Mogli, madri, concubine: sono le donne che si affacciano nella letteratura cinese e nella vita reale alla ricerca della loro identità e della loro salvezza, ma soprattutto dei loro diritti. Qualcuna li reclama a gran voce, altre in silenzio, tutte ritrovandosi contro un contesto ostile e restio ad ascoltarle.
È a partire dalle loro storie che Sara D’Attoma ricostruisce, nel nuovo libro edito dalla nostra casa editrice Le Lucerne “Fiori di pioppo al vento. Storie di donne cinesi in cerca di diritti”, un secolo di mutamenti sociali, legami con la tradizione e controverse politiche di pianificazione familiare, lungo il quale si svolge il lungo e faticoso percorso – non ancora concluso – per la conquista dei diritti delle donne in Cina.
Vi diamo qui un assaggio del libro presentandovi la prefazione di Renzo Cavalieri.
La prima cosa che mi è venuta in mente, una volta terminata la lettura di questo viaggio di Sara D’Attoma nella condizione di subordinazione, sofferenza, ingiustizia in cui le donne cinesi sono state relegate per secoli, è che, una volta spogliato delle sue lanterne rosse e dei suoi piedi fasciati, esso non presenterebbe differenze significative se fosse stato svolto in “Occidente”, o in India, o in Perù o in pressoché qualunque altrove umano.
E questo non solo perché è tragicamente comune il dato basilare della sopraffazione e della violenza – fisica, sessuale, psicologica – esercitate dai maschi tra le mura domestiche come nei contesti pubblici, secondo modalità tristemente simili nel tempo e nello spazio, ma perché sono comuni anche molti altri elementi tipici di questo fenomeno. Penso, ad esempio, al collegamento essenziale tra la violenza di genere e la disparità socioeconomica, e anche – in epoca contemporanea – alla discordanza tra i principi d’uguaglianza declamati dal legislatore e la scarsa realizzazione della parità di genere nella pratica sociale e nelle aule di giustizia. Tuttavia, la Cina, come tutti i Paesi dell’Asia orientale le cui lingue hanno per secoli utilizzato la scrittura cinese, ha anche una caratteristica particolare: qui, infatti, la subordinazione della donna non è soltanto un pilastro fondamentale dell’organizzazione sociale tradizionale, ma è anche iscritta nella stessa lingua ideografica, a cominciare proprio dal carattere nü (donna), che deriva dal pittogramma arcaico di una donna inginocchiata.
Fu attraverso l’uso politico e morale della lingua scritta fatto dai letterati confuciani sin dai secoli che precedettero la nascita dell’impero che la subordinazione della donna venne codificata in quel sistema morale e sociale fortemente gerarchizzato che per due millenni ha caratterizzato la civiltà cinese e a cui si dà appunto il nome generico di “confucianesimo”. In questo sistema ogni soggetto è collocato – o imprigionato – nella trama di valori e di doveri che caratterizza il suo ruolo sociale, ed è proprio l’ideogramma che dà nome e forma grafica a tale ruolo a fornirne il modello ideale. Con la consueta lucidità, è il Maestro stesso, nei Dialoghi, a delineare per primo, in una manciata di parole, il senso fondamentale di questo principio, noto come la “rettificazione dei nomi”: «Che il padre sia un padre, il sovrano un sovrano, il ministro un ministro, il figlio un figlio».
In questo passo non vi è un riferimento specifico alla questione femminile (le donne in genere non meritavano grande considerazione nei canoni classici). Ma nella società confuciana anche le donne, a maggior ragione le donne, erano tenute a osservare il comportamento appropriato alla loro funzione di figlie, mogli e madri, che si identificava con quello passivo e modesto descritto dagli antichi canoni e che ruotava sulle “tre obbedienze” cui ogni donna era soggiogata per la sua intera vita: prima quella al padre, poi quella al marito e infine quella al figlio.
