Sentire di nuovo parlare di patti scritti di legislatura tra forze politiche, richiama alla mente non solo l’esperienza del contratto di governo dalle tinte giallo verdi, ma il ben più mitico Contratto con gli Italiani, sottoscritto in pompa magna negli studi di Porta a Porta da Silvio Berlusconi l’8 maggio 2001. Di quel contratto si occupò persino la giurisprudenza.
Chi mastica un po’ di diritto civile sa che le parti possono determinate liberamente il contenuto del contratto che intendono sottoscrivere, il quale non deve necessariamente rientrare nello schema di quelli previsti dal codice civile, ma deve almeno essere diretto a realizzare un interesse meritevole di tutela. Ovviamente deve rispettare tutti gli altri requisiti: causa, oggetto, forma e non contrarietà all’ordine pubblico.
Chi segue lo show della politica ha assistito a più riprese a un certo abuso della forma contrattuale. Lo ha richiamato ieri il senatore semplice di Rignano sull’Arno, ponendolo come ennesimo vincolo per il prosieguo della attuale legislatura, proprio ora che avevamo iniziato a rimuovere l’inutile contratto di governo del governo Lega-5Stelle.
Ma il caso più sensazionale e mitico – come per parecchie altre cose – resta il Contratto con gli Italiani che l’allora leader dell’opposizione, di Forza Italia e della Casa delle Libertà, Silvio Berlusconi aveva sottoscritto l’8 maggio 2001 negli studi di Porta a Porta davanti a Bruno Vespa in persona con fare sacrale e cerimonioso.
Fu l’ultima mossa di una baldanzosa campagna mediatica a meno di una settimana dalla elezioni che la Casa delle Libertà avrebbe portato a casa con una vittoria netta (piccola nota di colore: traendo spunto da Berlusconi, anche Forza Nuova propose nel 2006 il “Contratto con i Camerati” che prevedeva tra gli impegni l’abrogazione della legge Mancino, la cancellazione del 25 aprile e lo scioglimento della Massoneria).
Il Contratto con gli Italiani prevedeva l’impegno, soggetto alla condizione sospensiva della vittoria elettorale, di approvare cinque specifiche riforme: 1) abbassare le tasse, 2) ridurre il tasso di criminalità con la creazione dei poliziotti di quartiere, 3) alzare le pensioni minime a 1 milione di lire, o 516 euro che dir si voglia, 4) creare un milione e mezzo di posti di lavoro, 5) realizzare grandi opere.
Se non avesse realizzato almeno 4 di questi punti, Berlusconi si impegnava solennemente e per iscritto a non più ricandidarsi.

Ora, qui non ci interessa commentare e dare conto della esperienza politica di Berlusconi e di quella coalizione di governo, né discutere se quelle promesse elettorali furono di fatto realizzate oppure no, e se non lo furono per colpa di chi o di quali eventi.
Ci interessa invece raccontare una vicenda bizzarra e curiosa, che rientra a pieno titolo in questa rivista online e che solo ragioni anagrafiche non la rendono una perfetta Massima dal Passato (ci penseranno i nostri discendenti tra un centinaio di anni… che invidia!).

Questo è il caso: nel marzo 2006, verso la fine della legislatura e in vista delle nuove elezioni politiche (quelle vinte per una manciata di voti dal centro-sinistra, con una maggioranza risicatissima naufragata appena due anni dopo), vi fu un avvocato che ricorse in via d’urgenza al Tribunale di Napoli chiedendo la cancellazione del nominativo di Berlusconi da tutte le liste dei candidati alle imminenti elezioni, inibendogli così la candidatura, e di dichiarare illegittimo il pagamento delle proprie tasse versate oltre lo scaglione che Berlusconi si era impegnato a fissare.
Insomma, aveva fatto causa a Berlusconi per inadempimento agli impegni assunti con il contratto con gli italiani, e in particolare quelli oggetto dei punti 1, 4 e 5 (tasse, disoccupazione, grandi opere).
Il caso è noto e annotato in tutti i commentari al codice civile, per la particolarità e assoluta novità della questione.
Il ricorrente sosteneva che il documento firmato negli studi televisivi fosse un vero e proprio contratto inquadrabile nello schema del contratto con obbligazioni del solo proponente, che Berlusconi doveva pertanto rispettare alla lettera.
