Il 29 maggio 1957 a Roma prestano giuramento le prime donne a entrare in Magistratura: sono sette giudici del Tribunale dei Minorenni e della sezione speciale della Corte d’appello di Roma, apripista di un processo che si concluderà solo diversi anni dopo, nel 1965.
La data storica, che tutti ricordano, è il 5 aprile 1965, quando entrarono in servizio le prime donne magistrato. Erano le otto vincitrici del primo concorso aperto – finalmente – anche alle donne del 3 maggio 1963 (ve ne avevamo già parlato in questo articolo).
Eppure, forse non tutti sanno che esiste un primato risalente a otto anni prima, quando sette donne furono ammesse all’amministrazione della giustizia solo per il Tribunale dei Minorenni e la sezione speciale della Corte d’appello di Roma.
Prestarono solenne giuramento il 29 maggio 1957 nella severa cornice marmorea dell’Aula Magna della Corte d’appello, alla presenza del Ministro della Giustizia Guido Gonella, il sottosegretario Scalfaro, il Ministro dell’Istruzione Aldo Moro e numerosi alti magistrati. Era stato proprio Moro uno dei promotori della legge che, dopo un dibattito parlamentare fatto di perplessità e polemiche, venne approvata l’anno precedente e consentì l’accesso delle donne alle Corti per minorenni.
Membro effettivo della sezione speciale della Corte d’appello fu nominata la dottoressa Maria Sofia Lanza, presidente dell’Unione giuriste italiane, mentre furono nominate membri supplenti le signore Anna Giambrino, Margherita Puccinelli e Maria Rosa Bersano. Invece per il Tribunale dei Minorenni fu nominata membro effettivo la dottoressa Maria Flora Santucci, presidente dell’Associazione nazionale delle assistenti sociali, e membri supplenti le signore Anna Groffelli e Angela Sarina.
Si trattava di una tappa importante per la parità fra i sessi, che lasciava presagire un futuro sempre più prossimo in cui le donne avrebbero indossato anche l’uniforme e il berretto da poliziotto, si sarebbero potute avviare alla carriera diplomatica (la battaglia condotta in quegli anni dalla repubblicana Mary Tibaldi Chiesa in questo senso era stata fino ad allora fallimentare) e magari anche le casalinghe avrebbero potuto beneficiare di una pensione.
Racconta con toni solenni la portata dell’evento il quotidiano Il Popolo, che tuttavia non riteneva necessario concedergli più spazio rispetto a un’altra notizia che campeggiava sulla stessa pagina con un titolo enorme: “La catastrofe delle mamme che non sanno più cuocere la pappa”: e giù quattro colonne sul dramma moscovita delle giovani spose che, occupate nelle fabbriche, non hanno tempo e voglia di dedicarsi alle faccende domestiche.
Vi riportiamo come viene descritta la cerimonia (l’Istituto Luce ne conserva una galleria fotografica che potete sfogliare per dare un volto ai vari personaggi).
Ciascuna delle neo-giudici, indossando tocco e toga (in barba a tutti coloro che – sin dai tempi di Lidia Poët – avevano ritenuto l’ipotesi semplicemente ridicola), pronunciò la formula di rito:
Giuro di essere fedele alla Repubblica italiana e al suo Capo, di osservare lealmente le leggi dello Stato e di adempiere con coscienza ai doveri inerenti al mio ufficio.
Dopo il giuramento, il procuratore generale Pafundi rivolse un saluto augurale alle giudici, ricordando il lungo e faticoso cammino per il riconoscimento dell’idoneità delle donne ai pubblici uffici e in particolare alla funzione forense (nel suo discorso non mancò anche una menzione alla nostra amata Lidia Poët). Ma ora, concludeva Pafundi, “le donne, con il loro spirito materno, potranno svolgere opera utilissima per la rieducazione e il recupero dei minorenni traviati“.
A sua volta, anche il presidente della Cassazione Ernesto Eula rivolse un saluto e un augurio cordiale alle rappresentanti del mondo femminile che entravano in Magistratura, sottolineando l’importanza storica di quella cerimonia. L’ingresso delle donne nell’ordine giudiziario costituiva secondo Eula l’attuazione dei precetti costituzionali e del principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini nei doveri e nei diritti. Concludeva (in maniera sicuramente più grandiosa di Pafundi) così:
L’attività della donna giudice sarà un contributo essenziale, forse determinante, per la umanizzazione della giustizia e per il rinnovamento, la nobilitazione e la elevazione morale della Patria.
Parole indimenticabili, che tra l’altro giungevano anche come un piccolo risarcimento da parte della Storia. Ernesto Eula era infatti figlio di una famiglia di giudici della Cassazione da generazioni: suo nonno Lorenzo Eula era stato presidente della Corte di Cassazione di Torino dal 1879 al 1890 e poi a di Roma dal 1891 al 1893. Era stato proprio lui, da presidente della Cassazione di Torino, ad aver pronunciato la famosa sentenza del 1884 che recitava “la donna non può esercitare l’avvocatura” e concludeva così il caso Poët.
A suo nipote sarebbe spettato il compito di testimoniare il riscatto dell’intelligenza e del valore femminile.
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