Talvolta gli errori della giustizia costano cari agli imputati, ma quando a essi si somma l’arbitrarietà della coscienza popolare, per un individuo può non esserci scampo. Un articolo di Rivista penale del 1902 ci tramanda il caso di Matteo Caruso, accusato del delitto dell’amante della moglie e riconosciuto innocente dopo ben sette anni in carcere.
Era il 14 luglio 1894, e sulla testa di Matteo Caruso, contadino di professione, calava la sentenza della Corte d’Assise di Campobasso: 30 anni di reclusione con l’accusa di omicidio di Ireneo Mattioli, amante della moglie. Il cadavere del signor Mattioli era stato rinvenuto due anni prima, nel novembre 1892, in un solitario vicolo di Termoli. La scena era apparsa raccapricciante ai testimoni: il Mattioli giaceva riverso nel suo stesso sangue, che fiottava ancora caldo dal cuore a causa di una ferita da pugnale. I presenti si interrogavano sul possibile assassino, stilando una lista di papabili,
ma tra questi uno solo finì in tribunale, il nostro Matteo Caruso.
Decisive furono in tal senso le testimonianze di tali Clemente e Curti, due figuri che rivelarono all’Autorità di aver visto il Caruso avventarsi sul Mattioli e pugnalarlo. Caruso mal sopportava, secondo le voci di paese, la relazione extraconiugale della moglie con il Mattioli, ma doveva stringere i denti perché proprio quest’ultimo gli procurava il lavoro di cui vivere alla giornata.
Così, mentre Matteo Caruso veniva condotto dietro le sbarre del maschio di Volterra, la sua donna lo lasciò solo, sposandosi con un altro ed emigrando, mentre il fisco gli confiscò l’unico suo possesso: un piccolo campo che servì a ripagare le spese di giustizia. Ma egli non aveva colpa.
Il tormento dell’innocente trovò fine soltanto sette anni dopo l’omicidio, nel 1900, quando il Tribunale di Campobasso prima, quello di Napoli dopo, e infine l’Assise di Benevento, riconobbero in un altro l’assassino del Mattioli, tale D’Onofrio, che aveva fama di facinoroso e vendicativo e che era da poco venuto a mancare.
Ora, la triste vicenda del Caruso si spiega alla luce di due elementi fondamentali: la cecità della giustizia e l’omertà popolare.
In primis, la cattiva gestione dell’autorità legale è impersonata dal vigilante che aveva immediatamente incarcerato il Caruso la sera dell’omicidio, senza interrogarsi sulla veridicità delle testimonianze e senza, da quel che sappiamo, cercare ulteriori prove. Accanto al vigilante, il magistrato che per primo aveva trattato il caso non aveva dubitato neppure per un secondo della colpevolezza dell’imputato, descritto dalla nostra fonte come “fisicamente e
moralmente sordo”, dunque inadeguato a ricoprire il ruolo di dispensatore di giustizia.
In secundis, la fonte spiega come ci fossero altri testimoni oltre ai malvagi Curti e Clemente che erano nemici personali del Caruso e dunque ambivano alla sua rovina. Quei testimoni che avevano visto D’Onofrio colpire il Mattioli, avevano taciuto omertosi, sotto il timore di ripercussioni da parte del feroce assassino: “qualcuno sottovoce mormorò il nome del vero autore del misfatto atroce”. Soltanto una volta morto quell’uomo violento, scampata la minaccia, i testimoni si erano fatti avanti scarcerando l’innocente, ma restando colpevoli essi stessi dei suoi sette anni di pena. La «coscienza del popolo», così la chiama la nostra fonte, si rivela una marea difforme che nel tentativo di evitare di dissolversi contro un’aspra roccia, può travolgere la vita di un singolo.
E quando essa trova uno spiraglio di giustificazione cui aggrapparsi, ecco che indossa le vesti della pietà umana, riconosce l’errore commesso e si appresta a cucire toppe sulla vita sfondata di quell’individuo, come nel caso di Matteo Caruso, che viene sì risarcito di una colletta popolare, ma a fronte di un’esistenza smantellata pezzo per pezzo da quei processi. Non sappiamo cosa fu di Caruso dopo la scarcerazione, certo non aveva più il suo campo, il suo lavoro, la sua donna, sebbene infedele, ma per fortuna poteva contare su un caritatevole supporto: la colletta popolare.
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