Il 22 gennaio 1973 la Corte suprema degli Stati Uniti d’America statuì – in Roe v. Wade – che le allora vigenti e restrittive leggi sull’aborto fossero incostituzionali per violazione del diritto di ogni donna, fondato sul right to privacy, di decidere se continuare o meno una gravidanza. La Corte, composta da nove membri, si divise 7 a 2: in maggioranza, come in minoranza, si ritrovarono giudici nominati tanto da Presidenti repubblicani quanto da Presidenti democratici. Proprio l’ampia e diversificata maggioranza fece inizialmente credere che la sentenza avrebbe rappresentato la soluzione definitiva e irreversibile dell’intenso dibattito pubblico che in quegli anni circondava la materia dell’aborto. Di contro, Roe fallì nel suo intento di “pacificazione”, diventando rapidamente – e restando, ancora oggi, più di quarant’anni dopo – una delle più controverse sentenze mai emesse dalla Corte suprema.
L’autore della majority opinion, Justice Blackmun (nominato da Nixon), facendo riferimento ad alcuni precedenti della Corte (su tutti, Griswold v. Connecticut), enucleò l’esistenza di un fondamentale right to privacy, cioè di uno spazio di autodeterminazione personale inviolabile, come tale schermato da indebite intromissioni del potere pubblico. È bene evidenziare come il testo della Costituzione federale non faccia espressa menzione di un simile diritto, e difatti lo stesso Blackmun lasciò irrisolta la questione dell’esatta individuazione della sua base normativa. Cionondimeno, la Corte concluse che esso fosse «broad enough to encompass a woman’s decision whether or not to terminate her pregnancy», dal momento in cui obbligare una donna a portare a termine la propria gravidanza avrebbe potuto cagionarle danni morali e psicologici. Tuttavia, la Corte chiarì che il diritto di abortire non poteva considerarsi “assoluto” e che, pertanto, esso sarebbe stato soggetto al bilanciamento con altri e, se del caso, preminenti interessi pubblici: «A State may properly assert important interests in safeguarding health, maintaining medical standards, and in protecting potential life. At some point in pregnancy, these respective interests become sufficiently compelling to sustain regulation of the factors that govern the abortion decision».
Il tema, ovviamente, era la definizione di quel «some point» in cui gli interessi pubblici diventano così concreti da poter giustificare una limitazione del diritto di abortire. In assenza di indicazioni ricavabili dal testo della Costituzione, del tutto silente sul punto, la Corte – dopo un ampio dibattito interno – decise di valorizzare la scansione “trimestrale” della gravidanza: durante il primo trimestre, qualsiasi limitazione – eccetto le più banali, quali richiedere che la procedura fosse realizzata da un medico autorizzato – sarebbe stata considerata illegittima; durante il secondo trimestre, le limitazioni sarebbero state ammesse solo “ragionevoli” e «narrowly tailored» sull’interesse di protezione della salute della donna; durante il terzo trimestre, infine, lo Stato avrebbe potuto porre qualsiasi limitazione al diritto, fino a vietarlo del tutto (fatta salva l’eccezione in cui la gravidanza avrebbe messo a rischio la vita della donna).
In minoranza, Justice White (nominato da Kennedy) e Justice Rehnquist (nominato da Nixon), enunciarono le ragioni del proprio dissenso facendo leva sull’asserita carenza di legittimazione della Corte e sulla necessità di lasciare l’onere della decisione al processo democratico. In particolare, White scrisse: «I find nothing in the language or history of the Constitution to support the Court’s judgment. […] The upshot is that the people and the legislatures of the 50 States are constitutionally disentitled to weigh the relative importance of the continued existence and development of the fetus, on the one hand, against a spectrum of possible impacts on the woman, on the other hand. As an exercise of raw judicial power, the Court perhaps has authority to do what it does today; but, in my view, its judgment is an improvident and extravagant exercise of the power of judicial review that the Constitution extends to this Court».
Questo argomento trovò sostenitori lungo tutto lo spettro politico e giuridico. Il giurista “liberal” John Hart Ely, ad esempio, concluse che: «What is frightening about Roe is that this super-protected right is not inferable from the language of the Constitution […]. The problem with Roe is not so much that it bungles the question it sets itself, but rather that it sets itself a question the Constitution has not made the Court’s business. […] [Roe] is bad because it is bad constitutional law, or rather because it is not constitutional law and gives almost no sense of an obligation to try to be». Allo stesso modo, il giurista “conservatore” Robert Bork affermò che Roe «is, itself, an unconstitutional decision, a serious and wholly unjustifiable judicial usurpation of state legislative authority». Ruth Bader Ginsburg, prima di diventare giudice della Corte suprema, pur difendendo la sostanza della decisione, espresse disappunto per la scelta della Corte di risolvere – a mezzo di sentenza – il dibattito allora in corso, e in termini analoghi si espresse Justice Scalia che, in Planned Parenthood v. Casey, scrisse: «by banishing the issue from the political forum that gives all participants, even the losers, the satisfaction of a fair hearing and an honest fight, […] the Court merely prolongs and intensifies the anguish».
Come anticipato, Roe v Wade resta a tutt’oggi una delle decisioni più controverse di sempre (ciò spiega perché, ad esempio, a ogni nominee alla Corte suprema sia chiesto se voterà o meno per confermare o rovesciare la decisione). Nonostante le critiche, però, il “nocciolo” di Roe – e cioè l’esistenza di un diritto costituzionale di abortire – è sempre stato riaffermato dalla Corte suprema.
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