Rivista Penale ci riporta la storia di una associazione criminale del XIX secolo, che si dotò di un regolamento particolarmente… curioso.
La storia che stiamo per raccontarvi risale alla fine del XIX secolo. Parla di criminalità, ma con risvolti a tratti davvero esilaranti.
Leggiamo infatti dalle pagine di Rivista Penale che a quel tempo esisteva una pericolosa associazione a delinquere, nata molto tempo addietro nelle Puglie. Molte volte si era tentato di cogliere in fallo i capi dell’associazione, ma non si riuscì mai finché, per merito della Procura del re a Trani, i malavitosi furono finalmente scoperti.
Nel corso di una perquisizione nella casa di uno dei capi, si trovarono alcuni documenti e si scoprì il nome di questa temibile e sfuggente associazione: “L’Infame Legge”.
A quel punto si trovò il bandolo della matassa, e in un colpo solo furono arrestati ben 50 affiliati dell’associazione malavitosa. Finalmente si arrestò anche il capo, un certo Ambrogio Galentino, ma soprattutto si trovò il Regolamento della Società della Legge per camorristi e picciotti.
Eccoci giunti quindi al fulcro della nostra storia. Il regolamento consisteva in ben venti articoli, che andavano a delineare un precisissimo codice d’onore!
Per entrare si pagava 3 lire. Ovviamente non erano ammessi gli sbirri e le guardie carcerarie, ma solo persone «fusiste» (?) e «svelte». I soci tra di loro dovevano chiamarsi fratelli. Il capo aveva un nome più specifico, cioè Sario, o sotto-maestro. Tutti, tranne lui, dovevano pagare all’associazione 60 centesimi al mese. Gli affiliati forestieri dovevano vendere tutti gli oggetti rubati e versare un quarto del ricavato alla cassa della società.
Durante il giuramento i passaggi da rispettare erano stringenti: «L’ammesso deve prestare giuramento e farsi pungere alla costa sinistra, e chi non vuole farsi pungere paga due tangenti, e non può essere avanzato camorrista; si può però pungere dopo». Durante il giuramento si dovevano recitare queste precise parole: «Giuro abbandonare famiglia e parenti e un piede alla catena e l’altro alla fossa».
Le regole erano chiare: difendersi l’un l’altro, rispettare i superiori, non dire mai la verità agli sbirri. Il malaugurato che non avesse rispettato il codice era punito con lo sfregio – che si poteva fare in due maniere: alla siciliana o alla guappa – o con la rascione (?). Se addirittura avesse parlato «il nome d’infamone sarà ucciso».
Tutti gli ammessi, poi, erano obbligati (chissà perché?) a imparare la scherma, e a riunirsi ogni domenica per esercitarsi insieme. Ogni quindici giorni contati, invece, ci si divideva il prodotto dei furti e della camorra.
Lo strambo regolamento si chiudeva infine con la fosca sentenza: «Fratelli, fedeltà o morte. Firmato, il Fratello maggiore. P. C. C.».
Questo non è l’unico Statuto di cui ci parlano i redattori di Rivista Penale, che devono essersi incuriositi a leggere e divulgare questi singolari regolamenti tanto quanto noi. Alla prossima!
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