Era il 17 luglio del 1919 quando le donne conquistarono la legittimazione a compiere atti e a prendere decisioni di carattere contrattuale senza l’autorizzazione del coniuge: merito della legge Sacchi, ma quali retroscena?
La parità di genere sul piano giudico in Italia ha camminato lungo un iter disseminato da numerosi ostacoli, ma anche splendide tappe. Una di queste venne raggiunta dalla giurisprudenza italiana nel luglio del 1919: il re Vittorio Emanuele III firmò la legge Sacchi, la riforma che abrogava gli articoli del codice civile regio, il codice Pisanelli, sull’autorizzazione maritale. Si trattava della legge 17 luglio 1919 n. 1176, Norme circa la capacità giuridica della donna, proposta dal deputato Ettore Sacchi. La riforma introduceva un punto fondamentale, ossia l’articolo 7:
Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espresse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionari o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento.
La riformava abrogava l’articolo 134 del codice civile del Regno d’Italia, per cui una moglie non poteva “donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere e riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, nè transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti”, senza il permesso del coniuge.
Come si riceveva tale permesso? L’autorizzazione doveva essere data con un atto pubblico, e comunque il marito manteneva il diritto di revoca. C’erano delle eccezioni, alquanto discutibili: quando il marito fosse stato “minore, interdetto, assente o condannato a più di un anno di carcere, durante l’espiazione della pena”, o in caso di separazione legale in cui la colpa fosse stata riconosciuta all’uomo. Tali vincoli non esistevano comunque per le donne nubili e per le vedove… magra consolazione.

Si trattava di una norma derivante dall’antico pregiudizio della differente condizione mentale tra donna e uomo, avvertita come l’incapacità femminile di esercitare ferma volontà. Il principio nel tempo fu poi legittimato a rango di principio giuridico, l’infirmitas sexus, che fa discendere dalla differenza di genere una differente condizione giuridica.
Non a caso, nel 1883 la Cassazione di Torino confermava il divieto d’iscrizione di Lidia Poët all’ordine degli avvocati sulla base dell’infirmitas sexus: «L’avvocheria è un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non devono punto immischiarsi le femmine» (qui un approfondimento).
Fu solo dopo la Legge Sacchi che, finalmente, si aprirono alle donne le porte del foro: dopo anni di battaglie nel 1919 gli albi professionali ammisero le prime donne avvocate (abbiamo approfondito l’argomento nell’articolo “Donne, avvocate” ma soprattutto nel nostro libro “Lidia Poët. La prima avvocata“).
La legge Sacchi si deve all’omonimo avvocato ed esponente del Partito Radicale Italiano, ricordato per l’impegno a favore dei movimenti operai e contadini, ma anche per il neutralismo e la contrarietà all’entrata nella Prima Guerra Mondiale. Già nel 1877, l’on. Morelli aveva invece portato le donne ad acquisire la capacità giuridica, nel senso di poter testimoniare negli atti pubblici. Passi lenti ma efficaci, e doverosi.
Già in un articolo del Corriere della Sera del 1914, l’avvocatessa Paolina Tarugi aveva affermato che:
I rapporti tra coniugi debbono essere ispirati soltanto al reciproco affetto, alla reciproca stima e a al conseguimento del bene reciproco e di quello della propria prole.

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Se volete scoprire di più sulle tappe fondamentali dell’emancipazione femminile in Italia non perdete il nostro libro Lidia Poët. La prima avvocata, edito da Le Lucerne per la collana “Massime dal Passato”