Dal canto suo, il premier si difese in giudizio affermando che il “contratto con gli Italiani” non era un negozio giuridico a contenuto patrimoniale, assimilabile alle previsioni codicistiche, ma la rappresentazione di un programma elettorale.

Il Tribunale diede ragione a Berlusconi, rigettando il ricorso con ordinanza del 30-31 marzo 2006 perché il cd. “contratto con gli Italiani” altro non era che una una promessa politica, il cui rispetto risultava inesigibile sul piano giudiziario in considerazione del fatto che la realizzazione di quegli impegni si sarebbe dovuta attuare mediante atti di normazione la cui emanazione dipendeva da una serie di variabili tali da non consentire di configurare la sussistenza di obbligazioni seriamente vincolanti a carico di Berlusconi.
Chiaramente insoddisfatto della decisione, l’avv. Giancone impugnò l’ordinanza insistendo nella sua richiesta. Il reclamo fu discusso a elezioni già concluse e quando Berlusconi era stato già rieletto. Quella che vi proponiamo di seguito in versione integrale è proprio il provvedimento collegiale di reclamo del 3 maggio 2006, con cui il Tribunale di Napoli confermò la decisione di prime cure, sulla scorta del fatto che fosse “del tutto evidente (e non si vede come si possa intenderlo differentemente, specie da un “tecnico” del diritto, quale l’avv. Giancone) che quella serie di “traguardi” assunti con gli elettori, e, per ultimo, l’impegno a non ricandidarsi, non fossero altro che strumenti di “marketing”, volti ad introdurre forme di comunicazione nuove nel panorama politico.
Nulla, peraltro – continua il Tribunale – avrebbe potuto indurre a ritenere che quegli impegni avessero una qualche rilevanza giuridica, come confermavano circostanze come: a) la estrema opinabilità dei modi di verifica del raggiungimento dei cd. traguardi (tanto che già all’epoca dei fatti, come riconosce l’ordinanza, non vi era accordo nel dibattito politico né sui dati né sulle valutazioni e sui giudizi da trarne), b) la sede e le modalità della stipula (nel pieno della campagna elettorale, momento notoriamente di “promesse” di ogni tipo), c) la singolarità della “sanzione per l’inadempimento”, consistente nella non ricandidatura dell’offerente/promittente alle elezioni politiche.
Fu così riconosciuto il carattere meramente propagandistico di quella iniziativa, definita “talmente palese da non poter indurre nessuna persona dotata di normale discernimento a fidare sulla sua vincolatività, e soprattutto sulla sua esigibilità giuridica“, con una sonora stoccata al ricorrente. Potete leggere qui l’ordinanza.
Con ricorso depositato il 20.3.2006, l’avv. Giancone ha chiesto a questo Tribunale di: “a) disporre l’immediata cancellazione del nominativo di Silvio Berlusconi da tutte le liste (già depositate) dei candidati all’elezione alla Camera dei Deputati del 9 – 10 aprile 2006; b) inibire al dott. S. B. di ripresentare, su tutto il territorio nazionale, la propria candidatura alla elezione alla Camera dei Deputati del 9 – 10 aprile 2006; c) dichiarare illegittimo il pagamento in eccedenza versato dal ricorrente in relazione all’imposta sul reddito dell’anno 2005 a seguito della mancata riduzione al 23 % dell’aliquota Irpef per i redditi fino a lire 200.000.000 (euro 103.291,38) e, conseguentemente, dichiararsi il diritto per esso ricorrente al relativo rimborso da liquidarsi nel corso del giudizio di merito o in separata sede …”.
A fondamento della richiesta, l’avv. Giancone ha invocato il cd. “contratto con gli Italiani” che l’On.le Silvio Bersluconi, in vista delle elezioni politiche del 13 maggio 2001, propose nel corso di una nota trasmissione televisiva in onda sulla rete nazionale Rai Uno, col quale venivano indicati cinque impegni politico – programmatici (in materia di imposte, di criminalità ed ordine pubblico, di trattamento pensionistico, di occupazione, di opere infrastrutturali) con l’aggiunta che “nel caso in cui al termine dei cinque anni di governo almeno 4 su 5 di questi traguardi non fossero raggiunti, S. B. si impegna formalmente a non ripresentare la propria candidatura alle successive elezioni politiche”.
