In una vecchia storiella un parroco molto goloso, posto di fronte all’alternativa tra godere di un allettante tacchino arrostito o rispettare il precetto quaresimale del Venerdì, si cavò d’impiccio mormorando al tacchino «ego te baptizo piscem» (io ti battezzo pesce). Qualcosa di simile è accaduto in California, quando un tribunale ha stabilito che un’ape… è proprio un pesce.
È nota la storiella di quel parroco che, posto di fronte all’alternativa tra godere di un allettante tacchino arrostito o rispettare il precetto quaresimale del Venerdì, si cavò d’impiccio mormorando «ego te baptizo piscem» (io ti battezzo pesce). Ebbene, qualcosa di simile è accaduto qualche giorno fa in California, quando una corte d’appello ha stabilito che un’ape è un pesce. Avete capito bene, ma riformuliamo comunque in modo un po’ meno brutale: una corte d’appello californiana ha statuito che la Section 45 del California Endangered Species Act, che fissa standard rigorosi di tutela per specie di pesci a rischio di estinzione, si applica anche alle api (ai bombi, per essere precisi).
La notizia ha sorpreso moltissimi commentatori americani (e non solo) e sulle prime è stata ricevuta come l’ennesima prova che i giuristi, ben lungi dall’essere privi di fantasia, soffrono alle volte del problema esattamente inverso. Tuttavia, superato l’iniziale momento di shock, la lettura della sentenza ha rivelato una situazione più composita e problematica. Difatti, la legge interpretata dalla corte californiana offre, ai fini della sua applicazione, una definizione di “pesce” quale «pesce selvatico, mollusco, crostaceo, invertebrato, anfibio» (Section 45). È agevole rendersi conto di come la definizione legislativa di “pesce” sia notevolmente più ampia di quella diffusa nel linguaggio comune: d’altronde, chi di noi, vedendo una rana, esclamerebbe “che brutto pesce!”?
Proprio di questa peculiarità normativa hanno voluto approfittare alcune associazioni animaliste, le quali hanno centrato la propria argomentazione su quell’«invertebrato» che figura nella Section 45: poiché ai fini della definizione legislativa di “pesce” l’invertebrato non è necessariamente qualificato come acquatico, e poiché l’ape è un animale invertebrato, ecco che un’ape è un pesce. Se questo sillogismo non ha convinto il tribunale di merito, ha invece incontrato il favore della già ricordata corte d’appello. Come mai, viene da chiedersi, i due giudici hanno deciso in modo diametralmente opposto?
La risposta sta nel differente metodo interpretativo impiegato. Come ha spiegato Lawrence Solum, della University of Virginia School of Law, il giudice di merito ha preferito fare ricorso alla tecnica cosiddetta “testualista”, mentre quello di appello ha fatto affidamento sul metodo “purposivista” o “intenzionalista”. Più nel dettaglio, il primo giudice ha applicato un canone di costruzione noto come a noscitur sociis, in forza del quale un termine giuridico generico, quando inserito in un elenco, riceve il proprio significato alla luce delle altre parole che lo precedono o lo seguono. In questo caso, è vero che la legge non definisce esplicitamente l’«invertebrato» come “acquatico”, ma è altrettanto vero che fa precedere e seguire il termine da altri che fanno riferimento ad animali che sono “acquatici” o in senso esclusivo (pesci), o nella grande maggioranza dei casi (crostacei), o quantomeno parzialmente tali (anfibi). Di conseguenza, l’ape, pur essendo invertebrata, non avrebbe potuto essere ricompresa nel California Endangered Species Act, perché priva di un qualsiasi collegamento apprezzabile con l’habitat acquatico.
Di converso, la corte d’appello ha preferito fare leva sulle intenzioni del legislatore storico, il quale ha – in successive occasioni – allargato l’elencazione di cui alla Section 45, e su un più risalente precedente giurisprudenziale che, applicando lo stesso reasoning all’opera in questo caso, aveva garantito protezione legale a una specie di lumaca, in quanto «mollusco». Poiché manca una espressa limitazione testuale di questi termini più generici alle sole varianti acquatiche, ha concluso la corte, negarne l’applicazione anche nei confronti di animali terrestri equivarrebbe a violare l’intenzione del legislatore, che ha mostrato di aver particolarmente a cuore la tutela degli animali a rischio di estinzione (tra cui, a ben vedere, possono includersi le api).
