Che la “giustizia” sia donna è un dato linguistico acquisito nella nostra cultura per l’uso millenario di termini da sempre di genere femminile. Dal greco dike al latino iustitia, l’uomo ha riconosciuto nella amministrazione giudiziaria il motore dello sviluppo della civiltà, dunque prosperità, fecondità e quindi: donna.
Eppure, l’effettiva presenza femminile nella giustizia è storia recentissima.
La parità numerica tra donne e uomini avvocato è oggi un dato acquisito e quasi scontato per chi frequenta le aule dei Tribunali. Eppure, appena un secolo fa nessuno avrebbe potuto vedere una donna patrocinare una causa. Il primo giuramento di una donna avvocato nel nostro Paese risale all’agosto del 1919.
Come mai l’accesso all’avvocatura da parte delle donne è avvenuto così in ritardo? E quali erano i motivi addotti per escluderle donne da tale professione?
In questo excursus proveremo a rispondere a queste domande e vedremo come, tra le rivendicazioni e la caparbietà di singoli illuminati, si arrivò alla conquista dei diritti.
La legge unitaria sull’avvocatura 8 giugno 1874, n. 1938
Quella degli avvocati fu la prima professione libera a essere disciplinata con una legge unitaria nel neonato Regno d’Italia. Informazione che non desta stupore, dato che la percentuale degli avvocati che, pur continuando a svolgere attivamente la professione, sedeva alla camera dei deputati sfiorava il cinquanta percento dei componenti (e molti altri erano professionalmente inattivi, pur essendo titolati a svolgere l’attività di avvocato).
La legge ebbe il pregio di superare i particolarismi delle molteplici discipline dettate negli stati preunitari, e di uniformare regole delicate e fondamentali come i requisiti di accesso alla professione.
Tra questi, la legge prevedeva che per assumere il titolo ed esercitare era necessaria l’iscrizione all’albo degli avvocati (art. 3) istituito presso i collegi di ogni Corte d’Appello e di Tribunale (art. 4 e 5). Per potersi iscrivere all’albo era necessario (art. 8): essere laureati in giurisprudenza, avere per due anni atteso alla pratica forense nello studio di un avvocato, avere sostenuto un esame teorico-pratico orale e scritto. Vi si prevedeva inoltre che la decisione circa l’iscrizione spettasse al locale consiglio dell’ordine, e che in caso di ricusazione dell’iscrizione l’aspirante potesse adire la Corte d’Appello, diritto che competeva anche al Pubblico Ministero nel caso la domanda fosse ammessa (art. 11). La legge prevedeva inoltre alcune incompatibilità (ad esempio con la professione di notaio o agente di cambio, art. 13) e altre dettagliate previsioni. Tra esse, tuttavia, nessuna prevedeva un requisito fondato sul genere o una esplicita esclusione delle donne.
Il silenzio della legge fu interpretato come una esclusione implicita, ritenuta scontata in un contesto politico e professionale con al centro l’universo maschile.
Le ragioni dell’esclusione, tuttavia, come vedremo nel prosieguo si posavano tutte su ragioni tutt’altro che prettamente giuridiche.
Il caso di Lida Poët
L’occasione per una interpretazione da parte della giurisprudenza della questione dell’accesso delle donne alla professione forense, anche sulla scorta di quanto taciuto più che previsto dalla legge, si presentò a pochi anni dalla sua entrata in vigore.
Era il 1881 e protagonista della vicenda fu Lidia Poët, al centro di un caso che chi frequenta questo sito da un po’ conosce bene.
La magistratura non si astenne dal ritenere il caso “singolare ed unico in Italia”. Lidia era una:
giovane donna, di distinta famiglia, che, superate le prove degli esami che aprono l’adito agli studi universitari […] intraprese lo studio delle scienze giuridiche, vi attese per tutto il tempo dalla legge prescritto, ebbe favorevole il giudizio delle commissioni per gli esami di promozione e di laurea, e conseguì il diploma di laurea in giurisprudenza;
Lidia si iscrisse come praticante e compì il suo percorso, con “impegno vivo e operosità intelligente, dimostrando e spiegandovi singolare e distinta attitudine”. Sostenne poi con esito favorevole l’esame teorico-pratico; e dopo questi “diuturni sforzi e faticosi studi”, fu ammessa all’Ordine degli Avvocati di Torino.