L’avv. Giancone ha, quindi, sostenuto che al termine di cinque anni di governo presieduto dall’on.le Silvio Berlusconi non erano stati realizzati quantomeno gli obiettivi indicati ai punti 1, 4 e 5; e, preso atto che il dott. Silvio Berlusconi, ciò nonostante, aveva ripresentato la propria candidatura, e sull’intero territorio nazionale, ha ritenuto di azionare il suindicato contratto, a suo dire inquadrabile nell’istituto giuridico del contratto con obbligazioni del solo proponente, per far rispettare l’impegno a non ricandidarsi. A tale riguardo, ha affermato che il fumus boni iuris era rappresentato dall’inadempimento all’obbligazione di non ricandidarsi, ed il periculum in mora dall’imminenza delle consultazioni elettorali del 9 – 10 aprile 2006, aggiungendo, tra l’altro, che la mancata realizzazione del primo punto del cd. contratto con gli Italiani, relativo alla riduzione al 23 % dell’aliquota Irpef per i redditi sino a lire 200.000.000, gli aveva provocato anche un danno patrimoniale, consistente nella maggior somma versata all’Erario, di cui chiedeva il rimborso.
Il Giudice designato per la trattazione ha fissato la comparizione delle parti innanzi a sé per il giorno 30.3.
Il ricorrente ha, quindi, notificato il ricorso ed il decreto, oltre che a S. B., in proprio, anche a S. B. nella qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri.
L’on.le Silvio Berlusconi, costituendosi in proprio, ha chiesto il rigetto del ricorso, sostenendo, innanzitutto, che il “contratto con gli Italiani” non era un negozio giuridico a contenuto patrimoniale, assimilabile alle previsioni codicistiche, limitandosi a rappresentare un programma elettorale; ha, poi, dedotto il difetto di giurisdizione di qualsiasi autorità giurisdizionale a pronunciarsi in ordine alla sussistenza dei requisiti per l’ammissione di un cittadino alla carica di parlamentare, rientrando tale potere nei compiti specifici di ciascuna Camera, ai sensi dell’art. 66 Cost.; sotto altro profilo, poi, ha rilevato che i provvedimenti invocati avrebbero finito col ledere anche i precetti costituzionali degli artt. 51 e 65, disciplinanti il diritto di elettorato passivo, rientrante nei diritti inviolabili della persona insuscettibili di limitazioni se non a tutela di altri interessi di pari rango costituzionale. Ha, inoltre, eccepito l’incompetenza per territorio del giudice adito, nonché la carenza di giurisdizione, oltre che la palese infondatezza, sulla domanda di restituzione di somme versate a titolo di Irpef; ha, quindi, evidenziato come non siano sindacabili le scelte compiute dai parlamentari e come, dunque, pure a voler ipotizzare l’esistenza di un valido contratto, le scelte operate nel corso della legislatura sarebbero sottratte al giudizio del Giudice. Rivendicato, da ultimo, il pieno rispetto degli impegni assunti, ha evidenziato il carattere temerario dell’avversa pretesa, chiedendo la condanna del ricorrente al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 96 c.p.c.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri, costituitasi con il patrocinio dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato, ha preliminarmente evidenziato la “perplessità” del ricorso, che non chiariva, a suo dire, se le richieste fossero rivolte contro l’on.le Silvio Bersluconi in proprio o nella qualità; per tale seconda eventualità, comunque, ha eccepito l’assoluto difetto di legittimazione della Presidenza del Consiglio, non venendo in considerazione atti e/o comportamenti riconducibili all’attività dell’istituzione, ma solo ed esclusivamente inadempimenti di impegni assunti dal Silvio Berlusconi in proprio, e cioè come candidato. Ha, poi, a propria volta eccepito l’assoluto difetto di giurisdizione ed il carattere non giuridico ma solo politico del cd. “contratto con gli Italiani” e l’improponibilità della pretesa di cancellazione dalle liste elettorali. Da ultimo, ha sostenuto che, a voler ricondurre la fattispecie in questione all’ipotesi di un contratto con obbligazioni per il solo proponente, il ricorrente, per invocare quelle pattuizioni, avrebbe dovuto dimostrare – cosa ovviamente impossibile – di aver dato il proprio consenso elettorale in favore della Casa delle Libertà. Ha quindi concluso invocando il rigetto della domanda.
