L’Assemblea costituente al microscopio
L’Assemblea costituente ebbe, sicuramente, il merito di aver donato uno spirito democratico e una coscienza civica al popolo italiano, distrutto dalla guerra civile e con una profonda frattura tra Nord e Sud acutizzata dal divisivo risultato del referendum istituzionale. La futura Costituzione avrebbe quindi dovuto non solo garantire un ordinamento democratico, ma anche, finalmente, “fare gli italiani” superando i buoni propositi falliti dopo il Risorgimento.
Il retroterra giuridico idoneo alla sedimentazione della futura scelta democratica di un’assemblea costituente scaturì sostanzialmente da due episodi: la sostituzione della guida monarchica di Vittorio Emanuele III con la Luogotenenza del figlio Umberto del 12 aprile 1944 (il cd. compromesso De Nicola, in tributo al lavoro giuridico e di intermediazione effettuato dal futuro Capo provvisorio della Repubblica) e il decreto-legge luogotenenziale del 25 giugno (due settimane circa dopo la liberazione di Roma) dello stesso anno, il quale previde un’Assemblea costituente eletta a suffragio universale al termine della guerra.
Il compromesso De Nicola ebbe l’effetto di depotenziare l’istituto monarchico degradando la figura simbolica della Corona e ponendo le basi per una legittimazione definitiva della futura forma di Stato solo in base ad una consultazione popolare. Ragione per cui a poco più di due mesi dal compromesso il Governo a coalizione del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) ebbe la materiale possibilità di delegare tutto ad un’opzione democratica.
Su queste basi il secondo Governo Bonomi ebbe, poi, la possibilità il 5 aprile 1945 di effettuare delle prime prove “tecniche” di democrazia. Fu convocata una Consulta nazionale composta su designazione dei partiti del CLN, organizzazioni sindacali, reduci e partigiani, con compiti di controllo politico e di parere sugli atti normativi del Governo: parere obbligatorio in caso di leggi a carattere costituzionale, di bilancio, consuntivi, elettorali e tributarie. Un primo modello di assemblea politica rappresentativa degli organi di intermediazione democratica come, appunto, i partiti, i sindacati e personalità protagoniste della Resistenza e del recente conflitto bellico. Sicuramente, non un’assemblea parlamentare di stampo liberal-democratico, ma un simbolo di ripresa e di ritorno a sedi istituzionali in cui le maggiori questioni di rilievo politico potessero essere discusse e dibattute e non delegate al libero arbitrio del potere esecutivo. Parere chiave fu quello dato alla legge elettorale per la composizione della futura Assemblea costituente (Decreto legislativo Luogotenenziale n. 98 del 18 marzo 1946): la Costituente sarebbe stata eletta a suffragio universale senza distinzione di genere, utilizzando il metodo proporzionale e dividendo l’Italia in circoscrizioni con collegi plurinominali (i seggi non attribuiti tramite i collegi plurinominali sarebbero confluiti in un collegio nazionale unico che li avrebbe suddivisi sulla base delle proiezioni proporzionali dei voti dati nei collegi). Il proporzionale avrebbe di lì garantito la più ampia rappresentatività delle diverse anime politiche sopravvissute alle lacerazioni dei vari conflitti.
Alle elezioni del 2 e 3 giugno 1946 furono contati 23.010.479 voti validi su una base di quasi 25 milioni di aventi diritto. L’Assemblea costituente si riunì per la prima volta il 25 giugno successivo. I seggi attributi furono 556 con l’ottenimento della maggioranza relativa da parte della Democrazia cristiana con il 35,21% dei voti, seguita dal blocco social-comunista (rispettivamente 20,68 per i socialisti e 18,93 per i comunisti) che complessivamente totalizzò quasi il 40 % dei voti. In successione i vari fronti minori di centro (cristiano e laico), di sinistra e le rappresentanze partitiche territoriali (Movimento per l’Indipendenza della Sicilia, Partito Sardo d’Azione etc.): spiccarono anche delle minime percentuali ma, comunque, significative come i movimenti d’ispirazione monarchica e della destra. La prima assemblea politica eletta democraticamente a suffragio universale e diretto procedette, poi, tre giorni dopo la sua prima riunione a eleggere, dando corso ufficialmente al verdetto della Cassazione del 10 giugno che stabilì nella conta dei voti la vittoria della Repubblica, il Capo provvisorio dello Stato in Enrico De Nicola, l’uomo che pose la prima pietra del lungo processo di transizione costituzionale.
L’Assemblea ottenne il mandato dal Decreto luogotenenziale n.98 del 1946 di redigere la nuova Costituzione ed ex art.3 del decreto del potere di fiducia (diede la fiducia a tre dei 5 Governi De Gasperi) e dell’esercizio della funzione di controllo parlamentare, di esercizio della funzione legislativa in materia costituzionale, legge elettorale, legge di autorizzazione a ratifica dei trattati internazionali su qualunque argomento per il quale il Governo ritenesse opportuna una deliberazione dell’Assemblea: per le restanti materie restò l’esercizio esclusivo governativo. Il successivo art. 4 indicò un termine di adozione del testo costituzionale in otto mesi dalla prima riunione con una possibile proroga di quattro: la Costituente avrebbe goduto di altre due proroghe adottate con singole leggi costituzionali, una al 24 giugno 1947 e l’ultima al 31 dicembre 1947.
