Durante il ventennio fascista fu intrapresa una grande opera di fascistizzazione dell’avvocatura e più in generale del sistema giudiziario. Dall’istituzione di un tribunale speciale fino al ripristino della pena di morte, le mire politiche del partito si concentrarono anche sul personale, che venne perseguitato in un tentativo di epurazione dagli esponenti antifascisti.
L’opera di fascistizzazione dell’Italia avvenne con numerosi interventi legislativi a partire dalla seconda metà degli anni ’20.
È noto come molti di questi interventi riguardarono l’ambito giudiziario, ad esempio la creazione del Tribunale speciale per la difesa dello stato, il ripristino della pena di morte, il confino per gli avversari del regime e molto ancora.
Non stupisce quindi che anche l’avvocatura fu oggetto di importanti misure, tese a fascistizzare la categoria e ad annullare l’indipendenza dei suoi organi.
Ciò avvenne, in primo luogo, con la Legge n. 453 del 26 marzo 1926, la quale aveva scopo, secondo quanto riferito dagli autori, di apportare le necessarie modifiche ad un sistema ormai divenuto obsoleto (la legge sull’avvocatura nazionale risaliva al 1874).
A livello istituzionale, la riforma prevedeva la formazione del Consiglio Superiore Forense, formato da trentadue componenti, di cui la metà eletta dai singoli Consigli (uno per ogni distretto di Corte d’Appello), e la seconda metà nominata dal Ministro. Ciò sollevò, senza stupore, diverse critiche e preoccupazioni da parte di chi vedeva nel provvedimento una lesione dell’indipendenza dell’avvocatura. Intervenendo alla Camera durante la discussione, l’On. Avv. Sandrini così sostenne: “La nomina elettiva da parte dello Stato di una parte della rappresentanza della avvocazia, vulnera il principio della indipendenza e dell’autonomia dell’ordine forense; lo vulnera perché colui, che deriva la sua nomina da un organismo statale, non può prescindere dal vincolo che nasce tra colui che nomina e il nominato, non può prescindere da una specie di soggezione verso l’autorità eligente, che può limitare la sua libertà e, occorrendo, la sua resistenza contro eventuali suggerimenti o direttive, ai quali nella propria coscienza non possa consentire”.
Nei mesi successivi furono approvate varie norme in attuazione alla Legge n.453, tese dapprima a “fascistizzare” gli avvocati e poi a sostituire i vari consigli distrettuali. I vari consigli dell’ordine erano una fonte di potenziale pericolo per il regime, e quindi andavano gradualmente (ma neanche troppo) sostituiti con altro.
Con la Legge 747 del 6 maggio 1926 i Sindacati fascisti prendono di fatto il posto dei consigli dell’ordine, in quanto solo a loro “spetta la facoltà di adempiere ai compiti di tutela degli interessi della classe forense e specialmente di assistenza, istruzione ed educazione previsti dalla legge”; i consigli vennero definitivamente soppressi nel 1928 (RD 2580 del 22 novembre).
Ma che l’obiettivo del regime non fosse solamente quello di “limitare” l’indipendenza dell’avvocatura fu chiaro pochissimo tempo dopo. Del resto era ben noto al Duce quanti esponenti antifascisti fossero presenti tra i ranghi dell’avvocatura, di cui molti anche eletti in Parlamento; ed egli sapeva benissimo come questi potessero diventare un pericolo per il regime. Si pensi ad esempio a figure come Genuzio Bentini, deputato socialista e spesso impegnato nel patrocinare le vittime delle aggressioni squadriste.
La legge n. 563 del 3 aprile 1926 stabiliva che non poteva essere iscritto all’albo degli avvocati e dei procuratori chi avesse svolto una pubblica attività in contraddizione con gli interessi della Nazione. Cosa si dovesse intendere per atto contrario agli interessi nazionali è ovvio: chi sosteneva, o in passato aveva sostenuto, idee contrarie al fascismo non poteva iscriversi all’albo, o se già iscritto andava radiato.
A rimarcare ciò, anche la formula di giuramento cambiava. Ora i procuratori e gli avvocati dovevano impegnarsi ad esercitare la propria attività non più ai fini della giustizia, ma della Nazione. Ecco il testo della formula solenne che l’avvocato fascistizzato doveva pronunciare:
“Giuro di adempiere i miei doveri professionali con lealtà, onore e diligenza per i fini
superiori della giustizia e gli interessi superiori della Nazione”.
Nel pensiero fascista l’avvocato era un ausiliario della Giustizia. Come scrisse in una circolare del 1928 il segretario del PNF Augusto Turati, l’avvocato fascista deve svolgere la sua attività nel solo interesse della Nazione e del Regime. In quella circolare Turati diffidava gli avvocati ad assumere cause civili con spirito di mera litigiosità, mentre nel penale non andavano patrocinati personaggi pericolosi per la Nazione. Addirittura si invitavano i professionisti a consultarsi con i propri rappresentanti (come detto, i Sindacati fascisti) al fine di ottenere un parere sull’accettazione o meno dell’incarico.
Non solo, nei procedimenti più importanti, era persino presente in aula un rappresentante del Ministero o del Sindacato (quasi sempre anch’esso avvocato) pronto a comunicare ai suoi superiori eventuali comportamenti contrari a quanto dettato affinché venissero presi provvedimenti.
I procedimenti disciplinari in realtà scattavano il più delle volte come scusa per incriminare personaggi lontani alla cultura fascista ed, in particolare, contro chi in epoca passata aveva dichiaratamente sposato ideologie contrarie.
Si potrebbero raccontare diversi esempi di avvocati sottoposti a procedimento disciplinare per fatti che sfiorano l’assurdo. Ne tratteremo qui solamente uno, che però rende facilmente comprensibile ciò che poteva accadere a chi non si riconosceva nel regime.
Roberto Vighi (Monaco di Baviera, 7 maggio 1891– Bologna, 9 settembre 1974) è ricordato per aver difeso la famiglia di Anteo Zamboni dopo l’attento al Duce del 1926, e per essere stato antifascista sin da quando apparvero i primi gruppi squadristi.
Nel 1939 presso la Corte d’Appello di Bologna decise di pronunciare una orazione funebre per il collega Eugenio Jacchia, ricordandone l’impegno sociale teso ai sentimenti di libertà e giustizia. Mussolini ne ordinò addirittura l’arresto, eseguito dal questore di Bologna, con perquisizione dello studio e dell’abitazione. L’accusa mossagli fu quella di aver arbitrariamente assunto tale iniziativa usurpando i poteri rappresentativi del Sindacato fascista. Come abbiamo visto, solo questo organo aveva l’esclusiva competenza di rappresentanza della categoria forense, e quindi tutto doveva necessariamente passare tramite di esso. La sanzione inflittagli fu quella della censura.
Ironia della sorte: Dino Grandi aveva svolto il praticantato presso lo studio degli Avv.ti Vighi e Jacchia.
Bibliografia:
Antonella Meniconi, LA MASCHIA AVVOCATURA, Il Mulino ed. 2006.Alessia Legnani Annichini, AVVOCATI INDISCIPLINATI, Bup ed. 2020. Eleonora Proni, BOLOGNA LA NASCITA DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI E PROCURATORI, C.o.a. Bologna, Fondazione Forense Bolognese
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