Purtroppo per lei, il Procuratore del Regno di stanza a Torino impugnò davanti alla Corte d’appello la decisione del locale ordine degli avvocati di ammettere tra le proprie fila la Poët.
I giudici torinesi avevano accolto la richiesta e ordinato la cancellazione dall’albo sulla scorta di considerazioni non sempre improntate sullo stretto diritto. Secondo la Corte la professione forense dovesse essere qualificata come un “ufficio pubblico”, il che comportava una ovvia esclusione, dato che l’ammissione delle donne agli uffici pubblici era oggetto di esplicite previsioni da parte della legge. Quando la legge taceva – come nel caso della legge sulla avvocatura – non era possibile interpretare il silenzio del legislatore alla stregua di una ammissione. Si trattava, tuttavia, di una argomentazione poco convincente dato che la stessa legge professionale – si è visto – qualificava quella forense come attività di carattere privatistico e non come ufficio pubblico.
La Corte aggiunse inoltre che anche considerazioni di carattere lessicale lasciavano propendere per l’esclusione, e ciò si ricavava dal fatto che la legge del ’74 non parlava mai di avvocato “al femminile”, non esistendo nel testo normativo la parola “avvocate”, o “avvocata” (se non nella tradizione cristiana).
Furono richiamati anche precedenti risalenti al diritto romano: l’esclusione, secondo la Corte d’appello torinese, infatti, era confermata anche dai principi dettati da Ulpiano che in un passo della legge §5, “de postul.” scriveva “dum feminas prohibet pro aliis postulare”. E tutto ciò senza considerare che stante la autorizzazione maritale, difficilmente l’uomo avrebbe dato consenso alla moglie avvocata.
Ma, oltre a questi dati di carattere formale, si diceva, i giudici si erano avventurati anche in argomentazioni più colorite. Ad esempio: le donne non potevano essere avvocato perché era inopportuno che convergessero “nello strepitio dei pubblici giudizi”, magari discutendo di argomenti imbarazzanti per “fanciulle oneste”; o che indossassero la toga sui loro abiti, ritenuti tipicamente “strani e bizzarri”, o – peggio – perché avrebbero potuto indurre i giudici a favorire una “avvocatessa leggiadra”, il che peraltro come osservato da alcuni, non rendeva certo onore alla stessa categoria dei magistrati cui apparteneva chi si era lanciato in una simile insinuazione. Una esclusione giustificata inoltre per la naturale la riservatezza del sesso, la sua indole, la destinazione, la fisica cagionevolezza ed in generale la deficienza in esso di adeguate forze intellettuali e morali, quali la fermezza, la severità, la costanza che avrebbero impedito alle donne di occuparsi di “affari pubblici”. Le donne, aggiungeva la Corte, non avrebbero nemmeno dovuto pretendere di divenire uguali agli uomini, anziché rimanerne le compagne “siccome la Provvidenza le ha destinate”.
Intervista al Corriere della Sera
All’indomani di quella decisione, che molto interessò l’opinione pubblica, il Corriere della Sera intervistò la giovane giurista. Quando il giornalista si presentò a casa della donna a Pinerolo, chiese dell’avvocato. Le risposero che l’avvocato non c’era, ma l’avvocata sì. Nel corso del lungo colloquio fu commentata la sentenza della Corte d’Appello, ma anche ripercorsa la carriera da studentessa della Poët . I compagni di corso, infatti, la avevano accolta
con molta curiosità ma con altrettanta benevolenza. Un professore mi chiese se voleva una sedia e un tavolino a parte, ma io rifiutai e presi posto nel primo banco da cui non mi mossi più. I compagni, debbo dirlo ampiamente, mi furono cortesissimi sempre ed ebbero riguardo nel tenersi a un po’ di distanza e, quando io arrivava nell’aula, cessavano di schiamazzare e di fumare… .
Il giorno dell’ultima lezione, ricorda, ebbe un encomio pubblico e uscì dall’aula tra gli applausi dei compagni e gli occhi appannati per l’emozione.
Nel giugno 1881, quando sia laureò, prosegue l’intervista, presero parte alla seduta oltre cinquecento studenti, e uscì tra due file di giovani plaudenti. Il senatore Bertea rivolse parole di ringraziamento in nome “dell’umanità e della libertà”.