La composizione assembleare si scolpì per un verso su un modello parlamentare “classico”, componendosi di 2 Giunte (elezioni e regolamento interno), 8 Commissioni permanenti (inclusa la Commissione dei 75), 12 Commissioni speciali e 5 Commissioni per l’esame dei disegni di legge dell’Assemblea. Ma il cuore risiedette nella cd. Commissione dei 75 o Commissione permanente per la Costituzione: un organo interno di 75 membri con tre sottocommissioni interne (la 1° con compiti di redazione della parte sui diritti e doveri, la 2° sull’organizzazione costituzionale e la 3° sui rapporti economici e sociali) e una di coordinamento (cd. Comitato dei 18) deputato alla sola redazione della nuova Carta costituzionale. I 75 terminarono i lavori nel gennaio 1947 in sede referente, riportando in Assemblea il dibattito sulle modifiche e la finale approvazione, avutasi il 22 dicembre 1947.
Tante storie di donne e uomini protagonisti della Resistenza, dell’Accademia e della classe dirigente del defunto ordinamento monarchico presero parte ai lavori e alla redazione del testo costituzionale. La componente femminile battezzò il suo ingresso ufficiale nel mondo delle istituzioni contando solamente su 21 personalità per la maggior parte provenienti dal mondo dell’insegnamento, della lotta sindacale, ma accomunate da storie di confino, di arresti politici, di militanza politica e di lotta partigiana: per citarne alcune come Leonilde Iotti, prima donna alla guida di un ramo del Parlamento, Maria de Unterrichter Jervolino, che giocò un ruolo chiave nella Sottocommissione per i trattati internazionali di pace o storie più apparentemente semplici di madri di famiglia incarcerate per la loro militanza anti-fascista come Adele Bei.
I rappresentanti dell’Accademia sarebbero risultati come i più ricordati e citati non solo dalla letteratura giuridica e scientifica, ma altresì nell’immaginario collettivo come Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando, Costantino Mortati, Piero Calamandrei, Giuseppe Dossetti, Luigi Einaudi, Egidio Tosato, Giorgio La Pira, Aldo Moro, Umberto Nobile, Giovanni Leone e tanti altri. Ma si vuol sottolineare anche il ruolo chiave giocato dalla lingua italiana e dall’attenzione dedicata dall’Assemblea per una redazione che fosse “chiara”, riprendendo le idee di Piero Calamandrei in un suo intervento assembleare del marzo 1947 e di Gustavo Ghidini che affermò come ogni discussione sulle parole da usare dovesse tenere “[…] tra le mani una bilancia per pesare le parole, una bilancia la quale ha una sensibilità che è ancora maggiore di quella dell’orafo […]” a vantaggio di un popolo in cui il tasso di analfabetismo era ancora molto alto. Perciò si affidò la revisione linguistica delle bozze ad una Commissione di letterati, composta da Pietro Pancrazi (illustre letterato e membro dell’Accademia della Crusca che lavorò come consulente), Concetto Marchesi (PCI) e Antonio Baldini, che lavorò in stretta sinergia con i Costituenti per ricercare le parole più chiare e che maggiormente rispecchiassero le volontà dei padri costituenti. Baldini avrebbe affermato all’inizio dell’incarico: “[…] Come si fa a mettere in buon italiano una Costituzione scritta metà in latino e metà in russo? […]”, facendo riferimento alla missione di sintesi linguistica delle due anime politiche principali: quella cattolica e quella social-comunista.
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Una menzione speciale va agli esponenti che traghettarono il processo di transizione costituzionale tra i due ordinamenti, a personalità cioè come Vittorio Emanuele Orlando, Ivanoe Bonomi e Francesco Saverio Nitti. Tre ex Presidenti del Consiglio durante la Monarchia con ruoli chiave giocati nelle sorti del vecchio ordinamento liberale ed eletti in Costituente. Al netto delle difficili ricostruzioni dei legami avuti con il regime fascista (come con la figura di Vittorio Emanuele Orlando) e della, invece, sempre dichiarata avversione al regime autoritario, giuridicamente e politicamente il loro contributo ebbe un peso decisivo per il sogno democratico del Paese, in quanto la loro presenza garantì alla metà della nazione legata alle istituzioni e i simboli del vecchio ordinamento monarchico la possibilità di arrivare ad una transizione costituzionale pacifica e legata al rispetto dello Stato di diritto. Come a dire che quando una squadra si trova in acque burrascose serve sempre un esperto traghettatore che consenta di superare la tempesta!
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