Con ordinanza resa fuori udienza il 30 marzo ’06 e depositata il 31 marzo, il Giudice designato ha respinto il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento in favore sia dell’On.le S. B. in proprio, che della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
La citata ordinanza, ritenuta la giurisdizione del Giudice ordinario e la competenza per territorio del Tribunale di Napoli, ha negato che il cd. “contratto con gli Italiani” fosse inquadrabile nelle previsioni codicistiche in materia di contratto, rappresentando piuttosto un programma politico – elettorale, il cui rispetto risulta inesigibile sul piano giudiziario in considerazione del fatto che la realizzazione di quegli impegni si attua mediante atti di normazione la cui emanazione dipende da una serie di variabili tali da non consentire di configurare la sussistenza di obbligazioni vincolanti a carico del resistente; in questo quadro, anche l’impegno assunto dall’on.le Silvio Bersluconi a non ricandidarsi per il caso di mancato raggiungimento di almeno 4 dei 5 obiettivi altro non era, ad avviso del Giudice di prime cure, che una promessa di natura politica, il cui rispetto proprio per questo risultava inesigibile, anche perché relativa ad un diritto personalissimo ed indisponibile, costituzionalmente garantito. Ha, poi, respinto l’istanza di condanna ex art. 96 c.p.c., ed ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese di lite.
Il 3 aprile 2006 l’avv. P. G. ha depositato reclamo avverso la citata ordinanza. Il reclamante ha, innanzitutto, contestato la qualificazione data dal primo Giudice al cd. “contratto con gli Italiani” come atto di indirizzo politico, occorrendo procedere ad un’interpretazione rigorosamente restrittiva di simili atti in modo da renderne il più esteso possibile il controllo giurisdizionale; ha, poi, evidenziato che rispetto a tale qualificazione adottata difettavano i requisiti sia soggettivi, dal momento che all’epoca della promessa il dott. Silvio Berlusconi non era ancora capo del Governo o espressione dello stesso, sia oggettivi, dal momento che quella promessa non aveva funzione di “costituzione, salvaguardia o funzionamento dei pubblici poteri”. Ha poi contestato le avverse difese, evidenziano come mai avesse inteso sindacare l’attività parlamentare, i voti dati o le opinioni espresse in tale contesto, come non occorresse un requisito di patrimonialità per la configurazione di un valido negozio giuridico, e come l’impegno del Silvio Bersluconi fosse rivolto verso tutti gli Italiani, e non soltanto nei riguardi di quanti lo avessero votato. In ogni caso, ha affermato che, quand’anche non potesse condividersi la qualificazione di “contratto”, resterebbe comunque quella di promessa al pubblico, intesa come dichiarazione unilaterale non recettizia e vincolante per il solo promittente, avente per oggetto una prestazione di fare (nel caso di specie, il non ricandidarsi) a favore di quanti si trovino in una determinata situazione (nel caso di specie, i cittadini italiani, destinatari della promessa).
In quest’ottica, a suo dire, gli obiettivi indicati nel cd. “contratto con gli Italiani” dovevano considerarsi quali condizioni sospensive dal cui verificarsi dipendeva l’esito dell’obbligazione promessa. Quanto poi al preteso carattere indisponibile del diritto dedotto, ai sensi dell’art. 51 Cost., ha evidenziato la necessità di contemperare i diritti in gioco e la libera e consapevole rinuncia manifestata dal promittente. Da ultimo, in merito alla regolamentazione delle spese, il reclamante ha contestato la decisione del primo Giudice, in considerazione della assoluta novità, peculiarità e complessità delle questioni trattate, che avrebbero senz’altro giustificato la compensazione integrale delle stesse, anche in considerazione del rigetto di alcune delle eccezioni preliminari sollevate dalle avverse difese.
Il Tribunale ha fissato per la discussione l’udienza del 2.5.06.
