Nato a Genova il 4 ottobre 1934, Giovanni Tarello ha insegnato filosofia del diritto e diritto civile all’Università della città ligure, dove ha diretto l’Istituto di Filosofia del diritto ed è stato Preside della Facoltà di Giurisprudenza. A Genova ha inoltre fondato e diretto due importantissime riviste giuridiche Materiali per una storia della cultura giuridica e Quaderni.
È stato membro del Consiglio Universitario Nazionale (CUN): in questa veste ha contrastato, insieme a Paolo Grossi, la proposta di escludere la filosofia del diritto dal settore didattico delle discipline giuridiche per collocarla in un ambito esclusivamente filosofico.
Tarello ha approfondito in particolare i temi del realismo giuridico e dell’interpretazione della legge. Insieme a Norberto Bobbio, Uberto Scarpelli, Amedeo Giovanni Conte, è stato uno dei maggiori esponenti della cosiddetta filosofia analitica del diritto. È stato l’esponente più rappresentativo del giusrealismo analitico italiano e il massimo studioso di quello americano.
Tarello muovendo da un approccio realistico-analitico, sottopone ad una revisione epistemologica il vecchio giuspositivismo dogmatico mostrando come le norme sono ma il prodotto dell’interpretazione e delle manipolazioni dei giuristi e conferendo un’originale rilevanza teorica alla storiografia della cultura giuridica, da lui promossa a banco di prova della sua concezione della scienza giuridica come politica del diritto. Il pensiero di Tarello in materia di interpretazione prende l’avvio dalla critica nei confronti del neopositivismo logico della Scuola di Torino: il diritto è un concreto insieme non sistematico di regole normative finalizzate a disciplinare le relazioni intersoggettive.
Inoltre, per Tarello non è possibile fornire una definizione “tradizionale” di norma giuridica, in quanto questa è una comunicazione precettiva esprimente il significato che emerge tramite l’interpretazione della disposizione normativa effettuata. Tarello, al riguardo, afferma:
«la norma non ha un significato per la buona ragione che è (null’altro che) un significato. La norma è il significato di un segmento di linguaggio in funzione precettiva, enunciato da un documento in lingua. […] Per cui non si può parlare affatto di interpretazione della norma ma solo di interpretazioni di enunciati in lingua, di documenti (di leggi, di sentenze, di raccolte di consuetudini): il processo interpretativo si esercita su di un enunciato, procede a partire da un enunciato e perviene alla norma; la norma non precede come dato, bensì segue, come prodotto, il processo interpretativo».
Se, dunque, nel pensiero di Tarello, il diritto non vive, nella prassi, se non nel momento in cui le disposizioni normative si tramutano in norme per effetto dell’attività interpretativa, ne esce enormemente valorizzato il ruolo che l’interpretazione assume nel mondo del diritto: l’interprete è l’artefice dell’esperienza giuridica, in quanto è il responsabile della trasformazione della disposizione in norma.
Ecco perché si parla, relativamente al pensiero di Tarello, e, in modo più ampio, relativamente a quello dei giusrealisti, di “interpretazione politica” della legge: l’atto interpretativo di ascrizione di significato all’enunciato di un documento normativo è, per sua natura, indissolubilmente legato alla soggettività, alla cultura, alla preparazione professionale, ai pregiudizi, anche all’onestà, e, in una parola alla visione “politica” dell’interprete stesso.