Continuiamo il nostro percorso in compagnia della storia delle pene di Hans von Hentig, per scoprire i supplizi che hanno avuto più fortuna nel corso dei secoli. In questo secondo appuntamento vi parliamo della pena del rogo.
«Il fuoco più che qualsiasi altro elemento presenta l’aspetto di un Giano bifronte. Ora benevolo, ora distruttore, agisce nell’uno e nell’altro caso profondamente e assai diversamente sulla psiche umana», così Hans von Hentig apre l’analisi genealogica sulla pena del rogo.
Come aveva fatto per l’acqua, illustrando il supplizio dell’annegamento, von Hentig esordisce rilevando il valore simbolico e sacrale che fin dai tempi più antichi ha assunto l’elemento del fuoco. Non solo: come per l’elemento acquatico, anche in questo caso il fattore geografico costituisce un criterio fondamentale per comprendere il ruolo e l’utilità che il fuoco ha assunto nelle civiltà antiche. Infatti, nelle regioni vulcaniche come l’Islanda la tendenza a deificare il fuoco era più spiccata rispetto alle regioni ricche di steppe sterminate come la Persia, dove il fuoco è maggiormente sommesso alle volontà dell’uomo.
I roghi sacrificali
Le religioni degli ultimi tre millenni, sostiene von Hentig, si sono evolute da un mondo primitivo, «più rozzo e più fiero». Le antiche divinità del fuoco furono progressivamente degradate e sconfitte, senza mai però essere estirpate del tutto. Nel corso dei secoli, le figure dei demoni malvagi ereditarono il loro carattere ostile dalle cosiddette divinità ‹‹quasi sconfitte›› e il loro regno diventò il luogo infernale dove si scontano gli errori compiuti in vita. La dignità che incarnavano le antiche divinità del fuoco, invece, trapassò (senza essere degradata) alle nuove divinità, che assumevano spesso i «segni esteriori» delle potenze antiche (il fulmine per esempio).
Ma, come ricorda von Hentig, «oscuri ricordi di queste potenze del fuoco così adorate nella preistoria vivono ancora nelle superstizioni con tenacità che indica che esse non sono morte naturalmente, ma sono state semplicemente sopraffatte da una nuova ondata di formazioni culturali diverse». Secondo il nostro autore nelle religioni è presente una matrice essenziale (quindi irriducibile) che si perpetua nel tempo assumendo per ogni civiltà diverse forme.
Negli stessi anni di von Hentig (sarà un caso?), anche Aby Warburg rilevava la presenza in vari popoli nella storia di alcune “pathosformel”: una matrice irriducibile che permane nel tempo (non solo in ambito religioso, ma in tutti gli aspetti della cultura), assumendo di volta in volta forme diverse, in base a credenze e costumi delle civiltà.
Von Hentig conclude la breve digressione poeticamente: «Perché nulla muore di ciò che è violentemente estinto da una forza estranea».
Da queste premesse, risulta abbastanza facile da intuire quale significato potesse assumere il sacrificio del rogo. In primo luogo, si trattava di un sacrifico alla divinità consumatrice e distruttrice del fuoco. Pensiamo in questo caso alle religioni in terre vulcaniche: Messicani, Peruviani, Fenici e Cartaginesi.
Il secondo significato emerse con l’avvento del cristianesimo, quando il rogo trovò un ruolo anche in quelle che oggi chiameremmo “cause civili”.
I roghi espiatori
Nel Medioevo, il supplizio del rogo era lo strumento per l’eliminazione del criminale, inteso come unica “barriera” che separa il malvagio dal resto della comunità. Il condannato veniva denudato, legato e rasato e poi bruciato. Lo si faceva in modo tale da distruggere contemporaneamente anima e corpo. I reati espiati con il rogo erano diversi: magia, eresia, incesto, sodomia, addirittura il suicidio. Non solo, i nomi delle vittime venivano incise nel libro dei fuori-legge in segno di eterna punizione, proprio come Lucifero. Von Hentig riassume: «In tutte queste cerimonie ritorna insistente il concetto per il quale al fuoco è affidata la missione di distruggere, di estraniare una persona od un fatto dal seno della società».