Notificato il reclamo, si sono nuovamente costituiti, anche in questa fase, sia l’On.le Silvio Berlusconi in proprio, sia la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
L’on.le Silvio Berlusconi in proprio ha, preliminarmente, fatto rilevare che, essendo stato nuovamente eletto alla Camera dei Deputati, ed essendo già intervenuta la proclamazione degli eletti, trovava ulteriore conferma l’assunto difetto assoluto di giurisdizione, spettando soltanto alla Camera dei Deputati sindacare i titoli di appartenenza e le eventuali condizioni di eleggibilità. Con riguardo, poi, all’ordinanza di prime cure, ha evidenziato che l’affermazione circa la ritenuta sussistenza della giurisdizione era fondata sul criterio della prospettazione, laddove invece si sarebbe dovuto far riferimento al cd. petitum sostanziale, che in questo caso avrebbe dovuto condurre (in considerazione della richiesta di cancellazione dalle liste elettorali) ad una declaratoria di difetto assoluto di giurisdizione. Ha, poi, richiamato le difese svolte già in prime cure. Quindi, allo scopo di veder modificato il provvedimento reso dal Giudice designato relativamente alla condanna per responsabilità aggravata del reclamante, ha qualificato come “provocatoria” ed “ideologizzata” l’iniziativa del ricorrente, come confermato anche dal clamore attribuito alla stessa attraverso interviste rilasciate ad organi di stampa (e pubblicate col titolo “Fermate il Cavaliere”) e dalla proposizione e notificazione del reclamo malgrado la conclusione delle operazioni elettorali e l’avvenuta rielezione dell’on.le Silvio Bersluconi (ed il superamento di qualsiasi “imminenza” del pericolo lamentato). Ha poi evidenziato come il reclamo facesse riferimento ad una pretesa qualificazione del cd. “contratto con gli Italiani” in termini di atto di indirizzo politico, che non era stata attribuita né dalle parti né dal giudicante nella prima fase, e prospettasse a propria volta una qualificazione di quell’impegno elettorale in termini di promessa al pubblico, superando quella data in prime cure di contratto con obbligazioni del solo proponente, dimostrando, con la disinvolta mutevolezza delle tesi difensive, la consapevolezza dell’infondatezza delle stesse. Ha, quindi, nuovamente argomentato sulla non riconducibilità del cd. contratto ai canoni civilistici e, comunque, l’impossibilità di una sua analisi in sede giudiziaria ai sensi degli artt. 67 e 68 della Costituzione. Richiamate, per il resto, le altre difese già svolte in prime cure, ha insistito per la condanna del reclamante al risarcimento dei danni da lite temeraria, invocandone una liquidazione equitativa.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri, a propria volta, ha richiamato tutte le difese già svolte, ed ha evidenziato come l’avvenuta rielezione dell’on.le Silvio Bersluconi avesse reso ulteriormente inammissibili, anche ai sensi dell’art. 100 c.p.c., le pretese fatte valere dal reclamante e, contestata la nuova qualificazione del cd. “contratto con gli Italiani” nel senso di promessa al pubblico, ha contestato il reclamo anche relativamente alla richiesta di compensazione delle spese, concludendo per il rigetto del reclamo e la condanna del reclamante al pagamento delle spese anche della presente fase.
A scioglimento della riserva formulata in udienza, il Collegio osserva:
deve preliminarmente considerarsi che il presente reclamo è stato trattato a consultazioni elettorali già avvenute: la proposizione dell’impugnativa cautelare in data 3 aprile 2006, infatti, non avrebbe consentito in alcun caso l’instaurazione di un rituale contraddittorio prima delle elezioni dello scorso 9 – 10 aprile.
Come le parti resistenti hanno sottolineato, l’on.le S. B. è risultato eletto anche in quest’ultima competizione, ed è già avvenuta la proclamazione degli eletti.
Ebbene, il Collegio rileva che il petitum della fase cautelare di prime cure, espressamente richiamato, relativamente ai punti a) e b) dell’originario ricorso, anche in questa fase, attiene alla richiesta di “disporre l’immediata cancellazione del nominativo di Silvio Bersluconi da tutte le liste (già depositate) dei candidati alla elezione alla Camera Nazionale dei Deputati del 9 – 10 aprile 2006” e di “inibire al dott. S. B. di ripresentare, su tutto il territorio nazionale, la propria candidatura alla elezione alla Camera Nazionale dei Deputati del 9 – 10 aprile 2006”.
Sotto tale profilo, ad avviso del Collegio è venuto meno l’interesse del ricorrente alla pronuncia cautelare.
Com’è noto, l’interesse ad agire – che prescinde totalmente dalla fondatezza nel merito della pretesa fatta valere – sorge dalla necessità di ottenere dal processo la tutela dell’interesse sostanziale dedotto, e presuppone, pertanto, non solo l’affermazione di tale lesione, ma anche l’idoneità del provvedimento domandato a proteggerlo.