Si parva licet, ci pare che, tra le due sentenze, gli argomenti migliori siano dalla parte del giudice di merito. Vero è che la legge non ha qualificato espressamente l’«invertebrato» come acquatico, ma il canone a noscitur sociis è in grado di sciogliere l’ambiguità, evitando che la già notevole libertà definitoria del legislatore giunga a esiti del tutto improbabili, in quanto privi anche della più tenue connessione con il significato che i termini ricevono nel linguaggio comune. E, ancor prima del rilievo giuridico, sta un elemento di pragmatica linguistica, come lo stesso Solum ha ricordato: ogni espressione si muove in un patrimonio comunicativo condiviso dai parlanti, che consente quindi al ricevente di riconoscere, quasi in automatico, l’esatto significato di ciò che ha detto il mittente. Se, per esempio, a un amico che incontro a metà mattina dico: «non ho fatto colazione», questi non penserà certo che non ho mai fatto colazione, ma semplicemente che non ho fatto ancora colazione quel giorno, perché è l’interpretazione più diffusa e ovvia possibile. Allo stesso modo, se in un contesto riferito ad animali acquatici si fa riferimento a un invertebrato, è naturale pensare, per esempio, a una stella marina e non a un’ape.
Si possono sviluppare due ulteriori considerazioni.
La prima è che, in questo caso, pare profilarsi una tensione tra le parole della legge e l’intenzione del legislatore, sicché l’interprete è obbligato a porsi l’annosa questione di quale, tra i due elementi del discorso, debba prevalere. Come giuristi italiani – e dunque senza cadere nella rigida contrapposizione, caratteristica del sistema americano, tra testualisti e purposivisti – è possibile evidenziare che, sì, l’intenzione del legislatore è elemento importantissimo dell’interpretazione giuridica, ma che esso deve – salvo casi particolari – muoversi all’interno del tracciato semantico del testo della legge. Lo stesso art. 12 delle Preleggi appare deporre in questo senso, là dove stabilisce che «Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore»: la virgola che precede la congiunzione, infatti, può essere intesa come un ordine di preferenza che pone «l’intenzione del legislatore» in posizione sussidiaria al «significato proprio delle parole secondo la connessione di esse». Pertanto, nel caso californiano, lo scopo protezionistico della legge non avrebbe potuto essere conseguito in via di interpretazione – a pena di scartare del tutto il vincolo del tenore letterale – ma solo a seguito di apposito intervento legislativo.
La seconda considerazione è che i profili di criticità della Section 45 del California Endangered Species Act sono propri di qualsiasi definizione posta direttamente dal legislatore. Si pensi, anzitutto, alla questione della vincolatività o meno, per l’interprete, della norma definitoria, problema che – come noto – è stato affrontato dalla dottrina sia tedesca sia italiana (e da quest’ultima spesso per influenza della prima). Sul punto le opinioni variano, e risentono del modo in cui si ricostruisce il rapporto tra l’interprete e la legge; cionondimeno, pare possibile convenire sulla ragionevolezza dell’opzione che ammette la vincolatività della definizione, almeno fintantoché essa non risulti frontalmente in contrasto o con il linguaggio comune (onde il destinatario del comando verrebbe privato di un’adeguata capacità di calcolare le conseguenze giuridiche della propria condotta) o con il limite “naturale” o “dogmatico” di certi istituti giuridici (come tale indisponibile anche alla volontà sovrana del legislatore).
Per restare al caso californiano, la definizione di ampio respiro di “pesce” è certo vincolante, almeno finché resti limitata ad animali che ne condividono l’habitat naturale, ossia quelli acquatici: ma quando questa si estende fino a comprendere animali terrestri, ecco che si materializza il rischio di privare una certa classe di soggetti – in questo caso i produttori di materiali potenzialmente letali per le api – dell’avvertimento che la legge deve sempre fornire ai consociati, così da consentire loro di organizzare i propri affari.
Più in generale, c’è l’“ironia” di norme definitorie che ambiscono a ridurre i margini di discrezionalità interpretativa e che, però, si trovano a dover fare i conti con la loro struttura di enunciati legislativi, sicché esse stesse sono – al pari di qualunque enunciato legislativo – bisognose di essere interpretate. Ancora una volta, il caso californiano dimostra il limite di una norma che vuole chiarire e che, tuttavia, dovendo anzitutto essere chiarita, può rendere tutto più complicato. Cosa significa «invertebrato»? E in che modo l’interprete deve discernerne il significato: secondo il tenore letterale dell’enunciato legislativo o secondo l’intenzione del legislatore?
Risuona, in definitiva, l’ammonimento delle Fonti: Omnis definitio in iure civili periculosa est; parum est enim, ut non subverti posset.
© Riproduzione Riservata