Sembrava quello il preludio di una fulgida carriera senza intoppi. In realtà, Lidia Poët dovette attendere il 1920, ormai sessantacinquenne, per potere legittimamente giurare da avvocata
Nel corso della stessa intervista fu commentata la sentenza d’appello e annunciato il ricorso davanti alla Corte di Cassazione di Torino.
Ma nel 1884, la Corte di Cassazione di Torino sentenziò icastica: “La donna non può esercitare l’avvocatura”.
La sentenza si chiudeva però con una considerazione: un più esteso allargamento della condizione giuridica delle donne non poteva che venire da una apposita ed espressa previsione legislativa.
La Parola al Parlamento
Nel 1898, fu Ettore Socci, ex garibaldino, radicale, repubblicano, “caldo patrocinatore di tutte le rivendicazioni femminili in parlamento” e soprattutto uno dei pochi non avvocati in parlamento a sollevare per la prima volta alla Camera la questione dell’ingresso delle donne nella avvocatura. Socci riteneva “una barbarie, una cosa anticivile” fare ancora distinzione fra uomini e donne. Si presentò in aula a dicembre e chiese di mettere all’ordine del giorno l’invito al Ministero di grazia e giustizia a riconoscere il libero esercizio della avvocatura alle donne laureate in giurisprudenza.
Il discorso di Socci venne accolto dalla Camera dei deputati con derisione
Eppure la tesi in esso proposta era lineare e tutt’altro che avventata, e prescindeva anche da istanze femministe: dal momento che alle giovani studentesse era concesso di frequentare l’università e che lo Stato chiedeva loro le tasse per lo studio, appariva una truffa permettere loro di studiare e laurearsi, per poi trovare chiuse le porte dei Tribunali “quando si è lasciato che possano andare fino al limitare”. Si trattava, aggiunse Socci, di una proposta che aveva lo scopo di evitare che si rinnovasse ancora in futuro “il brutto spettacolo che è succeduto alla signorina Poët a Torino”.
La proposta fu respinta dalla Camera, e così commentata dal Ministro di Grazia e Giustizia Camillo Finocchiaro-Aprile:
Io rendo omaggio alla nobiltà dei sentimenti ai quali l’onorevole Socci si ispira. Quanto però ad ammettere la donna a certe pubbliche funzioni, osservo anzitutto essere preferibile, in principio, che essa eserciti, colle sue grazie e con la sua gentilezza, l’altissimo ufficio suo di sposa e madre
L’anno successivo, nel dicembre 1899 discutendo della legge di bilancio, Socci reiterò la medesima proposta, che incontrò tuttavia nuovamente l’avversità dell’aula, che reagì se possibile con ancora maggiore virulenza.
Al Ministro Adeodato Bonasi, già presidente del Consiglio di Stato, ripugnava l’idea di
insediare le donne nel Foro come avvocatesse e gettare sulle loro spalle l’inelegante indumento che è la toga
aggiungendo a ciò il rischio di aumentare la pletora degli avvocati, già percepiti numerosissimi. Secondo il ministro inoltre:
non si può ammettere la donna all’esercizio della avvocheria senza prima modificare parecchie disposizioni del Codice civili, e ad esempio basti accennare, che quando si tratta di donne maritate, prima di ricevere certi mandati esse dovrebbero ottenere l’autorizzazione del marito
Nella discussione prese parola anche Pasquale Grippo, avvocato e già docente di diritto costituzionale, relatore in quella occasione della legge di bilancio. Grippo, ricordando una “massima” di Cesare Balbo – primo presidente del consiglio del Regno di Sardegna – che quando parlava della funzione “sociale” della donna spiegava che la donna preferiva “vederla in casa, nelle mura domestiche, tutto al più in vettura, perché la vettura è la continuazione della casa”. Grippo aggiunse inoltre beffardo:
E non auguro all’amico Socci, non dico una moglie, ma una suocera avvocatessa.
Nel 1901, un nuovo tentativo. Socci ripropose alla Camera di mettere di accordare “alle giovinette le quali hanno frequentato gli studi legali all’Università l’esercizio della professione”. Ricordava di essere già stato oggetto di dileggio nelle precedenti tornate per la medesima istanza e chiedeva all’aula:
perché vogliamo dare al mondo il triste spettacolo di voler rimanere a ogni costo, attaccati come ostriche allo scoglio a quei vecchi pregiudizi, a quei vecchi privilegi che sono stati ripudiati da tutta la scuola positivista e che sono stati buttati fra le immondezze, da tutti coloro che sentono quale veramente sia la meta cui deve tendere il progresso sociale?.