Nel caso di specie, la proclamazione dell’elezione dell’on.le S. B., se non segna certo la cessazione della materia del contendere (che “presuppone che le parti si diano reciprocamente atto del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio e sottopongano conclusioni conformi in tal senso al giudice, potendo al più residuare un contrasto solo sulle spese di lite”: Cassazione civile, sez. III, 8 giugno 2005, n. 11962), determina l’evidente inidoneità del provvedimento invocato a proteggere l’interesse dedotto in giudizio ed asseritamente leso dalla condotta del resistente. Ed infatti, la cancellazione dalle liste dei candidati o l’inibizione alla candidatura non potrebbero più sortire l’effetto voluto, per la loro intrinseca inidoneità, una volta espletatosi l’iter elettorale, a paralizzare la candidatura (e l’elezione) del Silvio Berlusconi.
La carenza di tale condizione dell’azione, senza dubbio rilevabile anche d’ufficio (ma l’Avvocatura Distrettuale dello Stato vi ha fatto esplicito, per quanto fugace, cenno), non potrebbe d’altro canto essere superata con l’astratta adozione di provvedimenti di decadenza o di accertamento dell’insussistenza delle condizioni di eleggibilità, dal momento che questi ultimi (oltre che esulanti dal petitum) sono esclusivo appannaggio della Camera di appartenenza dell’eletto (e, sotto tale profilo, sussisterebbe il più volte invocato – da parte dei resistenti – difetto assoluto di giurisdizione).
Tale necessitata conclusione non esonera, peraltro, il Collegio dal riesaminare la pretesa fatta valere dall’avv. Giancone: e ciò anche ai fini della valutazione della fondatezza o meno del reclamo principale relativamente alla regolamentazione delle spese, e di quello incidentale relativo alla chiesta condanna del ricorrente al risarcimento dei danni da lite temeraria.
Ebbene, il Collegio ritiene che il provvedimento oggetto di reclamo fosse nel merito sostanzialmente da confermare.
Relativamente alla posizione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, peraltro, il Tribunale osserva che, più che una “perplessità” della domanda, come sostenuto dalla difesa erariale, ricorressero tutte le condizioni per una declaratoria di difetto di legittimazione passiva.
Ed infatti, P. G., nell’invocare il cd. “contratto con gli Italiani” che l’on.le Silvio Berlusconi propose in vista delle elezioni politiche del 2001 e nel richiedere, in via cautelare ed urgente, l’adozione di provvedimenti atti a garantire l’osservanza dell’impegno a non ricandidarsi per il caso di mancato rispetto di almeno 4 dei 5 punti programmatici, faceva valere, con ogni evidenza, un impegno (sulla cui natura si tornerà oltre) assunto personalmente dall’uomo politico, in nome proprio. In nessun modo, invece, era coinvolta la presidenza del Consiglio dei Ministri, che all’epoca di quella promessa non era rappresentata dall’on.le Silvio Berlusconi. Del resto, il provvedimento cautelare invocato nei due punti sopra richiamati non coinvolgeva in alcun modo la Presidenza del Consiglio, nei cui confronti però il P. G. ha inteso ugualmente instaurare il giudizio cautelare evocando in giudizio Silvio Berlusconi non solo in proprio, ma anche nella qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri, e notificando pertanto l’atto anche all’Avvocatura Distrettuale dello Stato (il che vale a fugare qualsiasi dubbio sul fatto che la Presidenza del Consiglio fosse realmente parte del giudizio).
Sotto tale profilo, dunque, più corretta sarebbe risultata una statuizione di carenza di legittimazione passiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri, risultando negativamente condotta l’analisi, da svolgere anche questa d’ufficio ed in via preliminare al merito, “dell’astratta coincidenza dell’attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, sono destinatari degli effetti della pronuncia richiesta” (Cassazione civile, sez. lav., 24 marzo 2004, n. 5912).
Nel merito, sussisteva, ad avviso di questo Collegio, la giurisdizione a decidere, così come già ritenuto dal primo Giudice.
