La declaratoria di inammissibilità del referendum sull’eutanasia ha fatto notizia. Non poteva che essere così. Gli ingredienti ci sono tutti: un milione e duecento mila firma raccolte, all’esito di una tra le più imponenti campagne di partecipazioni popolari di sempre; un tema che accende come pochi altre le passioni, e rispetto al quale è difficile ritagliarsi una posizione equilibrata, se non al costo d’apparire ignavi; una errata eppur diffusa concezione del ruolo della Corte costituzionale, trattata quasi alla pari del decisore politico. Verrà il momento per riflettere con calma sul significato di questa ordinanza. A un pensiero, però, ci pare possa essere essere data subito forma, ancorché in modo impressionistico.
Questa è una di quelle volte in cui si può essere dispiaciuti del fatto che il nostro ordinamento non contempli l’istituto dell’opinione dissenziente e, allo stesso tempo, si possa tirare un sospiro di sollievo proprio per questo motivo. Ci spieghiamo meglio. L’opinione dissenziente è, come noto, un istituto tipico dei sistemi anglo-americani (ma ammessa anche nella giurisprudenza costituzionale tedesca e in quella della Corte EDU), con cui i membri di un collegio rimasti in minoranza possono dare pubblicità alle loro motivazioni. Si tratta, chiaramente, di un istituto pensato per garantire la massima trasparenza decisionale e che ha i suoi pregi e i suoi difetti. Tra i suoi pregi, c’è la possibilità di valutare apertamente sia le ragioni della maggioranza che quelle della minoranza, cosicché le prime non siano assiste solo dalla forza dei numeri, ma anche dalla qualità degli argomenti. Peraltro, non è raro che quella che oggi è un’opinione dissenziente, domani conduca a un overruling del principio di diritto, una volta in cui il principio di diritto originariamente minoritario si sia fatto strada fino a conquistare una nuova maggioranza in seno alla corte.
Va da sé che, su una decisione certo delicata come quella dell’ammissibilità del referendum sull’eutanasia, è ragionevole immaginare che i quindici giudici costituzionali non abbiano deciso in modo monolitico e sarebbe stato quindi sicuramente di immenso interesse leggere i diversi argomenti giuridici. Eppure, come si diceva, c’è da essere anche felici che tutto ciò non sia avvenuto. Casi delicati come quello appena deciso dalla Consulta, infatti, sono talmente carichi di aspettative e di pregiudizi politici che sarebbe fin troppo scontata la strumentalizzazione delle opinioni dissenzienti da parte di chi non ne approva l’esito decisionale. Se la Corte parla con una sola voce, è più difficile farne un’alleata o un’avversaria, mentre se ciascuno dei giudici ha a disposizione il proprio spazio, è reale il rischio del loro involontario intruppamento nelle fila di questo o di quel partito.
È vero anche, di converso, che quando l’unanimità della Corte non è il frutto obbligato dell’assenza di pubblicità del dissenso, ma invece scelta autentica dovuta dall’unità di intenti dei giudici, essa assume un valore e un significato epocale. Si pensi, giusto per fare un esempio, alla celebre Brown v Board of Education, con cui la Corte suprema statunitense – appunto all’unanimità – dichiarò l’incostituzionalità della segregazione razziale.
Non abbiamo una risposta su quale tra le due posizioni, quella che conservi lo status quo o quella che intenda superarlo, sia la preferibile. Siamo solo sollevati dal fatto che la domanda sia rimasta, almeno per oggi, insoluta.
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