Rispetto al passato, però, lo spirito dell’aula era mutato. Non si era entrati semplicemente in nuovo secolo, ma era stata inaugurata una nuova legislatura. In aula si respirava alito di modernità, grazie ai propositi del nuovo governo presieduto dall’illustre giurista Giuseppe Zanardelli. A Presiedere la Camera dei Deputati, peraltro, vi era l’avvocato Tommaso Villa, già membro del Consiglio dell’Ordine di Torino che era in carica quando anni prima quello stesso Ordine aveva (momentaneamente e fino alla estromissione giudiziaria) ammesso tra le sua fila Lida Poët.
In quel mutato clima, Ettore Socci poté esprimersi più liberamente e rivolgendosi ai colleghi avvocati li invitò a votare a favore della sua mozione per evitare loro di essere oggetto di critiche per tirare acqua al loro mulino, e chiuse il suo discorso con un accorato e applaudito appello:
siate umani e siate giusti, risparmiate al nostro Paese l’onta di vedere respingere una proposta ispirata a sentimenti di giustizia.
L’ordine del giorno quella volta fu approvato e Socci presentò una proposta di iniziativa parlamentare nell’aprile del 1902. In quella occasione ricordò che a tutto il 1900 erano appena sei le laureate in giurisprudenza e si scagliò ancora contro chi nutriva pregiudizi (“mi fanno l’idea di vecchi impotenti abbarbicati a tutti i pregiudizi passati, i quali spingono la loro cecità fino a far concorrenza al pazzo che con un soffio credeva di spegnere il sole”). La proposta passò in Commissione parlamentare e fu ripresentata alla Camera nel marzo 1904 per la discussione.
Nella seduta del 1 marzo prese parola il nuovo ministro guardasigilli, Scipione Ronchetti, anch’egli avvocato. Ronchetti era della convinta opinione che la legislazione vigente non vietasse l’ammissione alla avvocatura, citando a tale proposito l’art. 24 dello statuto e l’art. 1 del codice civile e che dunque la proposta Socci andasse approvata. E tuttavia, pure il ministro si augurò che la donna non fosse mai distratta dalla sua “suprema e divina missione” di compagna dell’uomo e di madre, e concluse invitando la camera a “fare l’esperimento”, convinto che i costumi avrebbero scongiurato la preoccupazione di una “legione di donne che prendono d’assalto i Tribunali” ricordando che anche nei paesi dove da tempo era libero l’esercizio della avvocatura per le donne la loro presenza era “relativamente insignificante”.
La proposta fu votata il 2 marzo 1904 e approvata con 115 voti favorevoli e ben 95 contrari. Il testo fu quindi trasmesso al Senato dove tuttavia si arenò per l’imminente fine della legislatura. I tempi non erano ancora maturi
Ettore Socci morì pochi mesi dopo, il 18 luglio 1905.
Il caso di Teresa Labriola
Nata nel 1874, lo stesso anno della promulgazione della legge sulla avvocatura, Teresa era figlia del filosofo Antonio Labriola. Si era laureata nel 1894 in giurisprudenza con una tesi sull’onore nei rapporti giuridici e fu la prima donna a ottenere la libera docenza in filosofia del diritto, fatto all’epoca già sensazionale se si considera che alla sua prima lezione accorsero anche numerosi giornalisti. Di lei, come fulgido esempio di impegno negli studi giurisprudenziali, aveva fatto cenno anche l’onorevole Socci nel discorso alla Camera del giugno 1902.
L’11 luglio 1912, a trenta anni di distanza da Lida Poët, aveva ottenuto l’iscrizione all’albo dell’ordine degli avvocati di Roma dopo avere svolto la pratica forense come stabilito dalla legge professionale.
Alla richiesta della Labriola, l’ordine romano aveva risposto positivamente osservando che “l’iscrizione nell’albo è un diritto che scaturisce da una pubblica funzione e non può essere impedito o limitato da ostacoli o da restrizioni non espressamente determinate dalla legge stessa, né trova una limitazione nel sesso, che non è stato ostacolo per la istante alla sua nomina ad una pubblica funzione”.