Infatti, contrariamente a quanto ritenuto dai resistenti, la richiesta del ricorrente non aveva riguardo né a profili relativi all’eleggibilità o meno dell’on.le S. B., né alla coercibilità giuridica dell’attuazione del programma politico che questi presentò nella forma del cd. “contratto con gli Italiani”.
Ciò che il P. G. poneva a base delle sue richieste in fase cautelare era soltanto quella clausola del cd. “contratto” con cui l’on.le S. B. si impegnava a non ripresentare la propria candidatura alle successive elezioni politiche nel caso di mancata attuazione di almeno 4 dei 5 punti programmatici. In questo senso, il Collegio reputa che non rilevi neanche l’esigibilità o meno, sul piano giuridico, di quegli impegni programmatici – come pure ipotizzato dal primo Giudice – dal momento che il ricorrente non invocava (e non si vede, del resto, come avrebbe potuto) il rispetto di quei punti programmatici, ma solo della promessa di non ricandidarsi a fronte del mancato conseguimento di almeno 4 “traguardi”.
Ultroneo appare anche il riferimento alle cause di ineleggibilità dei candidati o alla tipicità delle forme e delle azioni con cui ottenerne la declaratoria in sede giudiziale o ad opera delle Camere di appartenenza: in questa sede si trattava preliminarmente di stabilire se esistesse, o meno, un impegno a non ricandidarsi da parte dell’on.le S. B. (al verificarsi di determinate condizioni) che l’avv. Giancone potesse far valere.
Tale analisi conduce ad avviso del Collegio ad un esito negativo, come già affermato dal primo Giudice.
Il ricorrente, odierno reclamante, si è sforzato di dare una qualificazione giuridica del cd. “contratto con gli Italiani”, ipotizzando che si tratti di un contratto con obbligazioni a carico del solo proponente, ovvero di una promessa al pubblico.
Ma, sul punto, il Collegio ritiene che correttamente il primo Giudice abbia escluso la sussumibilità della fattispecie entro schemi giuridici. Al di là, infatti, del “nomen improprio” (così l’ordinanza oggetto di reclamo), sia che si voglia configurare quel cd. “contratto” come un’offerta al pubblico, sia che la si voglia intendere come una promessa al pubblico, occorrerebbe pur sempre attribuire a quell’impegno i crismi della vincolatività giuridica, e dunque, di un impegno volto a costituire un rapporto giuridico – patrimoniale.
Ed al contrario, è del tutto evidente (e non si vede come si possa intenderlo differentemente, specie da un “tecnico” del diritto, quale l’avv. Giancone) che quella serie di “traguardi” assunti con gli elettori, e, per ultimo, l’impegno a non ricandidarsi, non fossero altro che strumenti di “marketing”, volti ad introdurre forme di comunicazione nuove nel panorama politico.
Nulla, peraltro, poteva indurre a ritenere che quegli impegni avessero una qualche rilevanza sul piano giuridico: la estrema opinabilità dei modi di verifica del raggiungimento dei cd. traguardi (al punto che, allo stato, non vi è accordo nel dibattito politico né sui dati né sulle valutazioni e sui giudizi da trarne), la sede e le modalità della stipula (nel pieno della campagna elettorale, momento notoriamente di “promesse” di ogni tipo), la difficoltà – ove si qualifichi l’atto come offerta – di verificarne l’accettazione (genericamente indicata nel “voto degli italiani”), e la stessa singolarità della “sanzione per l’inadempimento”, consistente nella non ricandidatura dell’offerente/promittente alle elezioni politiche, opzione, questa, ai limiti del “giustiziabile”, col rischio, denunciato dai resistenti, di sconfinamento del Giudice dai suoi poteri e di lesione di diritti e prerogative costituzionalmente protette.
In altre parole, il carattere propriamente propagandistico di quella iniziativa era talmente palese da non poter indurre nessuna persona dotata di normale discernimento a fidare sulla sua vincolatività, e soprattutto sulla sua esigibilità giuridica; e, se può lasciare perplessi il ricorso ad una veste grafica e l’impiego di una terminologia quasi notarile per dare maggior risalto e massima presa a programmi e a promesse di stampo elettoralistico, questo non rende credibile – se non a costo di una palese forzatura – che soggetti, peraltro tecnici del diritto, possano avere equivocato sull’esatta portata di quella comunicazione televisiva.
Va, pertanto, confermata sul punto l’ordinanza impugnata.