Forse è questa particolare attenzione al rapporto tra parole e funzione sociale il motivo per cui Sara D’Attoma intitola i capitoli del libro con i caratteri che definiscono i ruoli delle donne (sempre sulla base del loro rapporto con un uomo) come amante, vittima, moglie, madre, figlia. Un altro motivo, tuttavia, potrebbe anche essere che quei caratteri fondamentali, concepiti molti secoli prima della fondazione dell’impero e utilizzati dai funzionari-letterati imperiali per altri due millenni, sono utilizzati tuttora nella lingua cinese moderna. E, nonostante le grandi rivoluzioni politiche, economiche e culturali che hanno sconvolto il paese negli ultimi due secoli, hanno conservato ampie parti del loro DNA originario. Tra i paesi asiatici, la Cina è probabilmente quello in cui la parità tra i sessi ha fatto i passi più significativi dopo la Seconda guerra mondiale. Come ben descritto in questo volume, dalla prima legge sul matrimonio della Repubblica Popolare Cinese del 1950, che nel nome del socialismo faceva piazza pulita delle tradizioni feudali, sino ai più recenti interventi normativi, i diritti delle donne cinesi sono stati riconosciuti e tutelati dalla legge in misura crescente e sono stati raggiunti risultati molto significativi quanto ai livelli di istruzione femminile e di accesso al lavoro. Fatto sta che nella Cina odierna, nelle imprese come nelle università o nelle professioni, non è affatto difficile incontrare donne in posizioni influenti, mentre ciò accade più raramente in Paesi sviluppati e democratici come la Corea o il Giappone.
Ma mentre nel mondo delle imprese, nella ricerca o nelle professioni le donne cinesi interpretano ruoli di responsabilità in condizioni di relativa parità, tutt’altro discorso riguarda da un lato il potere politico (l’unico potere che in Cina conti davvero), che rimane stabilmente nelle mani dei maschi, e dall’altro la sfera privata, nella quale la condizione di subordinazione delle donne è stata certamente intaccata dalle rivoluzioni del XX secolo e dalle conseguenti trasformazioni sociali e giuridiche, ma rimane ampiamente diffusa nella società cinese ai più vari livelli.
Oggi la Repubblica Popolare è un paese fondato su un principio di legalità socialista che, pur non riconoscendo molti dei principi fondamentali della rule of law occidentale (a partire da quello dall’indipendenza della magistratura), prevede comunque il primato della legge sulle altre fonti del diritto e l’obbligo a carico degli organi della pubblica amministrazione di applicarla. La Costituzione (art. 48) riconosce il principio di uguaglianza tra i sessi «in tutte le sfere della vita: politica economica, culturale, sociale e familiare» e negli anni sono state adottate numerose leggi che, in parte importando tendenze e modelli globali, in parte intraprendendo percorsi originali, mirano ad ampliare e a tutelare tale principio. Tuttavia, tali leggi stentano a trovare piena applicazione, non solo nelle tante aree rurali ancora culturalmente ed economicamente meno progredite, ma anche nelle grandi metropoli, e non solo nelle pratiche sociali, ma anche negli uffici amministrativi e nei tribunali. Il conflitto appare evidente, ad esempio, nelle recenti decisioni giudiziali in materia di divorzio o di maltrattamenti citate in questo libro, in cui i comportamenti illeciti maschili vengono giustificati con le parole e le formule tipiche della tradizione confuciana, ispirate a un’idea arcaica e paternalistica dell’armonia coniugale e dei doveri che le donne sono tenute a tollerare.
Ma ecco che riappare la sensazione che i problemi e gli ostacoli che le donne cinesi devono affrontare nella faticosa ricerca di una piena affermazione dei loro diritti non siano poi tanto diversi da quelli che devono affrontare le donne in Italia o in altri Paesi molto lontani e diversi dalla Cina. Che cioè la sopraffazione e la violenza di cui le donne sono oggetto siano fenomeni antropologici universali, indipendenti dal contesto sociale e politico in cui si manifestano.
Ciò è vero solo in parte. Vi sono infatti alcune caratteristiche peculiari del sistema giuridico cinese, che attengono soprattutto alla forma di stato e di governo della Repubblica Popolare, che hanno un impatto specifico sul perseguimento della parità tra i generi e sull’affermazione dei diritti delle donne. Tra esse, almeno tre meritano di essere sottolineate.