La concezione del fuoco sacrificale poggia sulla concezione primitiva del fuoco magico, che nelle sue molteplici accezioni si riscontra nel culto vedico, secondo cui il fuoco è l’arma per distruggere ogni malvagio incantesimo. Il retaggio del fuoco magico non si può negare, soprattutto quando, nel Medioevo, le streghe e gli eretici venivano bruciati. Infatti Heting afferma: «nel subcosciente del giudice agiva il preistorico concetto del fuoco che scaccia e distrugge i demoni».
Dagli Egizi ai Greci
Ma ora analizziamo più da vicino le concezioni della pena per diversi popoli, incominciando proprio da quel popolo che non riconosce il rogo come pena: gli Ebrei. Per il popolo ebraico il rogo era considerato un trattamento ignobile del cadavere del condannato. Il motivo di questa “scelta di costume” è riconducibile, molto probabilmente, alla volontà di differenziarsi dall’altro popolo di circoncisi, gli Egizi, i quali veneravano il Dio del fuoco Raal e praticavano il culto del sacrificio mediante il fuoco. In particolare, come ci racconta Diodoro, durante i giorni di celebrazione del dio Anubi (divinità canina), venivano bruciati vivi alcuni individui detti Tifoniani, cioè uomini dai capelli rossi (suppongo si trattasse di Ebrei). Lo stesso Diodoro ci informa che, in epoca più antica, vennero sacrificati individui con i capelli rossi dal Faraone sulla tomba di Osiride.
In Grecia, grazie alla parola di Omero (in particolare negli ultimi canti dell’Iliade), sappiamo che per la morte di Patroclo fu eretta una pira colossale, sulla quale furono uccisi e gettati – oltre alle consuete offerte di olio e miele – quattro cavalli, due cani e dodici prigionieri troiani. Per gli eroi omerici la cremazione era considerata il passaggio dal mondo dei vivi ai Campi Elisi.
Una versione completamente ribaltata risulta da ciò che ci racconta Erodoto (III-16): i Persiani consideravano il fuoco come una divinità e di conseguenza sarebbe stato empio mettere sullo stesso piano l’uomo e il divino.
Il fuoco a Roma
Come per la pena dell’annegamento, la svolta giuridica avviene con il ius proprium civium Romanorum. A Roma fino alla fine del IV secolo d.C. visse il culto di un’antica divinità del fuoco dal nome Vesta. Il sacro fuoco era controllato dalle Vestali, un ordine di sacerdotesse di origine antichissime, e lo spegnersi del fuoco preannunciava grande sciagura nazionale.
Svetonio ci informa che la principale forma di cerimonia funebre a Roma era proprio il rogo. Racconta in particolare come tutto il popolo si fosse ammucchiato presso la pira di Giulio Cesare gettando le insegne delle cariche, vesti di fanciulli e ornamenti di donne.
Nel diritto romano la morte sul rogo fu conosciuta all’inizio solo come una pena «riflessa»: ovvero chiunque incendiasse le abitazioni doveva morire allo stesso modo. Esempio lampante è il terribile incendio di Roma, che fra gli altri distrusse gli antichissimi tempi di Diana e di Vesta. Nerone fece accusare come autori del misfatto i cristiani, che – secondo il diritto processuale romano – furono ricoperti di pelli di animali, sbranati dai cani o inchiodati a una croce, prima di essere bruciati vivi.
Il rogo era considerato nel diritto romano una pena molto severa ed era tipica in occasione di linciaggi. La pena poteva essere aggravata rivestendo il condannato con una specie di camicia di Nesso composta di stoffa e materiale infiammabile. Giovenale e Seneca evidenziano un ulteriore particolare del supplizio: i condannati venivano prima impalati e poi arsi.