Sulla premessa della correttezza nel merito della decisione impugnata, può ora esaminarsi il reclamo (principale ed incidentale) per la parte per la quale residua un interesse delle parti.
Il P. G. si duole del fatto che il primo Giudice, nel regolamentare le spese del procedimento, lo abbia condannato nei confronti dei resistenti. A suo dire, infatti, la assoluta novità, peculiarità e complessità delle questioni trattate erano tali da giustificarne la compensazione, anche in ragione del rigetto di alcune questioni pregiudiziali sollevate dai resistenti.
Anche su questo punto, ad avviso del Collegio, il reclamo è infondato.
è, infatti, sicuro che quelle trattate siano questioni nuove; ciò non toglie che si trattasse di una prospettazione – a parte i dubbi sulla strumentalizzazione politica dell’iniziativa avanzati dai resistenti – palesemente infondata, tale da giustificare pienamente la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di lite. Né è a parlarsi di una soccombenza reciproca per il fatto che alcune delle questioni pregiudiziali siano state disattese, sia dal primo Giudice che da questo Collegio: nel merito, comunque, la pretesa cautelare si è rivelata del tutto insussistente, e tale da determinare la regolamentazione delle spese sulla base del consueto criterio della soccombenza; criterio che, conseguentemente, dovrà ispirare anche la regolamentazione in questa sede di gravame.
I resistenti/reclamati, a loro volta, si dolgono del rigetto da parte del primo Giudice dell’istanza di condanna del P. G. al risarcimento dei danni per lite temeraria, sull’assunto del mancato assolvimento dell’onere probatorio in ordine all’effettivo pregiudizio.
Sul punto, è sì vero – come dedotto dalla difesa dell’on.le S. B. – che l’eventuale pregiudizio cagionato da un’iniziativa condotta con mala fede o colpa grave può essere desunto sulla base di nozioni di comune esperienza, in ragione del tipo di iniziativa intrapresa dall’avversario; e, tuttavia, ad avviso del Collegio, se la modalità dell’iniziativa giudiziaria può essere sintomatica della lite temeraria, l’art. 96 c.p.c. è pur sempre finalizzato ad un ristoro di un pregiudizio suscettibile di valutazione patrimoniale che, nel caso di specie, risulta inconfigurabile.
In definitiva, va dichiarato il sopravvenuto venir meno dell’interesse del reclamante all’istanza cautelare, confermando per il resto il provvedimento impugnato.
Il reclamante va condannato al pagamento delle spese anche del presente grado, che si liquidano, in favore di ciascuna delle parti costituite, in complessivi euro 2.171,75, di cui euro 50,00 per spese, euro 161,00 per diritti (voce 75 della tabella B della tariffa forense), euro 1.725,00 per onorario di avvocato (voce 50 della tabella A della tariffa forense) ed euro 235,75 per rimborso spese generali, oltre IVA e CPA come per legge.
PQM
Il Tribunale, pronunciando in merito al reclamo proposto nell’interesse di P. G. avverso il provvedimento emesso dal Giudice di questo Tribunale in data 30 – 31.3.2006, dichiara la sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente;
rigetta, per il resto, il reclamo proposto;
condanna il reclamante al pagamento delle spese della presente fase, liquidate in favore di ciascuna delle parti resistenti in complessivi euro 2.171,75, oltre IVA e CPA come per legge.
Si comunichi.
Così deciso in Napoli, nella Camera di Consiglio della IV sezione civile, in data 3.5.2006. Il Presidente est.
A dire il vero quello di Giancone non fu il solo caso: vi fu anche quello della signora Ida Severini, una pensionata che convenne Berlusconi davanti al giudice di pace di Roma, assistita dal Codacons e da Antonio di Pietro, perché non aveva ottenuto l’aumento di pensione promesso.
Il 14 febbraio 2018 si Berlusconi si è poi ripresentato allo scranno di Porta a Porta per sottoscrivere un nuovo contratto con gli italiani, definito – chissà se proprio per evitare ulteriori spiacevoli equivoci – più semplicemente: “impegno“.
Ma cosa c’è in nome? Ciò che chiamiamo contratto, impegno, accordo di o tra politici, patto di governo o anche con un altro nome conserva sempre il suo profumo di promessa elettorale, che vale giusto l’istante di un sorriso smagliante o di uno sguardo inutilmente greve.
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