reduce da una serie di contatti e incontri con Hitler, che si rivelarono infruttuosi per le richieste di aiuto militare dell’esercito tedesco, vide vacillare la sua leadership ventennale non trovando più supporto negli alti vertici militari dell’esercito, vicini a Casa Savoia, e dovendo contrastare i malumori all’interno del Gran Consiglio del Fascismo, originariamente massimo organo del PNF, divenuto poi con la legge 9 dicembre 1928 n. 2693, l’organo costituzionale avente scopo di presiedere, coordinare e di dare impulso politico-istituzionale, dal punto di vista della forma di governo autoritaria, la gestione della cosa pubblica nel regime fascista (indicazioni sulla sua natura costituzionale tuttora ambigua e difficile da decifrare per gli storici e i costituzionalisti).
Altra pedina fondamentale fu l’importante ruolo diplomatico svolto dal Ministro della Real Casa, che sin dalla fine di maggio venne sollecitato per un’intercessione presso il Re da Ivanoe Bonomi, che premette affinché il Re provvedesse alla revoca ex art. 65 Stat. Alb. e art. 2 legge 24 dicembre 1925 verso Mussolini, in modo che fossero intavolate le trattative per la resa con gli Alleati e scongiurare un’invasione a Nord da parte della Germania.
Bonomi cercò di intercedere più volte anche presso il Principe di Piemonte, Umberto, e la Principessa Maria José del Belgio, riscontrando supporto effettivo nella sola Principessa. La granitica posizione di Vittorio Emanuele III di non intervenire, se non con le dovute garanzie per la stabilità della Corona e senza un minimo segnale di supporto istituzionale dagli stessi organi costituzionali fascisti, e la non decisione del Principe Umberto, non aiutarono, da un lato, il Duca d’Acquarone nel dialogo. Tutto ciò fece, però, emergere come il nome dell’ex Capo di Stato maggiore, Pietro Badoglio, fosse gradito alla Corona e alle forze politiche antifasciste come possibile Presidente del Consiglio per un Governo di unità e che affrontasse le future sorti militari.
L’occasione, che Vittorio Emanuele III ricercò per procedere alla sostituzione di Mussolini, provenne dagli alti vertici fascisti nella persona di Dino Grandi, avvocato, ex Ministro degli Esteri e della Giustizia e al tempo Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Grandi fu supportato da Galeazzo Ciano, genero del Duce, e lavorò alacremente assieme al Quirinale e Acquarone a partire dalla metà di luglio. Lo sbarco Alleato sulle coste siciliane del 9 luglio e gli ultimi no delle potenze dell’Asse alle richieste di aiuto di Mussolini (storico l’incontro tra Mussolini e Hitler del 19 luglio a Feltre in cui il Duce ricevette una seria requisitoria da parte di Hitler sulle sorti del fronte siciliano con un secco no alle richieste di auto) diedero la svolta decisiva.
A Villa Savoia vi fu un penultimo incontro prima dell’arresto tra il Duce e il Re il 22 luglio, nel quale se il Duce, da un lato, tentò di sdrammatizzare sul rifiuto delle potenze dell’Asse sugli aiuti militari, il Monarca ribadì il sostegno all’azione di governo di Mussolini, ammonendo sulla situazione drammatica del Paese: in realtà la Corona e la Real Casa si erano già accordate con la fronda interna di Grandi e con le forze politiche vicine alla Monarchia per il cambio di rotta.
La mossa di Grandi e i contatti con Acquarone portarono, infatti, Vittorio Emanuele III a convergere definitivamente su Badoglio per un governo di provenienza tecnico-militare che gestisse la futura resa con gli Alleati: Grandi e Acquarone si sarebbero, infine, preoccupati di lasciare al Re le migliori garanzie dal punto di vista giuridico-costituzionale e dell’ordine pubblico.
Acquarone, da un lato, si occupò di gestire la corrispondenza ufficiale sull’arresto e organizzò assieme al Primo Aiutante di Campo della Real Casa, il Generale Puntoni, di far occupare le stazioni radio romane in modo che non trapelassero notizie ufficiose dell’arresto di Mussolini e che fosse ufficializzato semplicemente il cambio di governo con Badoglio, contando che permaneva una situazione tesa con la Germania e che era in corso l’invasione Alleata.
