La storia del suffragio universale è una storia straordinaria.
In poche decine di anni tra la fine dell’ottocento e la prima metà del novecento, in occidente si era infranto un tabù millenario frutto di uno dei più grandi e radicati pregiudizi della storia.
Era considerata eresia pensare di sottrarre al focolare domestico la donna permettendole di impegnarsi in attività politica, anche ove questa fosse solo limitata all’esercizio del diritto di voto.
Al movimento delle sufraggette (naturalmente sempre e solo col senno di poi) sono stati dedicati romanzi, film e memoriali. Ma l’immagine della suffraggette per eccellenza per me (ma penso per tantissimi di noi) rimane sempre quella interpretata da Glynis Johns nel film Mary Poppins. Che poi io da bambino non capivo niente di quelle cose, aspettavo solo Mary Poppins e la scena della valigia, tutta la parte prima mi pareva così confusa e poco giocosa!
In Italia, vi stupirà, la prima legge che riconobbe il diritto di voto alle donne, fu la n. 2125 del 1925 “Ammissione delle donne all’elettorato amministrativo“. La legge, promessa da Mussolini già nel 1922 prevedeva l’iscrizione alle liste elettorali amministrative (quindi non ancora quelle politiche) per le donne che avessero almeno 25 anni di età e che avessero determinati requisiti: per esempio che fossero madri o vedove di caduti di guerra, oppure che fossero state decorate di medaglie al valore militare o civile, o che avessero superato la terza elementare o infine che pagassero tasse e sapessero leggere e scrivere.
Solo che purtroppo, come più volte capitato al nostro Presidente del Consiglio negli anni ’20, ’30 e primi anni ’40, a qualche idea tutto sommato discreta seguiva un bel colpo di spugna, nella migliore delle ipotesi, o una guerra suicida, nella peggiore. Così nel ’26, poco dopo l’entrata in vigore di una legge tanto rivoluzionaria, abolì direttamente le elezioni amministrative, rendendo vano il diritto al voto delle donne.
Toccherà aspettare quasi altri venti anni.
La prima volta del voto femminile in Italia avvenne con le amministrative che si tennero a partire dal marzo 1946.
Ma prima di quella data, e prima ancora dell’inutile legge fascista, le donne avevano lottato anche in Italia per ottenere il diritto al voto, con ogni mezzo. Anche con mezzi legali.
Si pensi alla storia della dottoressa Eloisa Nacciarone, napoletana, chirurgo, che nel 1905, non sentendosi affatto inferiore agli uomini, pretese di essere iscritta alle liste elettorali. D’altronde, sosteneva, l’art. 24 dello Statuto Albertino, parlava chiaro:
Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi
Tutti i regnicoli quindi, senza distinzione tra uomini e donne.
La sua richiesta fu respinta e il caso arrivò fino in Cassazione, a Roma. La Corte rispose che no, l’art. 24 non poteva interpretarsi in quel modo, perché in netto contrasto con la tradizione storica sotto la quale lo stesso Statuto era stato emanato. Ma leggendo la breve sentenza qui sotto si percepisce l’imbarazzo di quei giudici, costretti a respingere una richiesta sacrosanta, pur sottolineando di ritenere “tetragono” il loro argomentare.
Per fortuna che.. Il tempo cambia molte cose nella vita: il senso, le amicizie, le opinioni.
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La Corte, ecc. — La Sig. Eloisa Nacciarone, dottoressa in medicina e chirurgia, fece domanda di essere inscritta nella lista degli elettori politici del collegio di Napoli, ma la sua istanza venne prima respinta dalla Commissione provinciale e indi in secondo grado dalla locale Corte di appello con sentenza 2 ottobre 1906.
Onde l’odierno ricorso a questo Supremo Collegio, basato specialmente sopra l’art. 24 dello Statuto del Regno, che nell’assicurare a tutti i regnicoli un uguale godimento dei diritti civili e politici, e col proclamare l’ammissione di tutti all’esercizio delle cariche pubbliche, intese parlare tanto degli uomini quanto delle donne, per le quali nelle condizioni della odierna società non prevale più quel presupposto incapacità, che valeva in tempi meno evoluti e più barbari.
Considerato che, senza contrastare alla donna di oggi un più vasto raggio di azione nella palestra sociale e senza negare che al carattere specialmente domestico della energia femminile si attagli l’esercizio di alcune pubbliche funzioni omogenee allo staio morale e fisiologico della donna, questo Supremo Collegio ritiene che lo spirito dell’art. 24 dello Statuto del Regno non consenta l’ampia interpretazione sostenuta nel ricorso della Nacciarone, perchè in manifesto contrasto colla tradizione storica, sotto il cui influsso venne esso elaborato, e per la quale il solo pensiero di chiamare la donna a partecipare alla vita pubblica e toglierla anche per un solo momento alla casa sarebbe stato condannato come eresia.
Ed a convincersi che ciò sia storicamente vero non solo da noi, ma anche presso altri popoli più evoluti in sapere ed in civiltà, basta tener dietro alla flagrante agitazione nelle scuole e nei Parlamenti di Europa per conquistare alla donna un posto nella vita pubblica;
lo che prova essere coscienza universale che fino ad oggi il mondo, giudicandola per natura incapace, l’aveva trattenuta in disparte.
Nè giova alla ricorrente appellarsi alla progredita evoluzione intellettuale della donna, perchè questo, se può essere argomento buono per il legislatore, è inopportuno per il magistrato, che deve interpretare la legge attuale e non quella dell’avvenire; e qui neppure tratterebbesi di adattare la vecchia legge ad una situazione sociale nuova, perchè omogenea, ma di fondare un nuovo sistema e creare nuove capacità politiche in assoluto contra sto col passato; lo che eccede il potere del giudice il più liberale ed illuminato.
Considerato che l’argomento surriferito è siffattamente assoluto e tetragono, da dispensare dalla confutazione delle minori ragioni che la ricorrente ha creduto desumere per il suo assunto dalle disposizioni speciali della legge elettorale e di altre leggi.
Per questi motivi, rigetta, ecc
(Il Foro Italiano, 32,I, 1907, 609)