L’incendio era messo sullo stesso livello dell’assassinio, un paragone che ci pare strano, ma d’altronde il contesto politico dell’epoca associava l’incendio doloso con atti di ribellioni (lo stesso si riscontra nelle popolazioni germaniche). Nelle epoche più antiche il pericolo era minore, essendo le abitazioni isolate: era più un problema per il singolo individuo, soprattutto perché gli strumenti per combattere un incendio non c’erano e il materiale delle case era altamente infiammabile (legno, paglia misto argilla). Ancora oggi, il pericolo che minaccia di più i contadini è il fuoco, pertanto «è connaturata alla psiche dei contadini la convinzione che l’incendio doloso sia il reato più grave». Non a caso, anche quando diversi popoli raggiungessero alti gradi di civiltà, per quanto la pena di morte fu ridotta progressivamente, quasi sempre la si lasciò per casi di incendio doloso. Per esempio, nella legge anglosassone l’incendio doloso è trattato come uno dei reati più gravi, sullo stesso piano dell’assassinio e del tradimento al proprio padrone.
La “prova” del fuoco
A ogni modo, la prassi medievale di bruciare gli eretici non è fondata sulle pene pagane a cui abbiamo fatto riferimento, ma eredita una concezione del fuoco purificatore che proviene dall’Oriente. Il fuoco come strumento punitivo è tipico della tradizione giudaico-cristiana: una funzione derivata dal sole orientale, che con il suo calore – si diceva – poteva escoriare la pelle delle persone. Il fuoco infatti, secondo la concezione cristiana tormenta le anime nella fornace ardente infernale ed è la più naturale e tradizionale forma di punizione.
Oltre alla pena di morte, ci sono anche due procedure giuridiche che prevedono il fuoco: il giudizio divino mediante la “prova” del fuoco e la distruzione mediante un incendio. Entrambe sono una contaminatio tra una concezione popolare di tipo magico e una concezione orientale.
Per quanto riguarda la distruzione mediante incendio, si metteva a fuoco la dimora del nemico. Non solo per impedirne il ritorno dopo la sconfitta, ma anche per scacciare l’infezione che aveva provocato. La dimora quindi andava distrutta insieme alla famiglia e al bestiame. Operazione ben conosciuta nel Medioevo germanico, ma altrettanto conosciuta dalle nostre società di massa in tumulto!
Per quanto riguarda invece il giudizio di dio tramite la prova del fuoco, Grimm racconta dettagliatamente in cosa consisteva la prova: «l’accusato camminava su vomeri infuocati, o doveva portare a mani nude un pezzo di ferro infuocato, oppure doveva camminare rivestito solo di una camicia (la leggenda parla di una camicia di cera) attraverso un braciere».
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Il giudizio divino risale a origini pagane, le quali con ogni forza resistettero nel corso dei secoli, nonostante l’avvento del cristianesimo. La morte di queste credenze pagane fu decretata quando il significato giuridico di tali credenze svanì del tutto. Oggi, ne è rimasto un retaggio solo nell’espressione “ci metto la mano sul fuoco”.
Tuttavia non si può sostenere che il ruolo sacrificale del fuoco sia scomparso completamente. Infatti, almeno all’epoca di von Hentig, persiste ancora in alcune occasioni: nella notte di Carnevale, Pasqua o nella notte di San Giovanni, in cui venivano bruciati svariati animali, soprattutto gatti e scoiattoli. I sacrifici al fuoco erano molto radicati, per esempio, nel popolo germanico. In Carinzia si offrivano al vento e al fuoco cibi vari, in modo tale da assicurarsi la protezione, oppure si credeva che buttando nel camino lardo e prosciutto ci si assicurasse la protezione da ogni incendio. In Boemia bisognava gettare nel fuoco qualcosa prima di ogni pasto. In Steigerwald (regione della Germania meridionale tra Würzburg e Norimberga), in occasioni di incendi nella foresta, bisognava gettare nelle fiamme dolci di Natale e Capo d’anno (a forma di animali e uomini!) nella fiducia che si spengano.
Infine, per concludere, «rossa è la lampada perpetua che nelle Chiese cattoliche simboleggia un artificiale, diremmo quasi addomesticato, fuoco d’adorazione».
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