Dino Grandi ebbe, invece, il compito più difficile: quello di portare il Duce dinnanzi al Re con un voto sfiduciante “di fatto” del Gran Consiglio del Fascismo, convocato a Palazzo Venezia per il 24 luglio. Egli si mosse, cercando, innanzitutto di dare alla Corona una scadenzata procedimentalizzazione della crisi in caso di approvazione del suo o.d.g., predisponendo in anteprima i decreti di revoca e di successiva nomina del Gabinetto Badoglio e fornendo consigli alla Corona e agli alti comandi militari sulle esternazioni in merito al proseguimento della guerra e dei rapporti con l’ambasciatore tedesco (sui quali i nodi sarebbero stati sciolti solo con l’8 settembre). D’altro canto, Grandi ebbe la preoccupazione di dover consegnare la votazione al suo o.d.g. alla Corona garantendo una base giuridico-costituzionale inoppugnabile oltre che la sua incolumità (Grandi partecipò alla seduta con due bombe a mano Breda in tasca).
In un inedito di Grandi, riportato dalla cronistoria di Gianfranco Bianchi (v. G.F. Bianchi, 25 luglio: crollo di un regime, 1963, 473 e ss.), egli affermò all’alba della seduta:
[…] Non intendevo congiurare contro Mussolini, bensì lottare apertamente in Gran Consiglio per ottenere da esso l’approvazione del mio Ordine del giorno e, conseguentemente, la fine della dittatura, il ritorno allo Stato parlamentare, e la restituzione al Sovrano dei poteri e delle responsabilità statutarie […] quello che mi preoccupava soprattutto era di non creare soluzioni di continuità nella nostra vita costituzionale.
Dal punto di vista strettamente giuridico l’obiettivo di Grandi fu quello, prevalentemente, di ripristinare con l’approvazione dell’o.d.g. le funzioni in capo al Re-soldato (la condicio sine qua non richiesta da Vittorio Emanuele III) di Capo delle Forze armate ex art.5 dello Statuto Albertino, prerogativa che nel ventennio era in capo al Duce (l’o.d.g. faceva anche un vago riferimento al ripristino delle funzioni statutarie e costituzionali del Governo, del Parlamento, del Gran Consiglio e delle Corporazioni). Di lì il Monarca avrebbe avuto “mano” libera nel revocare costituzionalmente Mussolini e per procedere alla nomina di Badoglio.
I 19 voti a favore (incluso Ciano), i 7 contrari e l’unico astenuto pervennero intorno alle 2.30 del mattino del 25 luglio dopo che la seduta iniziò intorno alle 17 del giorno prima. L’approvazione dell’o.d.g. da parte del massimo organo di coordinamento e di impulso politico-istituzionale delle attività del regime costrinse il Duce a presentarsi al cospetto del Re. Il Quirinale, infatti, ricevuta la notizia, predispose per l’arresto di Mussolini non appena terminato l’incontro con il Re che avrebbe riferito dell’esito della seduta. Mussolini si presentò a Villa Savoia lo stesso pomeriggio e si tenne il colloquio con il Monarca in cui gli fu comunicata l’intenzione di provvedere a un nuovo esecutivo di natura tecnico-militare guidato da Badoglio. All’uscita dalla residenza regia il Duce fu arrestato da un plotone dell’Arma dei Carabinieri e scortato in un autoambulanza in due caserme dell’Arma di Roma fino al carcere presso l’isola di Ponza.
Dino Grandi per sfuggire alle vendette del regime dopo l’8 settembre dovette fuggire prima in Spagna e successivamente in Portogallo, ottenendo una condanna in contumacia nel cd. Processo di Verona dal tribunale della Repubblica Sociale italiana. Nel dopoguerra riuscì a riconquistarsi una posizione, lavorando presso la FIAT e come consulente diplomatico nelle relazioni Italia-USA finché non decise di ritirarsi a vita agreste e privata fino alla morte nel 1988.
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