La prima è che, in Cina, le leggi sono prodotte da una piramide di organi legislativi che non sono eletti direttamente dal popolo e che orientano la loro attività sulla base delle indicazioni degli organi del Partito, e non dell’elettorato, e sono dunque meno sensibili a eventuali movimenti di opinione o iniziative dal basso di quanto non lo siano parlamenti come il nostro. Peraltro, la stessa esistenza di movimenti o iniziative popolari organizzate è di fatto impedita dalle severe restrizioni della libertà di espressione e di associazione adottate dalla legge, soprattutto negli ultimi anni. In questo senso, i progressi nella tutela dei diritti delle donne cinesi sono affidati a un meccanismo decisionale opaco, che affida ai vertici centrali dello Stato e del partito, eminentemente maschili, il compito dell’elaborazione delle strategie nazionali e al legislatore quello di trasformare tali strategie in norme giuridiche. Manca completamente, invece, quello stimolo continuo e spontaneo costituito dai movimenti d’opinione, dalle manifestazioni pubbliche, dagli articoli sulla stampa, dai referendum popolari, e in generale da quell’esercizio della democrazia diretta che in molti Paesi industrializzati, anche dell’Asia, è stato fondamentale per innescare molte delle più profonde riforme legislative. Negli ultimi anni, per di più, la pandemia e la politica di isolamento perseguita dalla presidenza di Xi Jinping hanno anche determinato una drastica riduzione dei contatti e dunque delle sollecitazioni esterne che, proprio su temi di importanza e attualità come quello della parità di genere, sono una fonte indispensabile per alimentare il dibattito interno.
La seconda differenza è che in Cina vi è una Costituzione, ma non esiste alcun controllo di costituzionalità delle leggi. Ciò significa che i diritti di uguaglianza solennemente enunciati dalla Carta non hanno la forza che gli stessi diritti hanno nei sistemi nei quali una Corte costituzionale o una Corte suprema, pur con tutte le loro possibili carenze, vagliano l’operato del legislatore. Anche in questo caso, le donne alla ricerca dei diritti non possono contare, nella Cina d’oggi, su un fattore propulsivo che si è rivelato determinante in molti momenti della storia dell’emancipazione femminile in moltissimi Paesi del mondo, ossia quello delle decisioni con le quali un giudice – o magari una giudice – ha dichiarato costituzionalmente illegittime norme non conformi al principio fondamentale di uguaglianza e parità tra i generi.
La terza differenza riguarda la natura e l’estensione della nozione di diritto soggettivo. D’Attoma ci ricorda che è la stessa Costituzione della Repubblica Popolare, all’art. 51, ad affermare che in Cina l’esercizio dei diritti e delle libertà è ammesso solo se conforme agli “interessi statali, sociali o collettivi”, la cui determinazione appartiene in ultima istanza al Partito comunista nell’esercizio discrezionale del suo “ruolo guida”. Anche una volta riconosciuti e affermati dalle leggi, in Cina i diritti soggettivi non hanno carattere assoluto, e il loro perimetro è effettivamente delimitato, nella teoria come nella pratica quotidiana, da un’interpretazione della legge, attenta principalmente all’interesse pubblico, affidata a funzionari del partito o dello Stato imbevuti di parole e concetti che hanno radici intrecciate, confuciane e leniniste, e tra cui appaiono anche quelle, antichissime, che tendono a relegare la donna nei suoi ruoli tradizionali e a imporle i comportamenti conseguenti. Di fronte al predominante interesse pubblico, che spesso coincide con la pretesa di controllo totale che ossessiona sempre di più la dirigenza cinese, qualunque diritto di qualunque cittadino cinese deve arretrare, e – come ovunque – le donne sono spesso le prime a doversi sacrificare. Le vicende reali e immaginarie contenute nelle pagine che seguono raccontano le molte sfumature di tale sacrificio. La “politica del figlio unico” è probabilmente l’esempio più drammatico ed evidente del fenomeno in epoca contemporanea, ma certamente non è l’unico: di fatto, nella Cina d’oggi come in quella antica, le donne e il loro corpo continuano a essere, come dice la protagonista di un romanzo di Ma Jian citato da Sara D’Attoma, il «campo di battaglia di cui i mariti e lo stato si contendono il controllo».
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