Ebbe il tempo di ricevere l’affidamento del gratuito patrocinio quale difensore d’ufficio un caso di vilipendio alle istituzione davanti alla Corte d’Assise di Napoli, ma la seduta fu sospesa a causa delle proteste degli altri avvocati e delle intemperanze del pubblico.
Poco dopo, e ancora come anni prima con il caso Poët, il Procuratore generale del Re impugnò la ammissione all’Ordine della Labriola. La difesa della giovane giurista fu affidata all’avvocato Cogliolo, il quale richiamando l’esito del caso Poët, sottolineò come l’esito che esso ebbe fosse figlio di tempi lontani, ben diversi da quelli attuali, e che lo spirito della legislazione andava ricercato nei bisogni attuali della società.
Ma la Corte, pur riconoscendo mutato lo spirito del tempo, accolse il ricorso del Procuratore del Re con decisione del 31 ottobre 1912, osservando come la legge era rimasta la stessa e le stesse esperienze delle proposte Socci avvaloravano la tesi che l’ordinamento non ammetteva ancora l’ingresso delle donne nella avvocatura. Si trattava di una questione di cui si sarebbe dovuto occupare il legislatore, e che – per il momento – la Corte non poteva risolvere che con la massima:
La donna laureata in diritto, anche se abilitata all’insegnamento universitario, non può essere iscritta nell’albo degli avvocati esercenti.
Anche la Cassazione di Roma il 24 luglio 1913 espresse nello stesso senso, osservando da un lato che: “non può mettersi in dubbio che […] la donna nel nostro diritto privato subisce di fronte all’uomo delle notevolissime restrizioni” e che la legge del 1874 “non ebbe, né poteva avere l’intenzione di estendere l’esercizio dell’avvocheria alle donne”, e dall’altro lato riconoscendo la necessità che:
il legislatore italiano vincendo l’ostinatezza e l’attaccamento al passato e la diffidenza alle cose nuove, mettendo da banda ogni pregiudizio e quello spirito di sospetto che offende la donna e più di tutto il suo magistrato, proclami questo diritto alla donna
La svolta del 1919, la legge 17 luglio, n. 1176
Ciò che non riuscì ai movimenti femministi, al pervicacia di alcuni parlamentari o alla autorevolezza di eminenti giuristi, riuscì al periodo bellico. Fu infatti solo con la Grande guerra che giunse una svolta definitiva nel dibattito che man mano si alimentava.
Il 12 dicembre 1916 fu presentata la decisiva proposta Sacchi. In quella seduta, l’onorevole Amedeo Sandrini, avvocato, affermò:
Mai come in questo momento, è stata esperimentata la virtù della donna nostra […] sicché accordando finalmente alla donna italiana la completa eguaglianza giuridica, oltre che realizzare una matura riforma legislativa, oltre che adempiere ad un obbligo di giustizia verso una parte sì numerose ed importante di cittadini dello Stato, compiremo un doveroso atto di gratitudine per quanto la donna italiana ha fatto e fa in questi terribili momenti […] Io mi auguro che anche il campo delle libere professioni, segnatamente quello del patrocinio forense venga liberamente aperto alle donne.
Nella stessa seduta il ministro proponente Sacchi, anche lui – inevitabilmente – avvocato, spiegava che la guerra aveva messo in evidenza “di quanto sono capaci le nostre donne”, e di quanto stavano dimostrando nella assistenza sociale, negli impieghi pubblici e privati, nei pubblici servizi e persino nella sanità militare, sopportando gli “acerbi dolori” della guerra:
è quindi cosa degna di quest’ora proclamare la necessità di elevare la condizione giuridica della donna, anche per dar plauso ed onore a quanto per la patria ha fatto e sta per fare la donna italiana
Il discorso si chiuse tra gli applausi dell’aula.
Nel prosieguo del dibattito, anche il nuovo guardasigilli Facta nella seduta dell’8 marzo 1919 aveva dichiarato – ancora una volta tra gli applausi – che
questo progetto segna la fine di un istituto che si può dire morto, e che ha in questo momento il significato speciale di riconoscimento di tutte le alte benemerenza della donna, alla quale diciamo la nostra parola di solidarietà civile, sicuri che, in qualunque frangente, avremo la cooperazione di questa parte gentile dell’umanità, che si è mostrata così altamente degna della sua nobile missione.
Nessuna voce critica si levò in parlamento e anzi molti ritennero la riforma già superata dai tempi. E infatti, per la verità, come emerso dal dibattito alla Camera, la donna era stata ammessa da tempo in buona parte del mondo professionale e degli uffici pubblici. Si pensi alle telecomunicazioni (poste, telegrafi, telefoni), alle biblioteche, alle ferrovie, per non dire delle scuole, etc., settori in cui le donne operavano da tempo grazie a speciali regolamenti. Nel corso della Grande Guerra, poi, le donne avevano conquistato nuovi ruoli, entrando non solo negli uffici ministeriali e amministrativi, ma persino in quelli militari, acquisendo così un vero e proprio “brevetto di capacità” che non avrebbe fatto venire meno la “santa missione domestica”. Il richiamo alla decisiva opera delle donne nel corso del conflitto mondiale, che avevano reso ormai un “dovere” riconoscere la uguaglianza giuridica hanno portato alcuni autori a parlare di “premio di smobilitazione”.
A quaranta anni di distanza dal caso di Lidia Poët, dunque, la riforma non solo superava le ragioni dell’esclusione addotte in passato in punta di diritto, ma sgombrava il campo dai pregiudizi di natura sociale e di costume. Se un tempo i magistrati ritenevano che le aule dei tribunali non fossero luoghi adatti alle donne, ora si affermava in commissione parlamentare che la donna avrebbe “ingentilito” la professione.
La legge fu approvata il 17 luglio 1919 con il n. 1176. Erano gli ultimi mesi della legislatura e soprattutto in Senato la discussione fu frettolosa. La riforma fu seguita con poco interesse anche dagli organi di stampa che ne riportarono notizie appena sommarie. L’opinione pubblica non aveva colto allora il momento di svolta storica che quella riforma rappresentava, o forse lo riteneva al pari dei parlamentari ormai scontato, mentre molto più attuali sembravano i dibattiti sul diritto di voto.
Ma, in definitiva, la legge del 1919, non solo aboliva la autorizzazione maritale, abrogando tutte le norme del codice civile, di commercio, di procedura civile che limitavano la piena capacità di agire della donna, ma grazie all’art. 7 aprì finalmente alle donne le porte del foro:
le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gl’impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche che attengono alla difesa dello Stato.
La prima avvocata
Mentre ancora pendeva in parlamento la discussione per la approvazione del disegno di legge, il Consiglio dell’ordine di Ancona aveva accolto l’iscrizione all’albo degli avvocati di Elisa Comani, laureata in giurisprudenza a Camerino nel 1915, e moglie di un avvocato.
Anche in quel caso la procura ne contestò l’iscrizione, ma a seguito della entrata in vigore della nuova legge, la Comani fu la prima avvocata a essere legittimamente iscritta all’albo.
Prestò giuramento il 27 agosto del 1919 e la novità fu accolta dall’opinione pubblica con malignità. Nei primi processi, nemmeno a dirlo, aveva addosso gli occhi di tutti, sguardi che la facevano “vacillare sotto il peso della grave responsabilità”, come raccontò lei stessa in una intervista al settimanale La Donna. Nel suo primo processo patrocinò un soldato accusato codardia.
Quando mi accinsi a parlare […] tremai per la responsabilità che mi ero assunta, ma sovratutto pel timore che forse da me, ultima fra le ultime, i presenti avrebbero potuto giudicare se la donna abbia meritato o meno d’essere ammessa nell’aringo forense. Parlai circa un’ora e mezzo e man mano mi accorsi che il pubblico prendeva vivo interesse al mio dire. I sorrisi tra l’incredulo e lo scettico che avevo notato all’inizio della discussione su molti visi erano andati scomparendo; gli ascoltatori evidentemente andavano modificando il loro giudizio su la donna in toga.
Lo stesso anno, dopo la morte il 2 marzo di suo fratello Giovanni Enrico insieme al quale aveva di fatto esercitato la professione forense, anche Lidia Poët si iscrisse all’ordine di Torino. Faceva dunque il suo ingresso nella avvocatura a 65 anni. Sarebbe vissuta fino al 1949, ultranovantenne, in tempo per esercitare il diritto di voto, per il quale aveva combattuto tutta la vita.
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Tutta la storia di Lidia Poët, la sua tesi di laurea e gli atti e le sentenze dei giudizi nel nostro libro Lidia Poët. La prima avvocata, edito da Le Lucerne.